Saltato il modello, deve darsi nuove regole
Di Giorgio Ferrari
Una banca d’affari le cui azioni fino a un anno fa valevano 170 dollari collassa e si avvia al fallimento a causa degli sconsiderati investimenti finanziari. La rileva una consorella, a soli 2 dollari ad azione. È il capitalismo, bellezza, e tu non puoi farci niente, si potrebbe dire parafrasando la celebre frase di Humphrey Bogart. Peccato che le cose non stiano così: a salvare la Bear Stearns ci si è messa anche la Federal Reserve.
Aiuti di Stato belli e buoni, un soccorso clamoroso che ribalta alla radice il precetto di Max Weber e il suo famigerato L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, su cui l’America e intere generazioni di economisti, amministratori e uomini politici hanno costruito le proprie convinzioni e la propria orgogliosa diversità. Già perché questi affannosi interventi al capezzale delle banche che boccheggiano - interventi, è ovvio, tutti a spese del contribuente, mai a carico dei responsabili - ci trascinano fatalmente in un teatro che conosciamo molto bene: quello dell’economia allegra e irresponsabile di cui il nostro Paese (ma la Francia ci tallona da vicino e in Germania si scoprono bubboni di imbarazzante consistenza) è stato per anni un campione ineguagliato. Seppellito Weber, l’America si scopre orfana del proprio modello economico liberale e viceversa soggiogata da un’assenza di regole che è la causa primaria delle ondate di scandali e di fallimenti che si vanno accumulando da un anno a questa parte, quando la crisi dei mutui subprime (elargiti in totale inosservanza del buon senso e soprattutto mentre le authorities che avrebbero dovuto vigilare guardavano farisaicamente dall’altra parte) ha fatto scoppiare la prima bolla finanziaria. La prima, perché ora ne arrivano altre, a catena, nelle banche, nelle società finanziarie, in tutto quell’ingestibile universo di carta che ora trema nelle sue fragili fondamenta. E diciamo 'di carta' per alludere simbolicamente a quel mare di ricchezza che si muove da uno schermo di un computer all’altro, da un capo del mondo all’altro, senza che nulla di concreto e di reale si possa toccare con mano fino al momento in cui questo forziere virtuale esplode: allora, e solo in quel momento, i debiti diventano reali, le perdite prendono valore e consistenza. Di questo capitalismo pasticcione l’America, che è e rimane un Paese-guida nell’economia mondiale, dovrà forzatamente darsi ragione e trovare un rimedio. Forse accentuando la presenza dirigista dello Stato, forse ripristinando forme accettabili di protezionismo, forse ripensando al ruolo che la finanza ha assunto nel mondo globalizzato. Quanto a noi europei, finora protetti dallo scudo dell’euro senza il quale valute fragili come la lira avrebbero già collassato e svalutato da tempo, la lezione americana dovrebbe indurci a riflessioni ancor più profonde.
Sulla follia di un mercato che traffica in prodotti indecifrabili e incomprensibili per il consumatore medio, al quale tuttavia accolla regolarmente i propri fallimenti. Il risultato è una crisi globale di fiducia, che si innesta a sua volta sulla danza vertiginosa dei prezzi delle materie prime. Se questa è la mano invisibile del mercato di Adam Smith, essa è stata assai pesante.
«Avvenire» del 19 marzo 2008
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