A Milano i pugni di Oleg, la morte di Emilu
di Alessandro D'Avenia
Dov’eri ieri mattina, Dio? Non a Milano, in viale Abruzzi, dove le mani di Oleg, ragazzo di 25 anni, hanno spappolato la vita di Emilu, donna di 41 anni con l’unica colpa passare da lì. Te l’ho chiesto spesso in questi giorni, Dio. Dove eri quando l’impiegato in odore di licenziamento ha sparato ai suoi colleghi? E dove, quando il ragazzo laureato ha sparato alla fidanzata sedicenne che lo aveva lasciato? Tutte le volte che ti faccio questa domanda, Dio, mi ricordo il consiglio di un amico: «Chiediti piuttosto: dov’era l’uomo?».
Dov’era l’uomo in Oleg disperato per una lite con la fidanzata? Dove si era andato a nascondere il suo spirito, quella cosa che consente di vedere in un’altra persona qualcuno e non qualcosa, di sentirne la vita così come sentiamo la nostra e quella di chi amiamo? Non c’era l’uomo.
Ma questo non mi basta. Perché l’uomo sparisce e il male dilaga sull’innocente? Ritorno al sospetto di prima, divenuto quasi certezza: l’uomo non c’era perché non c’eri tu, Dio.
In viale Gran Sasso alle 8 non c’eri. Questa è la verità: dove Caino uccide Abele, tu non ci sei. Sparisci quando in noi si fa strada l’invidia contro qualcuno che ha qualcosa che ci è stato tolto o non abbiamo. Il male che crediamo di aver subito scatena una fame cieca di punire chi quel qualcosa ce l’ha ancora. Questa è l’origine della violenza, di ogni violenza: l’invidia primordiale del «sarete come lui se mangerete». Non ci sei Dio tutte le volte che do spazio a questa invidia primordiale, tutte le volte che tolgo la vita (fisicamente o moralmente) a qualcuno perché ha qualcosa che io non ho: salute, amore, soldi, lavoro... Quando diminuisco l’uomo, lì Dio non c’è. Il Dio che vorrei, interventista, quello che evita il male che l’uomo vuole compiere, non c’è, perché è stato cacciato già da un pezzo. Mi piacerebbe un Dio meno rispettoso della libertà umana, che salvasse Abele, invece di dire a Caino: «Il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dòminalo». Ma Dio non l’ho inventato io.
Però non mi rassegno e glielo chiedo di nuovo: dov’eri? Domandare è guardare meglio. E pensando ad Abele, scopro che c’eri, ma non dove guardavo. Non dal lato dell’onnipotenza, non dal lato della forza, ma dal lato meno visibile, dal lato fragile. C’eri in un altro modo: nella vittima innocente. Ecco dov’eri.
Emilu è l’innocente crocifissa dai pugni del suo carnefice, che incapace di guarire da solo dalla violenza primordiale, perdonando la donna che lo ha lasciato, punisce un’altra donna innocente in modo cruento. Non è la risposta che mi riporta indietro Emilu, ma è l’unica risposta che non mi lascia solo con il male cieco, il cui unico limite e argine è Cristo, che c’era, quella volta sì, sulla croce, faccia a faccia con il male, una volta per tutte e ha vinto.
Non ci sono soluzioni. In passato le cercavo usando la stessa moneta: cercando i colpevoli contro cui scagliarmi, riproducendo il gesto violento. Ma cercare dei colpevoli non è un bel modo di vivere. La vita non è un giallo, ma piuttosto un viaggio su una barca a vela: con dei bellissimi posti da vedere e a lieto fine. Ogni tanto ci sono le tempeste e la paura di affondare. Quello della tempesta è l’unico momento in cui Dio parla con noi: «Il Signore parlò a Giobbe da dentro il turbine». La parole che Dio dice non sono tanto convincenti, ma a Giobbe non interessano quelle. A lui interessa aver finalmente trovato ciò che il suo cuore cercava: parlare con Dio. I suoi amici e sua moglie non ci riescono. Solo lui che sta dentro il turbine vede Dio: «Allora Giobbe disse: Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Per questo mi ricredo».
Lo sgomento del male senza senso ci costringe al faccia a faccia con Dio e solo quel fiducioso faccia a faccia, seppur nel chiaroscuro della tempesta, ci ricorda che il bene è onnipotente. E questo ci salva da quel male.
Dov’era l’uomo in Oleg disperato per una lite con la fidanzata? Dove si era andato a nascondere il suo spirito, quella cosa che consente di vedere in un’altra persona qualcuno e non qualcosa, di sentirne la vita così come sentiamo la nostra e quella di chi amiamo? Non c’era l’uomo.
Ma questo non mi basta. Perché l’uomo sparisce e il male dilaga sull’innocente? Ritorno al sospetto di prima, divenuto quasi certezza: l’uomo non c’era perché non c’eri tu, Dio.
In viale Gran Sasso alle 8 non c’eri. Questa è la verità: dove Caino uccide Abele, tu non ci sei. Sparisci quando in noi si fa strada l’invidia contro qualcuno che ha qualcosa che ci è stato tolto o non abbiamo. Il male che crediamo di aver subito scatena una fame cieca di punire chi quel qualcosa ce l’ha ancora. Questa è l’origine della violenza, di ogni violenza: l’invidia primordiale del «sarete come lui se mangerete». Non ci sei Dio tutte le volte che do spazio a questa invidia primordiale, tutte le volte che tolgo la vita (fisicamente o moralmente) a qualcuno perché ha qualcosa che io non ho: salute, amore, soldi, lavoro... Quando diminuisco l’uomo, lì Dio non c’è. Il Dio che vorrei, interventista, quello che evita il male che l’uomo vuole compiere, non c’è, perché è stato cacciato già da un pezzo. Mi piacerebbe un Dio meno rispettoso della libertà umana, che salvasse Abele, invece di dire a Caino: «Il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dòminalo». Ma Dio non l’ho inventato io.
Però non mi rassegno e glielo chiedo di nuovo: dov’eri? Domandare è guardare meglio. E pensando ad Abele, scopro che c’eri, ma non dove guardavo. Non dal lato dell’onnipotenza, non dal lato della forza, ma dal lato meno visibile, dal lato fragile. C’eri in un altro modo: nella vittima innocente. Ecco dov’eri.
Emilu è l’innocente crocifissa dai pugni del suo carnefice, che incapace di guarire da solo dalla violenza primordiale, perdonando la donna che lo ha lasciato, punisce un’altra donna innocente in modo cruento. Non è la risposta che mi riporta indietro Emilu, ma è l’unica risposta che non mi lascia solo con il male cieco, il cui unico limite e argine è Cristo, che c’era, quella volta sì, sulla croce, faccia a faccia con il male, una volta per tutte e ha vinto.
Non ci sono soluzioni. In passato le cercavo usando la stessa moneta: cercando i colpevoli contro cui scagliarmi, riproducendo il gesto violento. Ma cercare dei colpevoli non è un bel modo di vivere. La vita non è un giallo, ma piuttosto un viaggio su una barca a vela: con dei bellissimi posti da vedere e a lieto fine. Ogni tanto ci sono le tempeste e la paura di affondare. Quello della tempesta è l’unico momento in cui Dio parla con noi: «Il Signore parlò a Giobbe da dentro il turbine». La parole che Dio dice non sono tanto convincenti, ma a Giobbe non interessano quelle. A lui interessa aver finalmente trovato ciò che il suo cuore cercava: parlare con Dio. I suoi amici e sua moglie non ci riescono. Solo lui che sta dentro il turbine vede Dio: «Allora Giobbe disse: Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Per questo mi ricredo».
Lo sgomento del male senza senso ci costringe al faccia a faccia con Dio e solo quel fiducioso faccia a faccia, seppur nel chiaroscuro della tempesta, ci ricorda che il bene è onnipotente. E questo ci salva da quel male.
«Avvenire» del 7 agosto 2010
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