di Mimmo Candito
Io, reporter di guerra, sono morto vent’anni fa, oggi, giorno 1 agosto del ’90, quando i carri armati di Saddam invasero e occuparono in poche ore il Kuwait, e puntarono i loro cannoni sui deserti gialli del re del petrolio, l’Arabia Saudita. Non lo capii subito, che ero stato ammazzato.
Ma quando tornai a casa dopo 8 mesi in quei deserti, e mi invitarono in giro per l’Italia a raccontare la guerra del «Desert Storm» (ero il reporter italiano più a lungo rimasto tra i cannoni e la sabbia del Golfo), lo scoprii presto che io ero proprio morto: parlavo e parlavo, pensando di svelarla io la guerra che avevo vissuto, da dentro, testimone diretto, ma a quelli che avevo di fronte, al pubblico che era venuto ad ascoltarmi non glie ne fregava niente del mio racconto, perché la guerra l’avevano fatta loro ancor meglio di me quando, la sera alle 8, ogni sera alle 8 per tanti lunghi mesi, si erano seduti sul divano del salotto, si erano calati l’elmetto in testa, avevano acceso il televisore, ed ecco che già stavano essi stessi a Khobar, a Dharan, a Ryadh, al Afr al-Batìn.
A farmi morto furono un vecchio militare grande e grosso, il gen. Schwarzkopf, detto l’Orso ma furbo come una faina, e poi quella diabolica macchina delle illusioni che si chiama tv e che in quei mesi d’inferno prese il nome eterno di Peter Arnett e, alla fine, di Cnn. L’Orso fece una drittata che ancora oggi è legge sovrana. In quell’agosto del ’90, prima di partire da Washington per venire in Arabia a comandare il Desert Storm, si era presentato a rapporto dal suo capo, George Bush. Il Presidente gli fece gli auguri per l’impresa, e mentre gli stringeva la mano gli disse anche: «Ma ora, caro Schawrz, mi raccomando, non combattiamo più con un braccio legato dietro la schiena». Quel braccio, a Schwarz e al suo Presidente, glielo avevamo legato noi, i reporter di guerra, che in Vietnam avevamo raccontato che cosa davvero era l’intervento americano in quella penisola dell’Asia, e i 50.000 marines morti ammazzati, e il milione di sciancati, i senza braccia, i drogati persi nella disperazione della giungla. Sconcertata, stravolta, da quel racconto della realtà, l’America già in furore di protesta aveva detto a Nixon: Basta, tutti a casa; e il più potente esercito del mondo era scappato via da Saigon, umiliato, sconfitto.
L’Orso, ora che stava per partire da Washington, passò negli uffici di una delle più importanti agenzie di pubblicità americane, gli raccontò di che cosa aveva bisogno, e ne affittò i servigi con regolare contratto del Pentagono. Finito il tempo della propaganda (la bandiera, la patria), ora era arrivato il tempo della pubblicità: la guerra andava venduta come un qualsiasi prodotto del supermercato, il detersivo, i pannolini, quella marca di automobili, le lamette da barba. E a «comprarla» saremmo stati noi, naturalmente, noi, i reporter di guerra, che poi avremmo provveduto subito a impacchettarla a dovere e propinarla all’opinione pubblica.
Nasceva il «news management», la gestione delle notizie, quell’artifizio manipolatorio per il quale la «fonte» non soltanto ti dà una informazione ma, anche, provvede a fornirtela in una confezione che pare contenere ogni risposta a qualsiasi possibile domanda. Conferenze stampa continue, briefings con gli ufficiali, visita ai reparti, foto e cineriprese con accompagnatore, e, in ultimo, anche la facoltà di usare come propria testimonianza diretta i report che un gruppo ristretto di inviati speciali «enbedded» dentro le formazioni operative (i «pool» selezionati) provvedeva a scrivere per conto e in rappresentanza dei quasi 2.000 reporter che, lontani dal fronte che si stava aprendo, tenuti sotto stretto controllo, ma bulimici di notizie, se ne stavano acquartierati a rodersi il fegato tra gli alberghi e le sabbie di un deserto di Buzzati. Noi scrivevamo, dettavamo, componevamo, ma a battere sui tasti della macchina da scrivere c’era lui, l’Orso che era una faina.
Un giorno dei tanti che aspettavamo la guerra che non arrivava mai e però era filtrata la notizia che no, che questa volta si stava combattendo davvero, su al Nord, alla frontiera, partimmo verso Al-Khafji violando gli ordini ricevuti, io con la mia auto (con tre colleghi italiani) e l’auto della tv australiana. Saltando i posti di blocco e viaggiando nel deserto, arrivammo nella piccola città di frontiera, giusto in tempo per vedere la coda della battaglia e rientrare prima del buio ad Al-Khobar, nel quartier generale dei giornalisti. Quella stessa notte inviammo i nostri reportage, uno scoop, noi e gli australiani; a noi il giorno dopo non accadde nulla, gli australiani furono espulsi. Loro erano «la tv», e la televisione ormai era la voce della verità, voce unica e dominante. I giornali, ormai erano stati messi in un angolo, contavano sempre meno.
Non fu Peter Arnett ad ammazzarci, noi, i reporter di guerra: anche lui faceva il nostro lavoro. Ad ammazzarci fu la tv, che prese il comando dei lavori con la potenza delle immagini, e, nel vuoto di notizie d’una guerra che non arrivava mai, costruì giorno dopo giorno «lo show della guerra», uno spettacolo hollywoodiano, di dune al tramonto, di deserti morbidi e di marines trasformati in comparse. Poco alla volta, il reportage dell’inviato perse rilievo, attenzione, centralità; e dal prodotto (il «messaggio») si passò al processo (la confezione spettacolare del «flusso»).
Era nato il tempo nuovo, il «dopo Cristo» dell’informazione. Che è anche il tempo di oggi, quando la Rete ha invaso il terreno della comunicazione e aggiunge nuove valenze al dominio del processamento dell’informazione. Oggi la comunicazione conta più del «messaggio», e comunque il «messaggio» è una costruzione dentro la quale la capacità di contestualizzazione della cronaca acquista più rilievo della stessa identità della realtà. Che sia la guerra o la politica o anche altro. E tuttavia, se in questi anni nell’Iraq in guerra sono stati ammazzati 259 reporter, alla fine vuol dire che il giornalismo non è affatto morto, che il giornalismo vuole ancora fare il proprio mestiere, quali che siano i rischi, i tentativi feroci di condizionarlo. In guerra o nella società. Tre giorni fa, Wikileaks ha consegnato ai giornali 92.000 file di segreti chiusi nella Rete, e ha aperto alla luce del giornalismo scenari e storie e fatti che il giornalismo, quello che lavora sul campo, il giornalismo dei reporter, non era riuscito a disgelare. Io sarò morto, quel giorno, vent’anni fa, l’1 agosto del 1990, ma oggi la macchina del giornalismo si sta inventando un nuovo modo di lavorare; ha raccolto la sfida, una sfida che vale la conoscenza e la consapevolezza, e dentro ci stanno tutti, anche chi credeva di poter raccontare il mondo e invece non s’avvedeva che il mondo che raccontava era in realtà un’elegante confezione esposta da una faina vestita da orso negli scaffali del Supermarket dell’informazione.
Ma quando tornai a casa dopo 8 mesi in quei deserti, e mi invitarono in giro per l’Italia a raccontare la guerra del «Desert Storm» (ero il reporter italiano più a lungo rimasto tra i cannoni e la sabbia del Golfo), lo scoprii presto che io ero proprio morto: parlavo e parlavo, pensando di svelarla io la guerra che avevo vissuto, da dentro, testimone diretto, ma a quelli che avevo di fronte, al pubblico che era venuto ad ascoltarmi non glie ne fregava niente del mio racconto, perché la guerra l’avevano fatta loro ancor meglio di me quando, la sera alle 8, ogni sera alle 8 per tanti lunghi mesi, si erano seduti sul divano del salotto, si erano calati l’elmetto in testa, avevano acceso il televisore, ed ecco che già stavano essi stessi a Khobar, a Dharan, a Ryadh, al Afr al-Batìn.
A farmi morto furono un vecchio militare grande e grosso, il gen. Schwarzkopf, detto l’Orso ma furbo come una faina, e poi quella diabolica macchina delle illusioni che si chiama tv e che in quei mesi d’inferno prese il nome eterno di Peter Arnett e, alla fine, di Cnn. L’Orso fece una drittata che ancora oggi è legge sovrana. In quell’agosto del ’90, prima di partire da Washington per venire in Arabia a comandare il Desert Storm, si era presentato a rapporto dal suo capo, George Bush. Il Presidente gli fece gli auguri per l’impresa, e mentre gli stringeva la mano gli disse anche: «Ma ora, caro Schawrz, mi raccomando, non combattiamo più con un braccio legato dietro la schiena». Quel braccio, a Schwarz e al suo Presidente, glielo avevamo legato noi, i reporter di guerra, che in Vietnam avevamo raccontato che cosa davvero era l’intervento americano in quella penisola dell’Asia, e i 50.000 marines morti ammazzati, e il milione di sciancati, i senza braccia, i drogati persi nella disperazione della giungla. Sconcertata, stravolta, da quel racconto della realtà, l’America già in furore di protesta aveva detto a Nixon: Basta, tutti a casa; e il più potente esercito del mondo era scappato via da Saigon, umiliato, sconfitto.
L’Orso, ora che stava per partire da Washington, passò negli uffici di una delle più importanti agenzie di pubblicità americane, gli raccontò di che cosa aveva bisogno, e ne affittò i servigi con regolare contratto del Pentagono. Finito il tempo della propaganda (la bandiera, la patria), ora era arrivato il tempo della pubblicità: la guerra andava venduta come un qualsiasi prodotto del supermercato, il detersivo, i pannolini, quella marca di automobili, le lamette da barba. E a «comprarla» saremmo stati noi, naturalmente, noi, i reporter di guerra, che poi avremmo provveduto subito a impacchettarla a dovere e propinarla all’opinione pubblica.
Nasceva il «news management», la gestione delle notizie, quell’artifizio manipolatorio per il quale la «fonte» non soltanto ti dà una informazione ma, anche, provvede a fornirtela in una confezione che pare contenere ogni risposta a qualsiasi possibile domanda. Conferenze stampa continue, briefings con gli ufficiali, visita ai reparti, foto e cineriprese con accompagnatore, e, in ultimo, anche la facoltà di usare come propria testimonianza diretta i report che un gruppo ristretto di inviati speciali «enbedded» dentro le formazioni operative (i «pool» selezionati) provvedeva a scrivere per conto e in rappresentanza dei quasi 2.000 reporter che, lontani dal fronte che si stava aprendo, tenuti sotto stretto controllo, ma bulimici di notizie, se ne stavano acquartierati a rodersi il fegato tra gli alberghi e le sabbie di un deserto di Buzzati. Noi scrivevamo, dettavamo, componevamo, ma a battere sui tasti della macchina da scrivere c’era lui, l’Orso che era una faina.
Un giorno dei tanti che aspettavamo la guerra che non arrivava mai e però era filtrata la notizia che no, che questa volta si stava combattendo davvero, su al Nord, alla frontiera, partimmo verso Al-Khafji violando gli ordini ricevuti, io con la mia auto (con tre colleghi italiani) e l’auto della tv australiana. Saltando i posti di blocco e viaggiando nel deserto, arrivammo nella piccola città di frontiera, giusto in tempo per vedere la coda della battaglia e rientrare prima del buio ad Al-Khobar, nel quartier generale dei giornalisti. Quella stessa notte inviammo i nostri reportage, uno scoop, noi e gli australiani; a noi il giorno dopo non accadde nulla, gli australiani furono espulsi. Loro erano «la tv», e la televisione ormai era la voce della verità, voce unica e dominante. I giornali, ormai erano stati messi in un angolo, contavano sempre meno.
Non fu Peter Arnett ad ammazzarci, noi, i reporter di guerra: anche lui faceva il nostro lavoro. Ad ammazzarci fu la tv, che prese il comando dei lavori con la potenza delle immagini, e, nel vuoto di notizie d’una guerra che non arrivava mai, costruì giorno dopo giorno «lo show della guerra», uno spettacolo hollywoodiano, di dune al tramonto, di deserti morbidi e di marines trasformati in comparse. Poco alla volta, il reportage dell’inviato perse rilievo, attenzione, centralità; e dal prodotto (il «messaggio») si passò al processo (la confezione spettacolare del «flusso»).
Era nato il tempo nuovo, il «dopo Cristo» dell’informazione. Che è anche il tempo di oggi, quando la Rete ha invaso il terreno della comunicazione e aggiunge nuove valenze al dominio del processamento dell’informazione. Oggi la comunicazione conta più del «messaggio», e comunque il «messaggio» è una costruzione dentro la quale la capacità di contestualizzazione della cronaca acquista più rilievo della stessa identità della realtà. Che sia la guerra o la politica o anche altro. E tuttavia, se in questi anni nell’Iraq in guerra sono stati ammazzati 259 reporter, alla fine vuol dire che il giornalismo non è affatto morto, che il giornalismo vuole ancora fare il proprio mestiere, quali che siano i rischi, i tentativi feroci di condizionarlo. In guerra o nella società. Tre giorni fa, Wikileaks ha consegnato ai giornali 92.000 file di segreti chiusi nella Rete, e ha aperto alla luce del giornalismo scenari e storie e fatti che il giornalismo, quello che lavora sul campo, il giornalismo dei reporter, non era riuscito a disgelare. Io sarò morto, quel giorno, vent’anni fa, l’1 agosto del 1990, ma oggi la macchina del giornalismo si sta inventando un nuovo modo di lavorare; ha raccolto la sfida, una sfida che vale la conoscenza e la consapevolezza, e dentro ci stanno tutti, anche chi credeva di poter raccontare il mondo e invece non s’avvedeva che il mondo che raccontava era in realtà un’elegante confezione esposta da una faina vestita da orso negli scaffali del Supermarket dell’informazione.
«La Stampa» del 1 agosto 2010
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