di Roberto Beretta
Volessimo fare i colti, potremmo sfoderare la classica sentenza : «Cupio dissolvi», anelo ad essere annullato. Sciolto. Annientato. Incenerito. In effetti la citazione sovviene scorrendo le cifre – riportate sabato dal «Corriere della Sera» – dell’impressionante balzo in avanti delle cremazioni nella metropoli meneghina: ben 10.500 su 15.000 decessi nel 2007. Bolzano e Como si attestano sul 50% dei cadaveri passati nei forni (altre città come Torino, Roma, Bologna, Trieste arrivano a un terzo circa), che è poi la media dei Paesi nordici; ma Milano va oltre, arriva a percentuali da Svezia e Danimarca, e soprattutto senza possedere una secolare e nemmeno decennale «cultura» in materia, con un’accelerazione bruciante che in soli tre anni ha fatto crescere i milanesi cremati dal 51% al 70%. Che cosa è dunque successo per convincere due meneghini su tre a farsi incenerire? Come mai tale pratica sta dilagando in modo tanto macroscopico nel Nord Italia (al Sud la media è dello 0,5%) e soprattutto nelle città?
Non basta notare che i costi di una cremazione sono assai inferiori a quelli dell’inumazione (324 euro contro tremila); è insufficiente allegare una progressiva carenza di spazi nei cimiteri delle metropoli e la conseguente pressione (inconscia?) verso scelte considerate più «ecologiche».
Certo, si tratta di fattori che hanno un loro peso, così come lo ha il crollo della barriera religiosa (la Chiesa cattolica non considera più la cremazione «ipso facto» peccato) e la possibilità di conservare in casa i resti del defunto ovvero di disperderli in natura, concessa dalla legge in 5 Regioni – in Lombardia già ne approfittano i parenti di 4 cremati su 10. Forse tutto ciò non basta a spiegare e non ha torto il vescovo ambrosiano Erminio De Scalzi a spingere la riflessione un passo oltre: «Si sta diffondendo un concetto sbrigativo della morte». È la montata del «cupio dissolvi», appunto; è il desiderio di scomparire, di non restare più presenti in un luogo precisamente consacrato alla memoria di sé, fors’anche l’idea di non «pesare» sulla vita di chi resta: così complicata e faticosa che non sembra il caso di accrescerne il disagio anche con l’acquisto e la manutenzione di una tomba...
Ma – in fondo – sotto tale presunto atto di «generosità» postuma, sta un giudizio negativo sulla vita: il massimo cui possiamo ambire non è aver lasciato un segno sui posteri, almeno quelli più cari, tale per cui la visita alle nostre spoglie non risulti un peso bensì una risorsa; l’imperativo è «non dar fastidio». La cultura dominante ha del resto talmente abituato all’«usa e getta» che non si vede perché tale mentalità dovrebbe arrestarsi davanti ai cancelli del cimitero: siamo al mondo per «produrre» ed «essere utili», una volta che non lo siamo più tanto vale scomparire; letteralmente.
Anche la dispersione delle ceneri ripete in fondo questo messaggio – se non di nichilismo – di depressione sociale, di profonda insoddisfazione esistenziale: non ho vissuto come volevo, almeno le mie ceneri finiscano nei luoghi che avrei desiderato amare. Altro che «morale laica», il Nord Italia ricco e industriale pretende qui che siano rispettate le sue ultime volontà: non solo la resurrezione dei corpi nell’aldilà non esiste, ma è meglio che non rimanga più nemmeno un segno del corpo nell’aldiqua. E così sia.
Non basta notare che i costi di una cremazione sono assai inferiori a quelli dell’inumazione (324 euro contro tremila); è insufficiente allegare una progressiva carenza di spazi nei cimiteri delle metropoli e la conseguente pressione (inconscia?) verso scelte considerate più «ecologiche».
Certo, si tratta di fattori che hanno un loro peso, così come lo ha il crollo della barriera religiosa (la Chiesa cattolica non considera più la cremazione «ipso facto» peccato) e la possibilità di conservare in casa i resti del defunto ovvero di disperderli in natura, concessa dalla legge in 5 Regioni – in Lombardia già ne approfittano i parenti di 4 cremati su 10. Forse tutto ciò non basta a spiegare e non ha torto il vescovo ambrosiano Erminio De Scalzi a spingere la riflessione un passo oltre: «Si sta diffondendo un concetto sbrigativo della morte». È la montata del «cupio dissolvi», appunto; è il desiderio di scomparire, di non restare più presenti in un luogo precisamente consacrato alla memoria di sé, fors’anche l’idea di non «pesare» sulla vita di chi resta: così complicata e faticosa che non sembra il caso di accrescerne il disagio anche con l’acquisto e la manutenzione di una tomba...
Ma – in fondo – sotto tale presunto atto di «generosità» postuma, sta un giudizio negativo sulla vita: il massimo cui possiamo ambire non è aver lasciato un segno sui posteri, almeno quelli più cari, tale per cui la visita alle nostre spoglie non risulti un peso bensì una risorsa; l’imperativo è «non dar fastidio». La cultura dominante ha del resto talmente abituato all’«usa e getta» che non si vede perché tale mentalità dovrebbe arrestarsi davanti ai cancelli del cimitero: siamo al mondo per «produrre» ed «essere utili», una volta che non lo siamo più tanto vale scomparire; letteralmente.
Anche la dispersione delle ceneri ripete in fondo questo messaggio – se non di nichilismo – di depressione sociale, di profonda insoddisfazione esistenziale: non ho vissuto come volevo, almeno le mie ceneri finiscano nei luoghi che avrei desiderato amare. Altro che «morale laica», il Nord Italia ricco e industriale pretende qui che siano rispettate le sue ultime volontà: non solo la resurrezione dei corpi nell’aldilà non esiste, ma è meglio che non rimanga più nemmeno un segno del corpo nell’aldiqua. E così sia.
«Avvenire» dell’11 marzo 2008
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