Giulio Busi: la rinascimentale vita di un curioso enciclopedico, anima controversa, disperatamente umana
di Alessandro Defilippi
Autunno 1494. Sono i giorni in cui Carlo VIII di Francia, sulla strada per Napoli, entra in Firenze, dopo che i Medici, nella figura di Piero, figlio del rimpianto Magnifico, ne sono stati cacciati. Il 17 novembre, nella città toscana, muore, per cause non accertate, Giovanni Pico della Mirandola, umanista, cabbalista, sospetto d'eresia, fiero nemico dell'astrologia quanto amico dei neoplatonici. Figura ancora oggi simbolicamente significativa, se di un uomo dotato di prodigiosa memoria si diceva che era come Pico; almeno sino all'avvento della rivoluzione digitale,che ci ha purtroppo assolto dall'arte del ricordare. Alla sua morte, Giovanni - o meglio, Pico, come tutti lo chiamiamo- è un estroso trentunenne, di molti amori e ancor più letture e amicizie. È nato a Mirandola, presso Modena, e proviene da un ambiente di parentele e legami sopraffini, daiGonzaga agli Este, ai Boiardo di quel Matteo Maria autore dell' Orlando innamorato.Masoprattutto è uno dei personaggi che, in quell'incipiente Rinascimento (le Americhe vengono scoperte due anni prima della sua scomparsa), determina le nuove coordinate della cultura occidentale. Di Pico, dunque, scrive Giulio Busi in un libro singolare e affascinante, degno peraltro dell'autore. Busi è docente a Berlino, dove dirige l'Istituto di Giudaistica, ed è autore o curatore di testi sopraffini,comeMistica ebraica, curato insieme a Elena Loewenthal. Busi accoppia al rigore del filologo - assoluto, questo, basti compulsare il ricchissimo apparato di note - a un' imprevista verve di narratore. Unmemorialista, verrebbe da dire, se non che Busi narra, come se vi fosse stato presente, i fatti e i pensieri occorsi a personaggi del quindicesimo secolo. E che personaggi: dallo stesso Pico, che l'autore spolvera di ogni ragnatela accademica, a Marsilio Ficino, da Lorenzo de' Medici al Poliziano, fino a quel fecondo milieu di ebrei e di marrani (come venivano chiamati gli ebrei convertiti al cristianesimo) che affolla il nostro Rinascimento. Il Pico di Busi è un curioso enciclopedico, un ricercatore di sapienza. Sapienza che va a scovare persino nella Qabbalah ebraica e negli insegnamenti di personaggi discutibili e spericolati, come Flavio Mitridate, alias Guglielmo Raimondo Moncada, ebreo convertito di Caltabellotta, che per Pico compila e traduce una biblioteca di testi cabbalistici. È anche però un amante focoso, che ci viene descritto durante il tentativo di rapimento della bella Margherita, e una sorta di arbiter elegantiarum. Autentico prototipo di quella fantasia di uomo assoluto che fu di quei tempi, è fondamentalmente, pur nei suoi difetti, impietosamente evidenziati dall'autore, un ricercatore dell'assoluto. Ricerca mescolata a un furioso bisogno di dimostrarsi il migliore, che lo condurrà a pericolose disavventure, come quando certe sue Conclusiones, proposizioni filosofiche, anziché la sospiratafama gli donerannoun'accusa di eresia da parte di papa Innocenzo VIII (legato, tra l'altro, agli autori del famigerato Malleus Maleficarum e allo stesso Torquemada) e una conseguente, salvifica fuga in Francia. Personaggio complesso e controverso, disperatamente umano, Pico ci appare dunque ben degno di stare al centro di un'opera letteraria. Colpisce, come detto sopra, la padronanza narrativa di Giulio Busi, che costruisce il suo romanzo-saggio su episodi salienti, scene di notevole intensità, filtrate da uno stile che ricorda, per alcuni manierismi, certa avanguardia. Il miglior complimento che un lettore non tecnico possa fare al libro è che ne dispiace una certa brevità, e che forse Busi avrebbe potuto osare di più (e chissà che un giorno non decida di farlo), spingendosi più risolutamente sul versante di un romanzo storico ricco, oltre che di eventi e di esattezza, di idee e di domande.
«La Stampa», supplemento «Tutto libri» del 28 agosto 2010
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