Al campionato più fico del mondo manca da morire la bruttezza epica dei campioni alla Carruezzo
di Antonio Gurrado
Perfino in Inghilterra, generalmente restia ad ammettere i meriti altrui, i magazine specializzati hanno salutato con ammirazione la campagna italiana di Sky che presenta gli alter ego brutti dei calciatori più famosi sulle pagine dei giornali, sui manifesti 6x3, sugli schermi televisivi e perfino alla radio, dove non si vede nulla e bisogna mettersi d’impegno per capire chi è brutto e chi no. L’ammirazione è giustificata: il corrispettivo spot di Sky in Inghilterra consta di un accigliatissimo Eric Cantona che tiene concione in uno stadio; né si intuisce a chi stia parlando, visto che gli spalti sono deserti. Una volta decrittato l’accento francese, emerge che se c’è una parola che Cantona non sopporta è “compromesso”, e che chi non accetta compromessi deve come minimo acquistare tutto il pacchetto sportivo satellitare. La campagna italiana vince dunque per originalità, per ironia e paradossalmente per senso estetico.
C’è solo una falla nella macchina pubblicitaria mossa da Sky. Le brutte copie dei campioni, con le maglie scolorite e senza sponsor, i capelli pettinati in maniera surreale, i denti sporgenti e gli occhi smorti, risultano molto più simili all’idea originale di calciatore rispetto alle belle copie in posa plastica, divisa azzimata e in mano un pallone che non ha mai visto una striscia di fango. Basta una registrazione di “Novantesimo Minuto” di trenta o soli vent’anni fa per scoprire che l’immagine del calciatore è sempre stata più simile alle deformità farlocche di Frey, Cambiasso e Legrottaglie che alle loro versioni ripulite e scintillanti. La prevalenza del calciatore brutto risalta inoppugnabile sfogliando gli album Panini. Dal 1960 in poi quasi tutti risultano allergici alla foto segnaletica per la figurina; la posa irrigidita non dona a nessuno e, se mai, ne eterna la profonda antiesteticità.
Sugli album della mia infanzia mi affezionai alla bruttezza epica dei baffoni di Enrico Piccioni (Cremonese), alla palpebra a mezz’asta di Alvise Zago (Torino), al ceffo che mai avrei voluto incontrare in un vicoletto buio di Eupremio Carruezzo (Salernitana). D’accordo, non erano campioni; ma non si può dire che più un calciatore è bravo più diventa bello. Maradona era uno scorfano. Sivori uno sgorbio. Garrincha lasciamo perdere. Perfino George Best, che non era un adone ma vantava reiterati successi con signorine di coscia leggera, rimpiangeva di non essere brutto come Pelé: in tal caso, sosteneva candido, avrebbe avuto tempo di allenarsi e sarebbe stato molto più bravo di lui. Più si arretra nel tempo, più il calcio diventa fantastico e meno è plausibile imbattersi in un narciso come Cristiano Ronaldo, che batte le punizioni in favore di telecamera mettendosi in posa prima di tirare. Nei pionieristici servizi della Settimana Incom l’unico calciatore che si riuscisse a distinguere dagli altri era il portiere; chi andava allo stadio non beneficiava di monitor né di ingrandimenti e chi non ci andava doveva accontentarsi delle foto sgranate sul Calcio Illustrato o, volendo dare un volto al proprio campione favorito, delle caricature di Carlin Bergoglio sul Guerin Sportivo. Il corpo del calciatore non era oggetto di culto né di mera conoscenza e ciò favorì il mito di un’era dai contorni indefiniti. Per le signore il massimo della bellezza era Giuseppe Meazza quando faceva la réclame della brillantina; ma i loro mariti mai lo videro così bello come quando usciva dal campo mezzo scassato con la maglia chiazzata di marrone.
C’è solo una falla nella macchina pubblicitaria mossa da Sky. Le brutte copie dei campioni, con le maglie scolorite e senza sponsor, i capelli pettinati in maniera surreale, i denti sporgenti e gli occhi smorti, risultano molto più simili all’idea originale di calciatore rispetto alle belle copie in posa plastica, divisa azzimata e in mano un pallone che non ha mai visto una striscia di fango. Basta una registrazione di “Novantesimo Minuto” di trenta o soli vent’anni fa per scoprire che l’immagine del calciatore è sempre stata più simile alle deformità farlocche di Frey, Cambiasso e Legrottaglie che alle loro versioni ripulite e scintillanti. La prevalenza del calciatore brutto risalta inoppugnabile sfogliando gli album Panini. Dal 1960 in poi quasi tutti risultano allergici alla foto segnaletica per la figurina; la posa irrigidita non dona a nessuno e, se mai, ne eterna la profonda antiesteticità.
Sugli album della mia infanzia mi affezionai alla bruttezza epica dei baffoni di Enrico Piccioni (Cremonese), alla palpebra a mezz’asta di Alvise Zago (Torino), al ceffo che mai avrei voluto incontrare in un vicoletto buio di Eupremio Carruezzo (Salernitana). D’accordo, non erano campioni; ma non si può dire che più un calciatore è bravo più diventa bello. Maradona era uno scorfano. Sivori uno sgorbio. Garrincha lasciamo perdere. Perfino George Best, che non era un adone ma vantava reiterati successi con signorine di coscia leggera, rimpiangeva di non essere brutto come Pelé: in tal caso, sosteneva candido, avrebbe avuto tempo di allenarsi e sarebbe stato molto più bravo di lui. Più si arretra nel tempo, più il calcio diventa fantastico e meno è plausibile imbattersi in un narciso come Cristiano Ronaldo, che batte le punizioni in favore di telecamera mettendosi in posa prima di tirare. Nei pionieristici servizi della Settimana Incom l’unico calciatore che si riuscisse a distinguere dagli altri era il portiere; chi andava allo stadio non beneficiava di monitor né di ingrandimenti e chi non ci andava doveva accontentarsi delle foto sgranate sul Calcio Illustrato o, volendo dare un volto al proprio campione favorito, delle caricature di Carlin Bergoglio sul Guerin Sportivo. Il corpo del calciatore non era oggetto di culto né di mera conoscenza e ciò favorì il mito di un’era dai contorni indefiniti. Per le signore il massimo della bellezza era Giuseppe Meazza quando faceva la réclame della brillantina; ma i loro mariti mai lo videro così bello come quando usciva dal campo mezzo scassato con la maglia chiazzata di marrone.
«Il Foglio» del 30 agosto 2010
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