di Vincenzo Grienti
Dilettanti allo sbaraglio lungo le vie del web o esperti di nuovi media competenti e capaci di cavalcare le onde del mare magnum dei bit. Il futuro del rapporto persona-personal computer ha questa doppia faccia anche quando il Web 2.0 si trasformerà in 3.0, 4.0 e così via. Per il New York Times il 50% dei blogger scrive con l’unico scopo di raccontare e condividere le proprie esperienze personali. Il motto di YouTube recita «broadcast yourself», cioè «trasmetti te stesso». E noi? «Lo facciamo, con tutto lo sfrontato autocompiacimento del mitologico Narciso. Se i mezzi di comunicazione tradizionali hanno lasciato il posto a media personalizzati, internet è ormai uno specchio che ci riflette». Ne è convinto uno tra i principali critici contemporanei della Rete: Andrew Keen, che vive a Berkeley, in California, e ha scritto molto sulla cultura, sui media e sulla tecnologia. Il suo blog ha scatenato diverse polemiche da parte degli entusiasti del web, o ome li chiama lui «tecno-utopisti» per via delle sue affermazioni nel libro The cult of the amateur che in Italia è uscito tradotto con il titolo Dilettanti.com edito dalla De Agostini. Il volume – pubblicato in quindici lingue – non manca di prendere di petto applicazioni e software, modalità di accesso a Internet ma soprattutto critica i media fondati sulla creazione dei contenuti da parte delgi utenti, come per esempio i diari on line, primo tra tutti il blog: «Sono aumentati così vertiginosamente da mettere in pericolo la nostra capacità di distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è reale da ciò che è immaginario – spiega Keen –. Oggi i ragazzi non sono più in grado di comprendere la differenza tra una notizia credibile firmata da un giornalista autorevole e ciò che leggono su joeshmoe.blogspot.com». Per questi, che Keen chiama «utopisti della generazione Y», ciascun commento rappresenta semplicemente un’altra versione della realtà. «La finzione non è che una versione alternativa dei fatti».
Keen bacchetta anche Wikipedia: «È l’enciclopedia on line al cui interno chiunque sia dotato di pollici opponibili e del diploma elementare può pubblicare qualsiasi cosa su un qualunque argomento, dagli Ac/Dc allo zoroastrismo». Ma perché queste critiche? «Non dobbiamo lasciarci abbindolare dal culto del dilettante, con la sua diffusione della cultura "da banco", il suo abbraccio rousseauiano dell’innocenza e della giovinezza – dice Keen –. Competenza e sapere, dobbiamo ricordarlo a noi stessi, sono generalmente il risultato dell’esperienza e del mestiere, dell’impegno di una vita teso alla conoscenza e all’atto creativo. Dobbiamo accettare la spesso sconfortante verità che il talento è universalmente distribuito e che le opinioni della maggior parte della gente non sono interessanti né hanno valore per la restante parte. Il rimedio è di continuare a sostenere i mezzi a pagamento privati con scrittori di talento, giornalisti, editorialisti, commentatori e produttori cinematografici». Il rimedio a tutto questo è uno solo: «Comperare i giornali, comperare i libri, pagare per la musica e i film. Se noi questo lo facciamo online o no non ha importanza. Io sono assolutamente a favore di Internet come distributore di piattaforme di contenuti, fino a quando questo sostiene un sistema accettabile di una classe professionale creativa».
Un modo molto semplice per dire "no" alla cultura del «copia-e-incolla» di cui spesso il Web 2.0 viene accusato? «La rivoluzione del Web 2.0 ha promesso di diffondere a un numero sempre più ampio di persone una sempre più ampia conoscenza, ma in ogni momento ci si interroga sull’affidabilità, l’accuratezza e la verità delle informazioni che troviamo in rete. Allo stesso tempo le istituzioni culturali come i quotidiani, le riviste, il mondo della musica e del cinema sono minacciate da una mole di contenuti amatoriali gratuiti e generati dagli utenti stessi. Se siamo tutti dilettanti, non ci sono più esperti. Se anonimi autori di blog e videoamatori, non condizionati da regole degli standard professionali e dei filtri editoriali, possono manipolare l’opinione pubblica, la verità si trasforma in merce da acquistare, vendere, impacchettare».
Le società del Web 2.0 stanno tutte costruendo modelli di mercato basati sul libero contenuto generato direttamente dall’utente, ma poi vendono pubblicità contro questo contenuto. «È difficile competere con il libero mercato, specialmente se, come accade nei giornali tradizionali, bisogna pagare i reporter per il loro lavoro. Quindi i giornali tradizionali e le riviste si stanno arrovellando per cercare un nuovo modello di mercato. In America questa situazione è sfociata in una profonda crisi economica di tutti i media tradizionali, dalle riviste ai quotidiani agli editori ai network televisivi».
«Avvenire» del 14 agosto 2010
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