di Elena Molinari
Nel ventesimo secolo il dibattito sui diritti umani è entrato a far parte della cultura politica e legale a livello internazionale. E il rispetto dei diritti civili e politici delle persone è diventato per la prima volta oggetto di preoccupazione per la comunità internazionale. Questa maggiore consapevolezza appare oggi minacciata dalla necessità di molti Paesi occidentali di proteggersi da attacchi terroristici, da infiltrazioni di gruppi estremisti e dai conflitti armati combattuti all’interno dei confini di un Paese. David Kretzmer, docente di Diritto internazionale all’Universita’ Ebraica di Gerusalemme e membro per otto anni del comitato Onu per i Diritti umani, da anni si chiede come applicare le leggi sui diritti in contesti in evoluzione e non ben definiti. O all’interno di Paesi che non accettano l’autorità degli organismi internazionali. Kretzmer affronterà questo tema durante un intervento il 24 agosto al Meeting di Rimini.
Professor Kretzmer, una società democratica che si sente minacciata dall’interno può imporre limiti ai diritti dei suoi cittadini?
Ci possono essere limiti, ma devono essere necessari e proporzionali alla minaccia reale, non a quella avvertita. Di solito i diritti che vengono limitati per primi sono quelli d’espressione. Ma qui bisogna fare un distinguo fra i divieti alla libertà d’espressione imposti da un’istituzione, come un’università, che in certi casi possono essere giustificati, e quelli imposti dallo Stato stesso, che lo sono raramente.
In che categoria rientra il caso del divieto di portare il burqa imposto dal governo francese?
È una questione di libertà di religione. La loro religione, non una scelta individuale, impone alle donne musulmane di coprirsi il capo, quindi un divieto del genere crea un conflitto di coscienza. Fatico a vedere il valore di un tale bando, persino all’interno di un’istituzione. Infatti, il comitato per i Diritti umani dell’Onu ha stabilito che il divieto alle donne a coprirsi la testa è una violazione della loro libertà di religione.
Il comitato per i Diritti umani dell’Onu non ha potere coercitivo: che strumenti ha per migliorare il rispetto delle sue raccomandazioni da parte degli Stati che lo riconoscono?
È vero, ma le sue raccomandazioni non vanno inascoltate. Anche i Paesi più problematici oggi almeno tendono a spiegare perché non implementano le raccomandazioni del comitato. Del resto non si può fare molto di più. Il sistema internazionale non è disposto ad andare nella direzione di una maggior coercizione. I trattati istitutivi degli organismi internazionali sono siglati dagli Stati, e gli Stati sono riluttanti ad accettare che un’istituzione esterna possa costringerli a rispettare le sue raccomandazioni, soprattutto sul tema dei diritti umani, che tocca aree sensibili. Nel caso di Paesi omogenei, come in Europa, gli Stati sono invece più disposti a riconoscere i poteri di un organismo esterno.
Quali forze possono spingere oggi un Paese a rispettare i diritti civili e politici dei suoi cittadini?
In Europa e negli Stati Uniti le organizzazioni non governative hanno un ruolo enorme, perché usano le ricerche degli organismi per i diritti umani per legittimare le loro richieste ai governi. Questo meccanismo ha creato una forte spinta al cambiamento. Ma nei Paesi dove non esiste una società aperta non ci sono forze di questo tipo».
Lei ha scritto che nei conflitti armati non internazionali, che si svolgono all’interno dei confini di uno Stato, le leggi umanitarie internazionali non sussistono da sole. Quali norme si possono applicare in questi casi?
I conflitti fra uno Stato e un’entità non statale, come un gruppo terrorista, sono tenuti al rispetto dei diritti umani. Ma non necessariamente alle leggi internazionali sui diritti umani. La difficoltà è nel trovare un equilibrio. Il problema principale è l’uso di forza letale quando una valida alternativa esiste. Non è possibile accettarlo nei conflitti fra entità non statali, mentre è accettabile nelle guerra tradizionali.
Iraq e Afghanistan rientrano in questa categoria?
Sono situazioni sfumate, ma assomigliano più a guerre tradizionali. In Afghanistan, ad esempio, la guerra aveva inizialmente natura internazionale, anche se si potrebbe dire che dopo la prima elezione politica di un governo locale sia diventato un conflitto interno. In realtà le forze Nato non agiscono a nome del governo afgano, non prendono ordini da Kabul.
Gli Usa sono stati accusati di aver ammorbidito la pressione sui diritti umani nei confronti di Cina e Russia, poiché la loro influenza economica è cresciuta. È d’accordo?
La Cina non è parte dell’accordo internazionale Onu per il rispetto dei diritti civili e politici, quindi le sue azioni non sono monitorate dal comitato Onu. Viene monitorata da organismi di natura più politica, come il consiglio Onu per i Diritti umani, erede della commissione per i Diritti umani. Il problema con queste istituzioni è che la loro azione è influenzata da considerazioni politiche e dalla pressione degli Stati membri. Ed è innegabile che gli Stati Uniti hanno allentato la loro pressione sulla Cina perché va contro i loro interessi economici. La Russia viene invece monitorata dal comitato, che non l’ha mai trattata teneramente. Ma anche in questo caso la pressione politica esterna, soprattutto dagli Usa, è calata e non aiuta una maggiore applicazione delle sue raccomandazioni.
Professor Kretzmer, una società democratica che si sente minacciata dall’interno può imporre limiti ai diritti dei suoi cittadini?
Ci possono essere limiti, ma devono essere necessari e proporzionali alla minaccia reale, non a quella avvertita. Di solito i diritti che vengono limitati per primi sono quelli d’espressione. Ma qui bisogna fare un distinguo fra i divieti alla libertà d’espressione imposti da un’istituzione, come un’università, che in certi casi possono essere giustificati, e quelli imposti dallo Stato stesso, che lo sono raramente.
In che categoria rientra il caso del divieto di portare il burqa imposto dal governo francese?
È una questione di libertà di religione. La loro religione, non una scelta individuale, impone alle donne musulmane di coprirsi il capo, quindi un divieto del genere crea un conflitto di coscienza. Fatico a vedere il valore di un tale bando, persino all’interno di un’istituzione. Infatti, il comitato per i Diritti umani dell’Onu ha stabilito che il divieto alle donne a coprirsi la testa è una violazione della loro libertà di religione.
Il comitato per i Diritti umani dell’Onu non ha potere coercitivo: che strumenti ha per migliorare il rispetto delle sue raccomandazioni da parte degli Stati che lo riconoscono?
È vero, ma le sue raccomandazioni non vanno inascoltate. Anche i Paesi più problematici oggi almeno tendono a spiegare perché non implementano le raccomandazioni del comitato. Del resto non si può fare molto di più. Il sistema internazionale non è disposto ad andare nella direzione di una maggior coercizione. I trattati istitutivi degli organismi internazionali sono siglati dagli Stati, e gli Stati sono riluttanti ad accettare che un’istituzione esterna possa costringerli a rispettare le sue raccomandazioni, soprattutto sul tema dei diritti umani, che tocca aree sensibili. Nel caso di Paesi omogenei, come in Europa, gli Stati sono invece più disposti a riconoscere i poteri di un organismo esterno.
Quali forze possono spingere oggi un Paese a rispettare i diritti civili e politici dei suoi cittadini?
In Europa e negli Stati Uniti le organizzazioni non governative hanno un ruolo enorme, perché usano le ricerche degli organismi per i diritti umani per legittimare le loro richieste ai governi. Questo meccanismo ha creato una forte spinta al cambiamento. Ma nei Paesi dove non esiste una società aperta non ci sono forze di questo tipo».
Lei ha scritto che nei conflitti armati non internazionali, che si svolgono all’interno dei confini di uno Stato, le leggi umanitarie internazionali non sussistono da sole. Quali norme si possono applicare in questi casi?
I conflitti fra uno Stato e un’entità non statale, come un gruppo terrorista, sono tenuti al rispetto dei diritti umani. Ma non necessariamente alle leggi internazionali sui diritti umani. La difficoltà è nel trovare un equilibrio. Il problema principale è l’uso di forza letale quando una valida alternativa esiste. Non è possibile accettarlo nei conflitti fra entità non statali, mentre è accettabile nelle guerra tradizionali.
Iraq e Afghanistan rientrano in questa categoria?
Sono situazioni sfumate, ma assomigliano più a guerre tradizionali. In Afghanistan, ad esempio, la guerra aveva inizialmente natura internazionale, anche se si potrebbe dire che dopo la prima elezione politica di un governo locale sia diventato un conflitto interno. In realtà le forze Nato non agiscono a nome del governo afgano, non prendono ordini da Kabul.
Gli Usa sono stati accusati di aver ammorbidito la pressione sui diritti umani nei confronti di Cina e Russia, poiché la loro influenza economica è cresciuta. È d’accordo?
La Cina non è parte dell’accordo internazionale Onu per il rispetto dei diritti civili e politici, quindi le sue azioni non sono monitorate dal comitato Onu. Viene monitorata da organismi di natura più politica, come il consiglio Onu per i Diritti umani, erede della commissione per i Diritti umani. Il problema con queste istituzioni è che la loro azione è influenzata da considerazioni politiche e dalla pressione degli Stati membri. Ed è innegabile che gli Stati Uniti hanno allentato la loro pressione sulla Cina perché va contro i loro interessi economici. La Russia viene invece monitorata dal comitato, che non l’ha mai trattata teneramente. Ma anche in questo caso la pressione politica esterna, soprattutto dagli Usa, è calata e non aiuta una maggiore applicazione delle sue raccomandazioni.
«Avvenire» del 13 agosto 2010
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