di Maria Serena Palieri
Maria Giuliana Bigardi, direttrice dell’ufficio scolastico di Treviso, nei giorni scorsi ha lanciato su queste pagine l’allarme-lingua: dal suo osservatorio di Nord-Est il mondo giovanile appare in un drammatico regresso, il cui sintomo è l’uso sempre più ristretto che gli studenti fanno di tempi e modi verbali. Vado, non andrò, faccio, non farei... Siamo alla «generazione presente indicativo»? E, se sì, quali rischi questo comporta? I cervelli dei più giovani. senza ginnastica verbale, si contraggono? Lo chiediamo a Tullio De Mauro, in quanto linguista, ma anche in quanto ex-ministro della Pubblica Istruzione. «Detto così» obietta De Mauro, «ci mette fuori strada. Come nell’intera società italiana, anche nel linguaggio vi sono e si scontrano tendenze contraddittorie. E anche nel mondo giovanile. Mai in tremila anni abbiamo condiviso in pari grado il riferirci a una stessa lingua. Le generazioni giovani in realtà hanno toccato livelli di istruzione ignoti a padri e nonni, le ragazze specialmente. Le prove oggettive Invalsi accennano perfino a piccoli miglioramenti, poca cosa, certamente, dinanzi alla massiccia persistente presenza di insufficienze nel controllo di lettura e matematica. Ma la società adulta (ormai lo sappiamo con dati oggettivi) ha livelli nettamente peggiori, e gli insegnanti ne subiscono le conseguenze, ma stentano a prenderne coscienza. La disattenzione della classe politica non li aiuta».
La lingua, dite voi linguisti, è un corpo vivo. L’ultima frontiera, la contrazione dell’italiano sul modello del linguaggio sms, è un processo fisiologico oppure patologico?
«Sta diventando patologico il dislivello italiano (adulto, anzitutto) tra esigenze di conoscenza di realtà sociali e culturali di crescente complessità e la generalizzazione del dominio di strumenti linguistici, matematici, intellettuali che sarebbero necessari. Ho accennato a dati oggettivi sui livelli di alfabetizzazione della società adulta. L’ultima indagine comparativa internazionale colloca l’Italia al penultimo posto tra i paesi esaminati, prima soltanto della Sierra Leone. E conclude con un dato d’insieme di cui (sai dirmi perché?) nessuno vuol parlare: solo il 20% degli adulti ha gli strumenti linguistici (e matematici) per orientarsi nelle complessità di una società moderna. L’uso linguistico comune non può non soffrirne. Le eccellenti prestazioni linguistiche di alcuni saggisti e di molte scrittrici e scrittori e di poeti interessanti come Mariani o Montalto (ci sono anche loro, i poeti) o l’efficace chiarezza del parlato televisivo di un Dorfles o degli Angela sono in controtendenza».
Dagli anni Sessanta, con l’introduzione della media dell'obbligo, l’Italia, per alcuni decenni, è cresciuta, è diventata più alfabetizzata, dunque più consapevole. Questo «progresso» è ancora in corso oppure stiamo andando all'indietro?
«Accanto all’espansione della scolarità di base - attenzione: espansione tra le giovani generazioni - dagli anni Settanta in poi (ancora nel 1970 metà dei ragazzi non raggiungeva la licenza media), già nei vent’anni precedenti un ruolo formativo e linguistico decisivo aveva svolto la televisione. Ma le pessime leggi dei primi Novanta, mela avvelenata dell’ultimo centrosinistra, hanno spinto tutte le reti, anche pubbliche, alla ricerca di pubblicità e pubblico e quindi all’imbastardimento violento e ottundente dei contenuti, con effetti devastanti su tutta la nostra cultura nel senso ampio di questo termine».
Ecco, se andiamo all’indietro, chi ha la colpa maggiore, la tv, la politica, le famiglie,la scuola?
«Da tre anni ogni settimana per un settimanale faccio una schedina su quel che va succedendo nei sistemi scolastici in giro per il mondo. E posso, devo dirti che nessun paese del mondo, dall’Africa nera compresa agli altri paesi europei, dal Venezuela alla Corea, ha una classe politica e imprenditoriale (avevo sperato molto, ma invano, nella signora Marcegaglia) così tetramente sorda alle esigenze di scuola, università, ricerca come è sorda la nostra attuale. E siccome non riusciamo a selezionare un diverso ceto dirigente portiamo tutti una parte di responsabilità».
Se è vero che i ragazzi tendono a privilegiare il presente indicativo e rifuggono da altri modi e altri tempi, questo cosa vuol dire? È un processo di «americanizzazione»? Oppure, anche dal punto di vista linguistico, a prevalere è l’«eterno presente» di cui parlava Guy Debord a proposito della società dello spettacolo?
«Ma no, non corriamo. Il presente indicativo lo privilegiava anche Giulio Cesare. Lasciate ai linguisti e filologi l’accertamento di dati complicati, delicati. In particolare il sistema verbale italiano è una brutta bestia e perfino scrittori in auge (giornalisti, per la verità) ogni tanto inciampano in qualche “pervenirono” (una bella forma analogica che forse tra un secolo sarà norma, ma per ora no, non lo è)».
Tullio De Mauro cosa consiglia, in quanto linguista, in quanto docente, in quanto ex-ministro, in quanto padre? E, alla fine, in quanto persona di buon senso?
«Aggiungiamo anche: in quanto nonno e nonno di ben tre nipotine. C’è una cosa che in molti (circa un quarto della popolazione) possiamo fare senza troppa spesa e impegno: dire in giro quanto è bello, quanto ci ha conquistato l’ultimo bel libro che abbiamo letto. Poi, procurarci buoni libri e leggerli e col tam tam propagandarli (si sa che è il mezzo accertatamente migliore, assai meglio di recensioni e pubblicità). Più impegno richiede convincere gli amministratori locali a fare qualche tavola rotonda in meno e sforzarsi di aprire e far funzionare una biblioteca di pubblica lettura in ogni paese e in ogni quartiere delle città. È ancor più difficile attrarre l’attenzione della classe politica sulle necessità di investimento per scuola, università, ricerca, biblioteche di conservazione e ricerca, teatri, sale di concerto, orchestre decenti. Da economisti e seri studiosi dello sviluppo apprendiamo che tutto questo paga, dove si ottiene, ma anche costa e impone un riassetto dell’intero bilancio statale. Non è questione di ministri dell’istruzione o cultura, è questione di capi del governo, come in Germania o Usa, Venezuela o Francia, è questione di radicale diversa progettazione dello sviluppo del nostro paese. Qui c’è, potrebbe esserci, gloria per tutti».
La lingua, dite voi linguisti, è un corpo vivo. L’ultima frontiera, la contrazione dell’italiano sul modello del linguaggio sms, è un processo fisiologico oppure patologico?
«Sta diventando patologico il dislivello italiano (adulto, anzitutto) tra esigenze di conoscenza di realtà sociali e culturali di crescente complessità e la generalizzazione del dominio di strumenti linguistici, matematici, intellettuali che sarebbero necessari. Ho accennato a dati oggettivi sui livelli di alfabetizzazione della società adulta. L’ultima indagine comparativa internazionale colloca l’Italia al penultimo posto tra i paesi esaminati, prima soltanto della Sierra Leone. E conclude con un dato d’insieme di cui (sai dirmi perché?) nessuno vuol parlare: solo il 20% degli adulti ha gli strumenti linguistici (e matematici) per orientarsi nelle complessità di una società moderna. L’uso linguistico comune non può non soffrirne. Le eccellenti prestazioni linguistiche di alcuni saggisti e di molte scrittrici e scrittori e di poeti interessanti come Mariani o Montalto (ci sono anche loro, i poeti) o l’efficace chiarezza del parlato televisivo di un Dorfles o degli Angela sono in controtendenza».
Dagli anni Sessanta, con l’introduzione della media dell'obbligo, l’Italia, per alcuni decenni, è cresciuta, è diventata più alfabetizzata, dunque più consapevole. Questo «progresso» è ancora in corso oppure stiamo andando all'indietro?
«Accanto all’espansione della scolarità di base - attenzione: espansione tra le giovani generazioni - dagli anni Settanta in poi (ancora nel 1970 metà dei ragazzi non raggiungeva la licenza media), già nei vent’anni precedenti un ruolo formativo e linguistico decisivo aveva svolto la televisione. Ma le pessime leggi dei primi Novanta, mela avvelenata dell’ultimo centrosinistra, hanno spinto tutte le reti, anche pubbliche, alla ricerca di pubblicità e pubblico e quindi all’imbastardimento violento e ottundente dei contenuti, con effetti devastanti su tutta la nostra cultura nel senso ampio di questo termine».
Ecco, se andiamo all’indietro, chi ha la colpa maggiore, la tv, la politica, le famiglie,la scuola?
«Da tre anni ogni settimana per un settimanale faccio una schedina su quel che va succedendo nei sistemi scolastici in giro per il mondo. E posso, devo dirti che nessun paese del mondo, dall’Africa nera compresa agli altri paesi europei, dal Venezuela alla Corea, ha una classe politica e imprenditoriale (avevo sperato molto, ma invano, nella signora Marcegaglia) così tetramente sorda alle esigenze di scuola, università, ricerca come è sorda la nostra attuale. E siccome non riusciamo a selezionare un diverso ceto dirigente portiamo tutti una parte di responsabilità».
Se è vero che i ragazzi tendono a privilegiare il presente indicativo e rifuggono da altri modi e altri tempi, questo cosa vuol dire? È un processo di «americanizzazione»? Oppure, anche dal punto di vista linguistico, a prevalere è l’«eterno presente» di cui parlava Guy Debord a proposito della società dello spettacolo?
«Ma no, non corriamo. Il presente indicativo lo privilegiava anche Giulio Cesare. Lasciate ai linguisti e filologi l’accertamento di dati complicati, delicati. In particolare il sistema verbale italiano è una brutta bestia e perfino scrittori in auge (giornalisti, per la verità) ogni tanto inciampano in qualche “pervenirono” (una bella forma analogica che forse tra un secolo sarà norma, ma per ora no, non lo è)».
Tullio De Mauro cosa consiglia, in quanto linguista, in quanto docente, in quanto ex-ministro, in quanto padre? E, alla fine, in quanto persona di buon senso?
«Aggiungiamo anche: in quanto nonno e nonno di ben tre nipotine. C’è una cosa che in molti (circa un quarto della popolazione) possiamo fare senza troppa spesa e impegno: dire in giro quanto è bello, quanto ci ha conquistato l’ultimo bel libro che abbiamo letto. Poi, procurarci buoni libri e leggerli e col tam tam propagandarli (si sa che è il mezzo accertatamente migliore, assai meglio di recensioni e pubblicità). Più impegno richiede convincere gli amministratori locali a fare qualche tavola rotonda in meno e sforzarsi di aprire e far funzionare una biblioteca di pubblica lettura in ogni paese e in ogni quartiere delle città. È ancor più difficile attrarre l’attenzione della classe politica sulle necessità di investimento per scuola, università, ricerca, biblioteche di conservazione e ricerca, teatri, sale di concerto, orchestre decenti. Da economisti e seri studiosi dello sviluppo apprendiamo che tutto questo paga, dove si ottiene, ma anche costa e impone un riassetto dell’intero bilancio statale. Non è questione di ministri dell’istruzione o cultura, è questione di capi del governo, come in Germania o Usa, Venezuela o Francia, è questione di radicale diversa progettazione dello sviluppo del nostro paese. Qui c’è, potrebbe esserci, gloria per tutti».
«L’Unità» del 12 agosto 2010
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