di Maurizio Cucchi
Leggo su 'Repubblica', domenica scorsa, un articolo di Stefano Bartezzaghi sulle condizioni della nostra lingua, intitolato «Parliamo come mangiamo forse anche troppo». Bartezzaghi ricorda il cammino difficile della nostra bellissima lingua, prima sostanzialmente letteraria (e dunque lingua scritta) fino all’unificazione linguistica per buona parte dovuta (come autorevolmente sostenuto da Tullio di Mauro quarantacinque anni fa) all’avvento della televisione. Ma oggi quali sono le condizioni della nostra lingua? Come parla l’italiano del Duemila? Non vorrei sembrare lamentoso, ma direi che parla piuttosto male, direi che ancora una volta la televisione ha imposto il suo dominio, ma con modalità e qualità molto diverse. Ho sempre in mente le parole con le quali il grande poeta milanese Delio Tessa introduceva un suo libro: «Riconosco e onoro un solo maestro, il popolo che parla». Oggi un’affermazione del genere non avrebbe più alcun senso. D’accordo, Tessa scriveva in dialetto e ascoltava parlanti dialettali. Ma non è questo il punto. Fino alla sua epoca (morì, ricordo, nel 1939), in ogni caso, il popolo era davvero creatore di linguaggio. Molto spesso le espressioni della gente comune ravvivavano la lingua, le davano sapore e concretezza colorita. Spesso, insomma, la lingua si formava e ricreava dal basso. Oggi non è così. La gente parla più o meno secondo modalità che scendono dai media, soprattutto dalla tivù, ovviamente, e dunque dall’alto di un’autorità linguistica per niente autorevole. E così la lingua si impoverisce e si arricchisce di stereotipi , storpiature e orrori vari. Chi è abituato ad ascoltare, se ne rende conto facilmente, quotidianamente. Basta salire su un autobus o entrare in un bar per sentirsi piovere addosso una parlata piena di «ochèi» o di «occhèi» secondo la regione, in frasi infiorate da un turpiloquio che ormai ha perduto persino il suo valore trasgressivo. La classica parolaccia, voglio dire, è del tutto priva di sostanza ed effetto, è totalmente desemantizzata; uno la pronuncia come dicesse una cifre o due sillabe senza senso alcuno, meccanicamente. Un’altra tendenza evidente, anche questa di provenienza radiotelevisiva, è quella che porta a una incongrua forma di 'nobilitazione' del lessico. Tutti dicono «nulla», ormai, anziché «niente», tutti parlano di «filosofia» a sproposito, persino i calciatori, e il Dna è finito dappertutto. L’altro giorno ho sentito una ragazza che diceva: «mangiare tardi la sera è nel mio Dna». E non parliamo poi dell’abuso gratuito di parole inglesi, delle quali ogni linguaggio settoriale si cosparge in modo involontariamente comico. Tornando a Tessa e rientrando a questo punto nel mio più normale campo d’azione, devo dire che questa mutata fisionomia della lingua comporta anche un diverso atteggiamento letterario verso la parola. Da sempre, tra i compiti più importanti di chi scrive c’è quello di fornire un utile servizio alla lingua, scritta o parlata che sia. Fino a qualche tempo fa, una ventina d’anni più o meno, uno degli obiettivi forti della letteratura era quello di introdurre sulla pagina o nel verso elementi del parlato, capace di ridare vita e autenticità alla scrittura; con un felice riflesso di utilità sulla lingua normale d’uso. Oggi tutto questo non è possibile, perché il parlato è di qualità spuria e scadente e dunque la letteratura deve contribuire a far riemergere equilibrio e decoro, plausibilità e bellezza della lingua, per rivitalizzarla contro gli stereotipi e la volgarità dilaganti.
«Avvenire» del 20 marzo 2008
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