di Luca Tremolada
Vent'anni dalla sua nascita e il World Wide Web è in declino. Questo l'incipit della copertina del numero di settembre di Wired Usa dal titolo provocatorio «Il Web è morto, lunga vita a Internet». La storia, commentata ieri sulle pagine del Sole 24Ore e pubblicata sul sito prende spunto da un grafico di Cisco che mostra come negli ultimi dieci anni la percentuale di traffico internet sul Web sia drasticamente diminuita a vantaggio di altri utilizzi come applicazioni, programmi di condivisione, video e altre attività che poco hanno a che vedere con la navigazione.
La tesi viene sostenuta da Chris Anderson, ex direttore di Wired, e dall'editorialista Michael Wolff diviso solo dalle motivazioni che hanno portato a questa trasformazione.
«Ti svegli e controlli la posta sull'iPad – scrive Anderson – con un'applicazione. Durante la colazione ti fai un giro su Facebook, su Twitter e sul New York Times, altre tre applicazioni. Mentre vai in ufficio, ascolti un podcast dal tuo smartphone. Un'altra applicazione. Al lavoro, leggi i feed RSS e parli con i tuoi contatti su Skype e attraverso l'Istant messaging. Altre applicazioni. Alla fine della giornata, torni a casa ti siedi a cena, ascolti musica sulla web radio Pandora, giochi con il servizio online della console Xbox, guardi un film in streaming su Netflix. Hai passato l'intera giornata su internet, ma non sul web. E non sei il solo».
Quella tra il web, inteso come quell'insieme di tecnologia orientate alla navigazione, e le applicazioni sviluppate da soggetti privati che vivono dentro internet non è una distinzione da poco. Secondo Anderson infatti «una delle più importanti svolte nel digitale è stata proprio il passaggio dal mondo aperto del Web a quello di piattaforme chiuse o semi chiuse che usano internet soltanto come mezzo per trasportare». Un passaggio a cui ha contribuito anche il successo dell'iPhone che attraverso le apps ha creato un sistema che Google non può aggredire e che non sempre parla l'Html, il linguaggio del Web. Ma in definitiva i veri responsabili saremmo noi, gli utilizzatori della rete che abbiamo preferito la semplicità delle piattaforme chiuse alle logiche della rete. In sostanza la tesi di Wired è che il Web non è il culmine della rivoluzione digitale ma solo una fase. Il centro dei media interattivi si allontanerebbe sempre di più dall'Html con il rischio che in futuro continueremo ad avere pagine internet, così come oggi continuiamo ad avere cartoline e telegrammi.
Anche per Michael Wolff il Web è in declino ma per ragioni differenti. Secondo l'editorialista di Vanity Fair sostanzialmente sta vincendo il capitalismo che fa profitti. Rispetto al passato il denaro dei capital venture si concentra su chi già domina la rete. Preferiscono Facebook al posto di puntare su altri social network perché sanno che con i suoi 500 milioni di utenti Fb è molto di più del più grande sito del Web. «Secondo la società di analisi Compete - scrive Wolff - nel 2001 i primi dieci siti più visitati negli Stati Uniti producevano il 31 per cento del traffico totale, il 40 per cento nel 2006, il 75 per cento nel 2010». Chi perde è la rete, o meglio la natura aperta del Web responsabile di quella straordinaria stagione di innovazione che abbiamo conosciuto fino a oggi. «Se stiamo scegliendo di chiudere con la logica del web aperto – osserva - è almeno in parte per l'ascesa dei business man, più inclini a ragionare in un'ottica di o-tutto-o-niente dei media tradizionali piuttosto che con la logica utopistica e collettivista del web».
Le due tesi sembrano studiate per stimolare una reazione in Rete. E così è stato. I più puntuali si sono dimostrati Techcrunch , Boing Boing e Gizmodo che ieri hanno reagito alla provocazione di Wired concentrandosi più che sulle tesi sul grafico di Cisco. Secondo Rob Beschizza leggendo meglio i dati, il traffico Web diminuisce in termini relativi solo perché aumenta quello dei video (YouTube). Se consideriamo il sito di condivione di Google Web allora il traffico al posto di diminuire aumenta. E anche tanto, passando da 1 exabyte a 7 exabytes tra 2005 il 2010.
La tesi viene sostenuta da Chris Anderson, ex direttore di Wired, e dall'editorialista Michael Wolff diviso solo dalle motivazioni che hanno portato a questa trasformazione.
«Ti svegli e controlli la posta sull'iPad – scrive Anderson – con un'applicazione. Durante la colazione ti fai un giro su Facebook, su Twitter e sul New York Times, altre tre applicazioni. Mentre vai in ufficio, ascolti un podcast dal tuo smartphone. Un'altra applicazione. Al lavoro, leggi i feed RSS e parli con i tuoi contatti su Skype e attraverso l'Istant messaging. Altre applicazioni. Alla fine della giornata, torni a casa ti siedi a cena, ascolti musica sulla web radio Pandora, giochi con il servizio online della console Xbox, guardi un film in streaming su Netflix. Hai passato l'intera giornata su internet, ma non sul web. E non sei il solo».
Quella tra il web, inteso come quell'insieme di tecnologia orientate alla navigazione, e le applicazioni sviluppate da soggetti privati che vivono dentro internet non è una distinzione da poco. Secondo Anderson infatti «una delle più importanti svolte nel digitale è stata proprio il passaggio dal mondo aperto del Web a quello di piattaforme chiuse o semi chiuse che usano internet soltanto come mezzo per trasportare». Un passaggio a cui ha contribuito anche il successo dell'iPhone che attraverso le apps ha creato un sistema che Google non può aggredire e che non sempre parla l'Html, il linguaggio del Web. Ma in definitiva i veri responsabili saremmo noi, gli utilizzatori della rete che abbiamo preferito la semplicità delle piattaforme chiuse alle logiche della rete. In sostanza la tesi di Wired è che il Web non è il culmine della rivoluzione digitale ma solo una fase. Il centro dei media interattivi si allontanerebbe sempre di più dall'Html con il rischio che in futuro continueremo ad avere pagine internet, così come oggi continuiamo ad avere cartoline e telegrammi.
Anche per Michael Wolff il Web è in declino ma per ragioni differenti. Secondo l'editorialista di Vanity Fair sostanzialmente sta vincendo il capitalismo che fa profitti. Rispetto al passato il denaro dei capital venture si concentra su chi già domina la rete. Preferiscono Facebook al posto di puntare su altri social network perché sanno che con i suoi 500 milioni di utenti Fb è molto di più del più grande sito del Web. «Secondo la società di analisi Compete - scrive Wolff - nel 2001 i primi dieci siti più visitati negli Stati Uniti producevano il 31 per cento del traffico totale, il 40 per cento nel 2006, il 75 per cento nel 2010». Chi perde è la rete, o meglio la natura aperta del Web responsabile di quella straordinaria stagione di innovazione che abbiamo conosciuto fino a oggi. «Se stiamo scegliendo di chiudere con la logica del web aperto – osserva - è almeno in parte per l'ascesa dei business man, più inclini a ragionare in un'ottica di o-tutto-o-niente dei media tradizionali piuttosto che con la logica utopistica e collettivista del web».
Le due tesi sembrano studiate per stimolare una reazione in Rete. E così è stato. I più puntuali si sono dimostrati Techcrunch , Boing Boing e Gizmodo che ieri hanno reagito alla provocazione di Wired concentrandosi più che sulle tesi sul grafico di Cisco. Secondo Rob Beschizza leggendo meglio i dati, il traffico Web diminuisce in termini relativi solo perché aumenta quello dei video (YouTube). Se consideriamo il sito di condivione di Google Web allora il traffico al posto di diminuire aumenta. E anche tanto, passando da 1 exabyte a 7 exabytes tra 2005 il 2010.
«Il Sole 24 Ore» del 19 agosto 2010
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