Il vicedirettore del "Corsera" se la prende con il grande scrittore che nel 1975 aveva polemizzato con Magris sull'aborto
di Angela Azzaro
L'accusa? Aver sostenuto le ragioni delle donne contro l'ideologia dei feticisti. Anche Ferrara contro l'autore scomparso
Con Calvino se la prende prima Ferrara. Il direttore del Foglio ricorda un fatto personale non sottoponibile a verifica. Calvino, da lui interpellato in un locale torinese, si presume negli anni Settanta, non prende posizione contro le Brigate rosse. L'equazione è chiara: così come lo scrittore accetta «l'omicidio dei feti», accetta anche gli omicidi delle Brigate rosse. Ma lui - Ferrara - a differenza di Magris, Calvino non lo perdona e la loro intima amicizia (tutta da verificare) è chiusa per sempre.
Battista fa un'operazione diversa. Lo descrive come un mostro di ideologismo, pronto a sputare sentenze in nome della fede comunista. Neanche dopo i fatti d'Ungheria Calvino avrebbe fatto quello che doveva fare, ma avrebbe opposto «nient'altro che sommessi borbottii». E non finisce qui. Perché tutta la ricostruzione di Battista è tesa a dimostrare lo stalinismo del compagno Calvino. Fino alla conclusione: la diatriba con Pasolini sul delitto del Circeo in cui il poeta appare come una vittima e lo scrittore il suo aguzzino. Poi la sentenza: per l'editorialista del Corsera era «uno scrittore che dispensava prediche morali agli eretici, troncava l'amicizia con chiunque, sia pur momentaneamente, si fosse trovato come Magris sul fronte opposto al suo».
Si possono obiettare molte cose sia a Ferrara che a Battista. Intanto vengono in mente quattro cose.
La prima riguarda i fatti. Quelli di Ungheria e la presa di posizione di Calvino. Lo scrittore, che aveva fatto parte della resistenza e che dopo la fine della guerra aveva lavorato con il Pci, dopo l'invasione dell'Ungheria esce dal partito comunista. E non con borbottii, ma con un taglio netto. Lo dimostra la lettera scritta nel 1957 al partito di Torino in cui formalizza le proprie dimissioni e alcuni racconti come La grande bonaccia delle Antille e Giornata di uno scrutatore .
Secondo. Calvino non smette l'impegno. Questo è vero. Ma è un impegno, come dimostra lo scambio e lo scontro con Pasolini, che è capace di non essere ideologico ma di confrontarsi con il presente, senza rimpianti per un passato, quello della cultura patriarcale e contadina, che non prevedeva la presenza delle donne nella vita pubblica.
Terzo. E’un ossimoro accusare di «intransigentismo» l'autore italiano che di più ha lavorato a decostruire le identità, le appartenenze, le ideologie. L'autore, cioè, che meglio si è fatto interprete della modernità collegandosi alle culture degli altri paesi, in particolare a quelle francese e statunitense. Tutta l'opera di Calvino, a partire dal Sentiero dei nidi di ragno alla trilogia sui Nostri antenati , per arrivare alle raccolte di racconti e al saggio Lezioni americane , è un inno alla leggerezza, al divenire, alla impossibilità di avere certezze. Ma non avere certezze non significa cancellare la verità. La semiologia, da lui tanto amata e che è tra i primi a studiare in Italia, complica il puzzle, lo scompone, scandisce il rapporto tra realtà e linguaggio, ma non per arrivare al nulla, al «tutto è uguale», ma per ricordarci e restituirci la complessità.
Quarto. Riprendiamo la domanda iniziale: perché Calvino oggi dà tanto fastidio a tal punto da essere descritto come uno stalinista? La risposta è in quella lettera a Magris, del 1975. Perché dice una cosa oggi quasi scandalosa e la dice da maschio: la vita nasce se c'è un progetto, se c'è la volontà. Se no, saremmo come animali. L'umanità diventerebbe una stalla di conigli. Non solo. Calvino si mette in gioco in prima persona. Si dice offeso da chi giudica l'aborto un omicidio. Capisce quanto quella posizione sia un gioco di potere. Un gioco di potere giocato sul corpo delle donne. Allora - Battista sembra dimenticarlo - l'aborto era considerato un reato e molte cadevano nell'abbraccio, quello sì mortale, delle mammane. L'autore de Gli amori impossibili invece lo sa e scrive a Magris: «Nel momento in cui si cerca di rendere meno barbara una situazione che per la donna è veramente spaventosa, un intellettuale "impiega" la sua autorità perché la donna sia mantenuta in quell'inferno»
Battista sostiene di non aver nessun rimpianto per quella temperie culturale e politica. Noi sì. Non solo perché allora si discuteva tanto appassionatamente ma anche perché lo si faceva senza alterare i fatti. Magris diceva una cosa, Calvino gli rispondeva per filo e per segno. Pasolini se la prendeva con l'aborto e con quelle sciagurate di donne e femministe e Calvino gli rispondeva senza inventare nulla. Oggi il problema è che pur di affermare le proprie ragioni si è disposti a tutto, anche a far diventare un grande scrittore un piccolo dittatore.
Battista fa un'operazione diversa. Lo descrive come un mostro di ideologismo, pronto a sputare sentenze in nome della fede comunista. Neanche dopo i fatti d'Ungheria Calvino avrebbe fatto quello che doveva fare, ma avrebbe opposto «nient'altro che sommessi borbottii». E non finisce qui. Perché tutta la ricostruzione di Battista è tesa a dimostrare lo stalinismo del compagno Calvino. Fino alla conclusione: la diatriba con Pasolini sul delitto del Circeo in cui il poeta appare come una vittima e lo scrittore il suo aguzzino. Poi la sentenza: per l'editorialista del Corsera era «uno scrittore che dispensava prediche morali agli eretici, troncava l'amicizia con chiunque, sia pur momentaneamente, si fosse trovato come Magris sul fronte opposto al suo».
Si possono obiettare molte cose sia a Ferrara che a Battista. Intanto vengono in mente quattro cose.
La prima riguarda i fatti. Quelli di Ungheria e la presa di posizione di Calvino. Lo scrittore, che aveva fatto parte della resistenza e che dopo la fine della guerra aveva lavorato con il Pci, dopo l'invasione dell'Ungheria esce dal partito comunista. E non con borbottii, ma con un taglio netto. Lo dimostra la lettera scritta nel 1957 al partito di Torino in cui formalizza le proprie dimissioni e alcuni racconti come La grande bonaccia delle Antille e Giornata di uno scrutatore .
Secondo. Calvino non smette l'impegno. Questo è vero. Ma è un impegno, come dimostra lo scambio e lo scontro con Pasolini, che è capace di non essere ideologico ma di confrontarsi con il presente, senza rimpianti per un passato, quello della cultura patriarcale e contadina, che non prevedeva la presenza delle donne nella vita pubblica.
Terzo. E’un ossimoro accusare di «intransigentismo» l'autore italiano che di più ha lavorato a decostruire le identità, le appartenenze, le ideologie. L'autore, cioè, che meglio si è fatto interprete della modernità collegandosi alle culture degli altri paesi, in particolare a quelle francese e statunitense. Tutta l'opera di Calvino, a partire dal Sentiero dei nidi di ragno alla trilogia sui Nostri antenati , per arrivare alle raccolte di racconti e al saggio Lezioni americane , è un inno alla leggerezza, al divenire, alla impossibilità di avere certezze. Ma non avere certezze non significa cancellare la verità. La semiologia, da lui tanto amata e che è tra i primi a studiare in Italia, complica il puzzle, lo scompone, scandisce il rapporto tra realtà e linguaggio, ma non per arrivare al nulla, al «tutto è uguale», ma per ricordarci e restituirci la complessità.
Quarto. Riprendiamo la domanda iniziale: perché Calvino oggi dà tanto fastidio a tal punto da essere descritto come uno stalinista? La risposta è in quella lettera a Magris, del 1975. Perché dice una cosa oggi quasi scandalosa e la dice da maschio: la vita nasce se c'è un progetto, se c'è la volontà. Se no, saremmo come animali. L'umanità diventerebbe una stalla di conigli. Non solo. Calvino si mette in gioco in prima persona. Si dice offeso da chi giudica l'aborto un omicidio. Capisce quanto quella posizione sia un gioco di potere. Un gioco di potere giocato sul corpo delle donne. Allora - Battista sembra dimenticarlo - l'aborto era considerato un reato e molte cadevano nell'abbraccio, quello sì mortale, delle mammane. L'autore de Gli amori impossibili invece lo sa e scrive a Magris: «Nel momento in cui si cerca di rendere meno barbara una situazione che per la donna è veramente spaventosa, un intellettuale "impiega" la sua autorità perché la donna sia mantenuta in quell'inferno»
Battista sostiene di non aver nessun rimpianto per quella temperie culturale e politica. Noi sì. Non solo perché allora si discuteva tanto appassionatamente ma anche perché lo si faceva senza alterare i fatti. Magris diceva una cosa, Calvino gli rispondeva per filo e per segno. Pasolini se la prendeva con l'aborto e con quelle sciagurate di donne e femministe e Calvino gli rispondeva senza inventare nulla. Oggi il problema è che pur di affermare le proprie ragioni si è disposti a tutto, anche a far diventare un grande scrittore un piccolo dittatore.
«Liberazione» del 26 febbraio 2008
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