Conciliare giustizia e tutela della vita, anche quella di chi si macchia di gravi reati, è un tema che si fa strada anche in America dove la Corte Suprema restringe l’uso della pena di morte, e nello stesso tempo nega restrizioni al possesso delle armi da fuoco
di Carlo Cardia
Per raggiungere un traguardo di civiltà, o realizzare grandi ideali, a volte si seguono cammini contorti, con balzi in avanti e improvvisi ritorni indietro, che lasciano interdetti. È quanto sta avvenendo in questi giorni negli Stati Uniti d’America dove la Corte Suprema ha dichiarato la legittimità della pena di morte soltanto nei confronti di chi si sia macchiato dei delitti più gravi, dai quali è derivata la morte della vittima. Non si può quindi togliere la vita a chi ha commesso altri reati anche gravissimi, come quello di stupro su minori. Il candidato democratico alla presidenza Barack Obama, che pure si era pronunciato per la limitazione della pena di morte, ha affermato che lo stupro su minori è talmente grave da meritare comunque la morte del reo. La stessa Corte Suprema, poi, ha dichiarato incostituzionale una legge del distretto di Washington che pone forti restrizioni al possesso delle armi da parte dei privati. Ciò perché la Costituzione americana considera il possesso delle armi un diritto inviolabile. Insomma, la stessa Corte suprema cerca di limitare il ricorso alla pena di morte, e allarga la licenza per la armi, forse dimenticando che tra le due pratiche esiste un sottile collegamento risalente alla formazione stessa degli Stati Uniti.
Nella Convenzione americana dei diritti dell’uomo adottata nel 1969 dall’Organizzazione degli Stati Americani (Osa) c’è una disposizione illuminante per la quale 'nei Paesi che non hanno abolito la pena di morte, questa potrà essere inflitta solo per i reati più gravi', ma 'la pena di morte non potrà essere ripristinata nei paesi che l’hanno abolita'. Ciò vuol dire che i firmatari della Convenzione avvertivano come disumana e anacronistica l’uccisione del reo, ma spostavano il traguardo abolizionista più avanti quando il peso della storia e della tradizione in determinati Paesi si fosse esaurito. Gli Stati Uniti nascono in un contesto di conquista e di frontiera nel quale la giustizia era quasi un fatto privato, con l’applicazione della ritorsione, fino a sfiorare il linciaggio, per soddisfare una opinione pubblica bramosa di vendetta; di qui, tra l’altro, la naturalezza del possesso e uso privato delle armi. Il peso di questa tradizione è ancora oggi molto forte, e la sentenza della Corte Suprema che introduce un primo argine, sia pure con ragionamenti destinati a suscitare polemica, ci dice quanto sia lunga la strada per l’affermazione di un basilare principio etico in un ordinamento tra i più avanzati in senso democratico.
In altri Paesi asiatici, come la Cina, la condanna a morte è applicata sistematicamente anche come deterrente alla protesta sociale, e conosce l’alternanza di periodi di attenuazione a periodi di drastica estensione. In alcuni Stati islamici viene ucciso talvolta, per via legale o tribale, chi tiene comportamenti contrari alla shari’à che nel resto del mondo non sono neanche considerati reati, come l’adulterio o l’unione sessuale fuori del matrimonio, o addirittura chi esercita il diritto universale di libertà religiosa passando dall’Islam ad altra religione. Dopo il recente voto (pure importantissimo), dell’Assemblea dell’Onu per una moratoria della pena di morte a livello mondiale, la situazione sembra essere tornata ad essere quella di prima, e un senso di frustrazione prende chi resta convinto di una evoluzione lineare della civilizzazione.
La pena di morte non è soltanto quella applicata legalmente. C’è un altro scenario sotto i nostri occhi che riguarda tanti Paesi africani e asiatici, nei quali l’assassinio è praticato arbitrariamente e ferocemente, da chi è al potere e da chi ne è fuori, nei riguardi di persone, gruppi sociali, a volte intere etnie, per i motivi più diversi. La richiesta di autonomia e di libertà di un popolo, come in Tibet o in Birmania, può far sca- tenare la repressione politica e religiosa; la volontà di islamizzare una regione come il Darfur può provocare eccidi di massa ad opera di bande di predoni o di milizie più o meno regolari; addirittura lo svolgimento di una tornata elettorale come nello Zimbabwe potrebbe portare ad una guerra civile senza fine.
Di fatto, in diverse parti del pianeta c’è sempre il pericolo che un evento o un altro provochi lo scatenarsi improvviso della violenza con conseguenze terrificanti alle quali assisteremmo inermi e inerti.
Siamo di fronte a situazioni diversissime, una legata alla abolizione della pena di morte legale, l’altra al degrado di Paesi nei quali la vita delle persone potenzialmente non conta nulla e gli uomini possono da un momento all’altro essere annientati come se si dovesse bonificare un territorio dalla presenza di esseri nocivi. Riflettervi oggi, a sessanta anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, porta ad un bilancio non lusinghiero del rispetto dei diritti umani nel mondo, e ad una valutazione sfiduciata sulle possibilità che l’ordinamento internazionale sappia farli rispettare nei singoli Stati. Si deve constatare che la tutela della persona rappresenta un valore primario soltanto in alcune parti del pianeta, e che in altre la fatica compiuta dall’umanità per elaborare le Carte internazionali sui diritti umani non ha prodotto frutti. Anche gli strumenti per soccorrere e aiutare le vittime della repressione, degli eccidi e degli stermini, sembrano limitati o inutilizzabili di fronte allo scatenamento della forza bruta ad opera di regimi politici, o di qualche despota feroce, che agiscono come se ci trovassimo agli albori della storia umana.
C’è da chiedersi se non sia giunto il momento di riconsiderare l’intera materia dei diritti umani, e valutare realisticamente i problemi rimasti ancora aperti. Si dà ormai quasi per scontato che i più solenni documenti internazionali non hanno eguale valore per tutti gli Stati, e che i meccanismi di intervento di autorità sopranazionali vengono attivati soltanto quando sono in gioco interessi che coinvolgono le grandi potenze. I tentativi di porre nei Paesi a rischio dei presidi interni che prevengano le peggiori tragedie non sono mai stati realizzati con convinzione, e comunque non hanno portato a nulla. C’è da chiedersi se quel principio elementare di moralità che tutti dichiarano di voler onorare - la tutela della via umana in ogni luogo e in ogni circostanza - potrà mai diventare principio giuridico operativo nei paesi più piccoli come in quelli più grandi, a prescindere dai regimi politici che vi sono operanti. Se non si dà qualche risposta concreta a queste domande è facile prevedere che anche le mobilitazioni ricorrenti per l’esecuzione di qualche condanna a morte, o quelle più episodiche contro gli stermini di massa, potrebbero lasciare il posto ad una apatia e ad una indifferenza che si trasformerebbero in vere e proprie licenze di uccidere per il tiranno di turno. Sarebbe una sconfitta per tutti dalla quale uscirebbe vincente la violenza che si scatena qua e là nel mondo, mentre la speranza dei diritti umani accesa dalla Dichiarazione del 1948 potrebbe entrare in un cono d’ombra non si sa quanto lungo.
Nella Convenzione americana dei diritti dell’uomo adottata nel 1969 dall’Organizzazione degli Stati Americani (Osa) c’è una disposizione illuminante per la quale 'nei Paesi che non hanno abolito la pena di morte, questa potrà essere inflitta solo per i reati più gravi', ma 'la pena di morte non potrà essere ripristinata nei paesi che l’hanno abolita'. Ciò vuol dire che i firmatari della Convenzione avvertivano come disumana e anacronistica l’uccisione del reo, ma spostavano il traguardo abolizionista più avanti quando il peso della storia e della tradizione in determinati Paesi si fosse esaurito. Gli Stati Uniti nascono in un contesto di conquista e di frontiera nel quale la giustizia era quasi un fatto privato, con l’applicazione della ritorsione, fino a sfiorare il linciaggio, per soddisfare una opinione pubblica bramosa di vendetta; di qui, tra l’altro, la naturalezza del possesso e uso privato delle armi. Il peso di questa tradizione è ancora oggi molto forte, e la sentenza della Corte Suprema che introduce un primo argine, sia pure con ragionamenti destinati a suscitare polemica, ci dice quanto sia lunga la strada per l’affermazione di un basilare principio etico in un ordinamento tra i più avanzati in senso democratico.
In altri Paesi asiatici, come la Cina, la condanna a morte è applicata sistematicamente anche come deterrente alla protesta sociale, e conosce l’alternanza di periodi di attenuazione a periodi di drastica estensione. In alcuni Stati islamici viene ucciso talvolta, per via legale o tribale, chi tiene comportamenti contrari alla shari’à che nel resto del mondo non sono neanche considerati reati, come l’adulterio o l’unione sessuale fuori del matrimonio, o addirittura chi esercita il diritto universale di libertà religiosa passando dall’Islam ad altra religione. Dopo il recente voto (pure importantissimo), dell’Assemblea dell’Onu per una moratoria della pena di morte a livello mondiale, la situazione sembra essere tornata ad essere quella di prima, e un senso di frustrazione prende chi resta convinto di una evoluzione lineare della civilizzazione.
La pena di morte non è soltanto quella applicata legalmente. C’è un altro scenario sotto i nostri occhi che riguarda tanti Paesi africani e asiatici, nei quali l’assassinio è praticato arbitrariamente e ferocemente, da chi è al potere e da chi ne è fuori, nei riguardi di persone, gruppi sociali, a volte intere etnie, per i motivi più diversi. La richiesta di autonomia e di libertà di un popolo, come in Tibet o in Birmania, può far sca- tenare la repressione politica e religiosa; la volontà di islamizzare una regione come il Darfur può provocare eccidi di massa ad opera di bande di predoni o di milizie più o meno regolari; addirittura lo svolgimento di una tornata elettorale come nello Zimbabwe potrebbe portare ad una guerra civile senza fine.
Di fatto, in diverse parti del pianeta c’è sempre il pericolo che un evento o un altro provochi lo scatenarsi improvviso della violenza con conseguenze terrificanti alle quali assisteremmo inermi e inerti.
Siamo di fronte a situazioni diversissime, una legata alla abolizione della pena di morte legale, l’altra al degrado di Paesi nei quali la vita delle persone potenzialmente non conta nulla e gli uomini possono da un momento all’altro essere annientati come se si dovesse bonificare un territorio dalla presenza di esseri nocivi. Riflettervi oggi, a sessanta anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, porta ad un bilancio non lusinghiero del rispetto dei diritti umani nel mondo, e ad una valutazione sfiduciata sulle possibilità che l’ordinamento internazionale sappia farli rispettare nei singoli Stati. Si deve constatare che la tutela della persona rappresenta un valore primario soltanto in alcune parti del pianeta, e che in altre la fatica compiuta dall’umanità per elaborare le Carte internazionali sui diritti umani non ha prodotto frutti. Anche gli strumenti per soccorrere e aiutare le vittime della repressione, degli eccidi e degli stermini, sembrano limitati o inutilizzabili di fronte allo scatenamento della forza bruta ad opera di regimi politici, o di qualche despota feroce, che agiscono come se ci trovassimo agli albori della storia umana.
C’è da chiedersi se non sia giunto il momento di riconsiderare l’intera materia dei diritti umani, e valutare realisticamente i problemi rimasti ancora aperti. Si dà ormai quasi per scontato che i più solenni documenti internazionali non hanno eguale valore per tutti gli Stati, e che i meccanismi di intervento di autorità sopranazionali vengono attivati soltanto quando sono in gioco interessi che coinvolgono le grandi potenze. I tentativi di porre nei Paesi a rischio dei presidi interni che prevengano le peggiori tragedie non sono mai stati realizzati con convinzione, e comunque non hanno portato a nulla. C’è da chiedersi se quel principio elementare di moralità che tutti dichiarano di voler onorare - la tutela della via umana in ogni luogo e in ogni circostanza - potrà mai diventare principio giuridico operativo nei paesi più piccoli come in quelli più grandi, a prescindere dai regimi politici che vi sono operanti. Se non si dà qualche risposta concreta a queste domande è facile prevedere che anche le mobilitazioni ricorrenti per l’esecuzione di qualche condanna a morte, o quelle più episodiche contro gli stermini di massa, potrebbero lasciare il posto ad una apatia e ad una indifferenza che si trasformerebbero in vere e proprie licenze di uccidere per il tiranno di turno. Sarebbe una sconfitta per tutti dalla quale uscirebbe vincente la violenza che si scatena qua e là nel mondo, mentre la speranza dei diritti umani accesa dalla Dichiarazione del 1948 potrebbe entrare in un cono d’ombra non si sa quanto lungo.
«Avvenire» del 16 luglio 2008
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