di Victor Zaslavsky *
La primavera di Praga ha rappresentato un conflitto, verificatosi su più livelli, tra gruppi conservatori e riformisti sia dentro il blocco sovietico sia all'interno del Movimento comunista internazionale (Mci). Le riforme economiche, che la nuova dirigenza sovietica Brezhnev-Kossygin iniziò a realizzare dopo l'allontanamento di Kruscev, erano indirizzate verso una moderata liberalizzazione. Tali provvedimenti, in maniera inaspettata per i loro promotori, impressero nei Paesi dell'Europa Orientale un potente impulso al riformismo, che uscì dal ristretto ambito economico per intaccare il nucleo strutturale degli ordinamenti politici.
Nel 1968 l'epicentro del riformismo si registrò in Cecoslovacchia. I riformatori cechi eliminando alcune caratteristiche del regime di tipo sovietico, quali la nomenclatura, la censura e il controllo sui mezzi di comunicazione di massa, tentarono di costruire un «socialismo dal volto umano». Il Pci, il più grande partito comunista dell'Europa Occidentale, si affrettò a mostrare il proprio sostegno al corso riformista di Alexander Dubcek in contrasto con la posizione filosovietica assunta nel 1956 dopo la rivolta ungherese. Il programma dei riformatori cechi apriva al Pci ampie possibilità di rafforzare la propria influenza e fu accolto con entusiasmo dalla sua dirigenza.
Il ruolo dei dirigenti italiani
Nel maggio 1968 Luigi Longo visitò la Cecoslovacchia. Il suo viaggio fu concepito come «un'aperta manifestazione di solidarietà politica dei comunisti italiani nei confronti della nuova direzione cecoslovacca». Al suo ritorno, Longo riferì alla Direzione del Pci che erano «fuori questione il carattere socialista del sistema, l'appartenenza al campo socialista e i rapporti di amicizia con l'Urss», menzionando tuttavia anche segnali di «una certa diffidenza della classe operaia» verso l'orientamento della nuova dirigenza cecoslovacca. Contemporaneamente Enrico Berlinguer, futuro segretario del Pci al posto di Longo, visitò l'Ungheria per accertare quanto serie fossero le minacce sovietiche al corso riformista del Pcc (Partito comunista cecoslovacco). Entrambi i leader italiani tornarono con la convinzione che non vi fossero motivi di apprensione. Secondo quanto disse Longo: «Non dovremmo preoccuparci... Il nostro sostegno al rinnovamento in Cecoslovacchia trova assai soddisfatti quei compagni». In realtà, com'è evidente dalla documentazione di parte sovietica, la reazione dell'Urss agli avvenimenti cecoslovacchi fu completamente opposta alle conclusioni dei dirigenti del Pci.
La crescente preoccupazione di Mosca verso ciò che stava accadendo in Cecoslovacchia era rafforzata dalla pressione dei leader dei Paesi socialisti. Già il 21 marzo 1968 Brezhnev informò il Politburo che Gomulka, Kadar e Zivkov avevano richiesto «che il Pcus prendesse provvedimenti per regolarizzare la situazione in Cecoslovacchia, ma senza indicare in concreto quali fossero queste misure». Al momento dell'ingresso delle truppe in Cecoslovacchia il 19-20 agosto, si trovavano in villeggiatura in Unione Sovietica più di 250 leader dei partiti comunisti dei Paesi capitalisti, verso i quali la dirigenza del Pcus mise immediatamente in atto un «lavoro di chiarificazione».
A Roma erano rimasti solo alcuni membri della Direzione del Pci, compreso Giorgio Napolitano. In contatto telefonico con Longo a Mosca, il 21 agosto essi emisero il primo comunicato del Pci in cui veniva espresso un «grave dissenso» rispetto all'intervento, definito «ingiustificato», e dichiararono la propria solidarietà con la politica di rinnovamento intrapresa dal Pcc, sottolineando però «profondo, fraterno e schietto rapporto» con il Pcus. Il 23 agosto tutti i membri della dirigenza del Pci tornarono a Roma. Nella riunione della Direzione alcuni membri espressero un giudizio critico senza precedenti verso le azioni del Pcus. Per esempio, Terracini dichiarò che la parte sovietica aveva compiuto un errore colossale e che egli si rifiutava di identificare il socialismo con il Pcus. Giancarlo Pajetta propose di rivedere il rapporto del Pci verso i finanziamenti sovietici, per avere la possibilità di svolgere una politica autonoma e perché «ci sono dei prezzi che non possiamo pagare».
I nuovi documenti
Longo tentò di smussare gli angoli, riaffermando la necessità di «differenziarci fortemente dalla canea imperialistica e reazionaria, tendendo a strappare alla reazione le forze socialiste e democratiche». Si appellò al ritorno alla vecchia formula di Togliatti dell'«unità nella diversità» come il principio dei rapporti interpartitici nel Mci. Il 2 settembre il Politburo indirizzò ai partiti comunisti dei Paesi capitalistici attraverso i canali del Kgb una lettera circolare, in cui si tentava di mostrare «la necessità e l'urgenza» dell'invio delle truppe alleate. Scritto nello spirito della falsificazione staliniana, il documento dichiarava, ad esempio: «È stato accertato che le forze controrivoluzionarie disponevano di una grande quantità di armi. Solamente nei primi giorni dai nascondigli e dagli scantinati sono state sequestrate alcune migliaia di fucili automatici, centinaia di mitragliatrici, decine di bazooka. Sono stati ritrovati anche mortai e altre armi pesanti». Nella lettera veniva nuovamente ripetuta la dottrina di Brezhnev sulla sovranità limitata dei Paesi socialisti.
La nuova documentazione dagli archivi moscoviti fornisce un quadro chiaro della natura delle informazioni che giungevano a Mosca dall'Italia. Così, alcuni giorni dopo l'intervento, un diplomatico sovietico inviò a Mosca il resoconto di un incontro con un collega polacco, che a sua volta riceveva informazioni direttamente da uno dei membri del CC del Pci.
La situazione nel Pci veniva descritta nel modo seguente. Nella maggioranza delle organizzazioni di base erano stati espressi «incomprensione e disaccordo» con la posizione della dirigenza del Pci sulla Cecoslovacchia: «Tra i semplici iscritti è molto diffusa l'opinione che l'Unione Sovietica e gli altri quattro Paesi socialisti hanno adottato misure drastiche nel caso cecoslovacco proprio perché avrebbero avuto serie ragioni per farlo». Dopo una settimana lo stesso diplomatico sovietico s'incontrò con l'ambasciatore polacco in Italia, il quale riferì a Mosca che nella dirigenza del Pci «le tendenze social-democratiche al suo vertice sono forti» e lo stesso partito «è infestato da elementi piccolo-borghesi e social-democratici».
Alla fine di dicembre il vicedirettore del Kgb presentò al CC del Pcus le conclusioni alle quali era giunta la propria organizzazione sulla base di un'analisi sintetica delle informazioni sulla situazione interna al Pci. Queste possono essere così riassunte: la posizione del Pci sugli avvenimenti in Cecoslovacchia è sottoposta a dura critica da parte di un notevole gruppo di membri del partito, in particolare, di comunisti con elevata anzianità e di cariche inferiori, soprattutto nelle organizzazioni operaie e contadine; l'intellighenzia di partito, gli attivisti delle federazioni e la gioventù studentesca sostanzialmente appoggiano la posizione della dirigenza del Pci sulla questione cecoslovacca; singoli dirigenti del Pci (segue riferimento ad Amendola, Terracini e Pajetta) nelle discussioni private sono favorevoli all'indebolimento dei legami con i partiti comunisti dei cinque Paesi socialisti che hanno mandato le truppe in Cecoslovacchia.
La leva dei finanziamenti
Non vi è dubbio che le informazioni sulla situazione all'interno del Pci rafforzarono la certezza della dirigenza sovietica che la resistenza del partito italiano non dovesse durare a lungo, e non solo perché tra i dirigenti esisteva una forte corrente filosovietica, ma anche perché la base appoggiava Mosca e non i propri leader.
Quali strumenti aveva in mano Mosca per agire sul Pci? Il primo e più immediato era la riduzione dei finanziamenti. Il Pci fu sempre al primo posto tra i partiti comunisti dei Paesi capitalistici per l'entità delle somme di denaro ricevute dal Pcus. Dopo che nel 1968 sorsero divergenze tra il Pcus e il Pci a proposito della questione ceca, i leader sovietici utilizzarono immediatamente la leva dei finanziamenti. Quando il rappresentante del Pci Armando Cossutta s'incontrò in ottobre con Boris Ponomarev, responsabile per il Politburo dei rapporti con i partiti comunisti occidentali, questi gli espresse subito «meraviglia, delusione e sdegno» per le posizioni di alcuni membri della dirigenza del Pci, accusandoli di vicinanza alla socialdemocrazia. Toccando il tema delle sovvenzioni al Pci, senza formalità Ponomarev affermò che le nostre «tasche non sono inesauribili» e che «in questo momento vengono in prima fila gli aiuti al Vietnam, a Cuba, ai Paesi arabi».
Nel 1969 i finanziamenti diretti, stanziati nella misura di 7 milioni di dollari, furono congelati e bloccati a 3,7 milioni. Le sovvenzioni rimasero allo stesso livello fino al 1972 quando, su richiesta di Longo, Mosca aumentò il finanziamento diretto alla cifra di 6,2 milioni di dollari. Mosca minacciò di chiudere un'altra, anche più importante, fonte di finanziamento al Pci: i rapporti commerciali delle ditte italiane con l'Unione Sovietica, stipulati grazie all'intermediazione del Pci, per i quali le stesse ditte pagavano al partito una percentuale fissa sul costo delle transazioni. Mosca aveva inoltre uno strumento di pressione sulla dirigenza del Pci ancora più potente: la minaccia di una scissione del partito, da cui sarebbe uscita la maggioranza filosovietica. Anche i dirigenti del Pci sapevano che la loro posizione di "riprovazione" della condotta sovietica godeva di un sostegno limitato.
Su tutti i membri della direzione produsse indubbiamente una profonda impressione la relazione di Napolitano sugli umori nel partito, presentata alla riunione del 23 agosto 1968: i dirigenti locali approvavano «all'unanimità o quasi» il comunicato che parlava di un «grave dissenso tra il Pci e il Pcus», mentre la base era favorevole a Mosca. Così, sin dall'inizio vi era nella leadership comunista una diffusa consapevolezza della necessità di sanare al più presto il conflitto con l'Urss.
La ricerca della terza via
Il culmine del dissenso del Pci era rappresentato dalla posizione di Berlinguer, che nel settembre 1968 previde addirittura «l'eventualità di una lotta politica con i compagni sovietici». Longo potè definire l'intervento in Cecoslovacchia «un tragico errore», ma fino alla fine continuò a insistere sul fatto che nel «grande scontro che è in atto tra socialismo e capitalismo... noi staremo sempre dalla parte del socialismo, dei Paesi e dei partiti che hanno realizzato il socialismo». Senza dubbio, i finanziamenti sovietici ebbero un ruolo importante nell'incapacità di troncare con l'Urss, perché la rottura con il Pcus, secondo le parole di Longo, avrebbe condotto «a gravi limitazioni politiche e materiali».
Ma più importante fu il fattore identitario dei comunisti, fondato sull'anticapitalismo e la demonizzazione della socialdemocrazia. Nei decenni seguiti alla Primavera di Praga nel Pci si formò e si consolidò una «cultura della crisi» sui generis, secondo cui la crisi è presente ovunque nel mondo capitalistico e nei rapporti internazionali, senza che ci si accorgesse che la sua origine e il suo epicentro si trovavano nel blocco sovietico e nel Mci. L'identità comunista condusse all'incapacità di rendersi conto della natura della crisi e spinse i comunisti italiani alla ricerca di una mitica "terza via" tra il sistema sovietico e la socialdemocrazia, a un eurocomunismo privo di vita, all'antiamericanismo virulento e all'elogio del Terzo mondo come sorgente della rivoluzione anticapitalistica.
Anche i più liberali tra i comunisti italiani, come Amendola, non si decisero a condannare le violazioni sovietiche di sovranità e dei diritti umani, poiché questo «avrebbe potuto aiutare le forze di destra» o mettere in discussione la politica di distensione. Una delle posizioni fondamentali più contraddittorie dei comunisti italiani fu il riconoscimento dei diritti dei popoli oppressi del Terzo Mondo alla difesa delle proprie prerogative fino alla lotta armata, nello stesso momento in cui tale diritto veniva rifiutato alle vittime dell'aggressione sovietica. Come giustamente concluse Cernyaev, uno dei responsabili del Pcus per i rapporti con i partiti comunisti occidentali, negli ultimi anni questi partiti «avvertirono l'inutilità del movimento comunista sia per la maggior parte dei Paesi in cui era ufficialmente presente, sia - fatto fondamentale - per la stessa Unione Sovietica». Non essendo in condizione di giungere a una rottura con il fallimentare sistema sovietico, il Pci condannò se stesso alla scomparsa.
Nel 1968 l'epicentro del riformismo si registrò in Cecoslovacchia. I riformatori cechi eliminando alcune caratteristiche del regime di tipo sovietico, quali la nomenclatura, la censura e il controllo sui mezzi di comunicazione di massa, tentarono di costruire un «socialismo dal volto umano». Il Pci, il più grande partito comunista dell'Europa Occidentale, si affrettò a mostrare il proprio sostegno al corso riformista di Alexander Dubcek in contrasto con la posizione filosovietica assunta nel 1956 dopo la rivolta ungherese. Il programma dei riformatori cechi apriva al Pci ampie possibilità di rafforzare la propria influenza e fu accolto con entusiasmo dalla sua dirigenza.
Il ruolo dei dirigenti italiani
Nel maggio 1968 Luigi Longo visitò la Cecoslovacchia. Il suo viaggio fu concepito come «un'aperta manifestazione di solidarietà politica dei comunisti italiani nei confronti della nuova direzione cecoslovacca». Al suo ritorno, Longo riferì alla Direzione del Pci che erano «fuori questione il carattere socialista del sistema, l'appartenenza al campo socialista e i rapporti di amicizia con l'Urss», menzionando tuttavia anche segnali di «una certa diffidenza della classe operaia» verso l'orientamento della nuova dirigenza cecoslovacca. Contemporaneamente Enrico Berlinguer, futuro segretario del Pci al posto di Longo, visitò l'Ungheria per accertare quanto serie fossero le minacce sovietiche al corso riformista del Pcc (Partito comunista cecoslovacco). Entrambi i leader italiani tornarono con la convinzione che non vi fossero motivi di apprensione. Secondo quanto disse Longo: «Non dovremmo preoccuparci... Il nostro sostegno al rinnovamento in Cecoslovacchia trova assai soddisfatti quei compagni». In realtà, com'è evidente dalla documentazione di parte sovietica, la reazione dell'Urss agli avvenimenti cecoslovacchi fu completamente opposta alle conclusioni dei dirigenti del Pci.
La crescente preoccupazione di Mosca verso ciò che stava accadendo in Cecoslovacchia era rafforzata dalla pressione dei leader dei Paesi socialisti. Già il 21 marzo 1968 Brezhnev informò il Politburo che Gomulka, Kadar e Zivkov avevano richiesto «che il Pcus prendesse provvedimenti per regolarizzare la situazione in Cecoslovacchia, ma senza indicare in concreto quali fossero queste misure». Al momento dell'ingresso delle truppe in Cecoslovacchia il 19-20 agosto, si trovavano in villeggiatura in Unione Sovietica più di 250 leader dei partiti comunisti dei Paesi capitalisti, verso i quali la dirigenza del Pcus mise immediatamente in atto un «lavoro di chiarificazione».
A Roma erano rimasti solo alcuni membri della Direzione del Pci, compreso Giorgio Napolitano. In contatto telefonico con Longo a Mosca, il 21 agosto essi emisero il primo comunicato del Pci in cui veniva espresso un «grave dissenso» rispetto all'intervento, definito «ingiustificato», e dichiararono la propria solidarietà con la politica di rinnovamento intrapresa dal Pcc, sottolineando però «profondo, fraterno e schietto rapporto» con il Pcus. Il 23 agosto tutti i membri della dirigenza del Pci tornarono a Roma. Nella riunione della Direzione alcuni membri espressero un giudizio critico senza precedenti verso le azioni del Pcus. Per esempio, Terracini dichiarò che la parte sovietica aveva compiuto un errore colossale e che egli si rifiutava di identificare il socialismo con il Pcus. Giancarlo Pajetta propose di rivedere il rapporto del Pci verso i finanziamenti sovietici, per avere la possibilità di svolgere una politica autonoma e perché «ci sono dei prezzi che non possiamo pagare».
I nuovi documenti
Longo tentò di smussare gli angoli, riaffermando la necessità di «differenziarci fortemente dalla canea imperialistica e reazionaria, tendendo a strappare alla reazione le forze socialiste e democratiche». Si appellò al ritorno alla vecchia formula di Togliatti dell'«unità nella diversità» come il principio dei rapporti interpartitici nel Mci. Il 2 settembre il Politburo indirizzò ai partiti comunisti dei Paesi capitalistici attraverso i canali del Kgb una lettera circolare, in cui si tentava di mostrare «la necessità e l'urgenza» dell'invio delle truppe alleate. Scritto nello spirito della falsificazione staliniana, il documento dichiarava, ad esempio: «È stato accertato che le forze controrivoluzionarie disponevano di una grande quantità di armi. Solamente nei primi giorni dai nascondigli e dagli scantinati sono state sequestrate alcune migliaia di fucili automatici, centinaia di mitragliatrici, decine di bazooka. Sono stati ritrovati anche mortai e altre armi pesanti». Nella lettera veniva nuovamente ripetuta la dottrina di Brezhnev sulla sovranità limitata dei Paesi socialisti.
La nuova documentazione dagli archivi moscoviti fornisce un quadro chiaro della natura delle informazioni che giungevano a Mosca dall'Italia. Così, alcuni giorni dopo l'intervento, un diplomatico sovietico inviò a Mosca il resoconto di un incontro con un collega polacco, che a sua volta riceveva informazioni direttamente da uno dei membri del CC del Pci.
La situazione nel Pci veniva descritta nel modo seguente. Nella maggioranza delle organizzazioni di base erano stati espressi «incomprensione e disaccordo» con la posizione della dirigenza del Pci sulla Cecoslovacchia: «Tra i semplici iscritti è molto diffusa l'opinione che l'Unione Sovietica e gli altri quattro Paesi socialisti hanno adottato misure drastiche nel caso cecoslovacco proprio perché avrebbero avuto serie ragioni per farlo». Dopo una settimana lo stesso diplomatico sovietico s'incontrò con l'ambasciatore polacco in Italia, il quale riferì a Mosca che nella dirigenza del Pci «le tendenze social-democratiche al suo vertice sono forti» e lo stesso partito «è infestato da elementi piccolo-borghesi e social-democratici».
Alla fine di dicembre il vicedirettore del Kgb presentò al CC del Pcus le conclusioni alle quali era giunta la propria organizzazione sulla base di un'analisi sintetica delle informazioni sulla situazione interna al Pci. Queste possono essere così riassunte: la posizione del Pci sugli avvenimenti in Cecoslovacchia è sottoposta a dura critica da parte di un notevole gruppo di membri del partito, in particolare, di comunisti con elevata anzianità e di cariche inferiori, soprattutto nelle organizzazioni operaie e contadine; l'intellighenzia di partito, gli attivisti delle federazioni e la gioventù studentesca sostanzialmente appoggiano la posizione della dirigenza del Pci sulla questione cecoslovacca; singoli dirigenti del Pci (segue riferimento ad Amendola, Terracini e Pajetta) nelle discussioni private sono favorevoli all'indebolimento dei legami con i partiti comunisti dei cinque Paesi socialisti che hanno mandato le truppe in Cecoslovacchia.
La leva dei finanziamenti
Non vi è dubbio che le informazioni sulla situazione all'interno del Pci rafforzarono la certezza della dirigenza sovietica che la resistenza del partito italiano non dovesse durare a lungo, e non solo perché tra i dirigenti esisteva una forte corrente filosovietica, ma anche perché la base appoggiava Mosca e non i propri leader.
Quali strumenti aveva in mano Mosca per agire sul Pci? Il primo e più immediato era la riduzione dei finanziamenti. Il Pci fu sempre al primo posto tra i partiti comunisti dei Paesi capitalistici per l'entità delle somme di denaro ricevute dal Pcus. Dopo che nel 1968 sorsero divergenze tra il Pcus e il Pci a proposito della questione ceca, i leader sovietici utilizzarono immediatamente la leva dei finanziamenti. Quando il rappresentante del Pci Armando Cossutta s'incontrò in ottobre con Boris Ponomarev, responsabile per il Politburo dei rapporti con i partiti comunisti occidentali, questi gli espresse subito «meraviglia, delusione e sdegno» per le posizioni di alcuni membri della dirigenza del Pci, accusandoli di vicinanza alla socialdemocrazia. Toccando il tema delle sovvenzioni al Pci, senza formalità Ponomarev affermò che le nostre «tasche non sono inesauribili» e che «in questo momento vengono in prima fila gli aiuti al Vietnam, a Cuba, ai Paesi arabi».
Nel 1969 i finanziamenti diretti, stanziati nella misura di 7 milioni di dollari, furono congelati e bloccati a 3,7 milioni. Le sovvenzioni rimasero allo stesso livello fino al 1972 quando, su richiesta di Longo, Mosca aumentò il finanziamento diretto alla cifra di 6,2 milioni di dollari. Mosca minacciò di chiudere un'altra, anche più importante, fonte di finanziamento al Pci: i rapporti commerciali delle ditte italiane con l'Unione Sovietica, stipulati grazie all'intermediazione del Pci, per i quali le stesse ditte pagavano al partito una percentuale fissa sul costo delle transazioni. Mosca aveva inoltre uno strumento di pressione sulla dirigenza del Pci ancora più potente: la minaccia di una scissione del partito, da cui sarebbe uscita la maggioranza filosovietica. Anche i dirigenti del Pci sapevano che la loro posizione di "riprovazione" della condotta sovietica godeva di un sostegno limitato.
Su tutti i membri della direzione produsse indubbiamente una profonda impressione la relazione di Napolitano sugli umori nel partito, presentata alla riunione del 23 agosto 1968: i dirigenti locali approvavano «all'unanimità o quasi» il comunicato che parlava di un «grave dissenso tra il Pci e il Pcus», mentre la base era favorevole a Mosca. Così, sin dall'inizio vi era nella leadership comunista una diffusa consapevolezza della necessità di sanare al più presto il conflitto con l'Urss.
La ricerca della terza via
Il culmine del dissenso del Pci era rappresentato dalla posizione di Berlinguer, che nel settembre 1968 previde addirittura «l'eventualità di una lotta politica con i compagni sovietici». Longo potè definire l'intervento in Cecoslovacchia «un tragico errore», ma fino alla fine continuò a insistere sul fatto che nel «grande scontro che è in atto tra socialismo e capitalismo... noi staremo sempre dalla parte del socialismo, dei Paesi e dei partiti che hanno realizzato il socialismo». Senza dubbio, i finanziamenti sovietici ebbero un ruolo importante nell'incapacità di troncare con l'Urss, perché la rottura con il Pcus, secondo le parole di Longo, avrebbe condotto «a gravi limitazioni politiche e materiali».
Ma più importante fu il fattore identitario dei comunisti, fondato sull'anticapitalismo e la demonizzazione della socialdemocrazia. Nei decenni seguiti alla Primavera di Praga nel Pci si formò e si consolidò una «cultura della crisi» sui generis, secondo cui la crisi è presente ovunque nel mondo capitalistico e nei rapporti internazionali, senza che ci si accorgesse che la sua origine e il suo epicentro si trovavano nel blocco sovietico e nel Mci. L'identità comunista condusse all'incapacità di rendersi conto della natura della crisi e spinse i comunisti italiani alla ricerca di una mitica "terza via" tra il sistema sovietico e la socialdemocrazia, a un eurocomunismo privo di vita, all'antiamericanismo virulento e all'elogio del Terzo mondo come sorgente della rivoluzione anticapitalistica.
Anche i più liberali tra i comunisti italiani, come Amendola, non si decisero a condannare le violazioni sovietiche di sovranità e dei diritti umani, poiché questo «avrebbe potuto aiutare le forze di destra» o mettere in discussione la politica di distensione. Una delle posizioni fondamentali più contraddittorie dei comunisti italiani fu il riconoscimento dei diritti dei popoli oppressi del Terzo Mondo alla difesa delle proprie prerogative fino alla lotta armata, nello stesso momento in cui tale diritto veniva rifiutato alle vittime dell'aggressione sovietica. Come giustamente concluse Cernyaev, uno dei responsabili del Pcus per i rapporti con i partiti comunisti occidentali, negli ultimi anni questi partiti «avvertirono l'inutilità del movimento comunista sia per la maggior parte dei Paesi in cui era ufficialmente presente, sia - fatto fondamentale - per la stessa Unione Sovietica». Non essendo in condizione di giungere a una rottura con il fallimentare sistema sovietico, il Pci condannò se stesso alla scomparsa.
* Victor Zaslavsky, scomparso da non molto, è stato docente alla Luiss e autore di «Il consenso organizzato» (1981), «Dopo l'Unione Sovietica» (1991), «Pulizia etnica. Il massacro di Katyn» (2006) e, con Elena Aga-Rossi, nel 2007 «Togliatti e Stalin» (tutti editi da Il Mulino)
«Il Sole 24 Ore» del 4 giugno 2008
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