Analizzando tre sonetti del «Canzoniere», il critico Giorgio Bertone delinea gli «elementi sparsi» di una teoria dell’immagine e del ritratto nel grande poeta, in linea con il Secondo Concilio di Nicea: e per la prima volta un intellettuale riconosce alla pittura una qualità eccellente
Di Bianca Garavelli
Il punto di partenza è la questione del ritratto, «riassumibile, simbolicamente, nei poli del Concilio di Nicea e dell’avvento della fotografia». Questione nella quale si inscrive, sorta di pacificatore tra forze in contrasto, il poeta Petrarca. È l’affascinante percorso che Giorgio Bertone, docente e studioso letteratura italiana (per esempio di Calvino e di metrica, ma anche del rapporto fra scrittura e paesaggio), compie rileggendo tre sonetti del Canzoniere petrarchesco: il XVI, il LXXVII e il LXXVIII, nei quali individua gli «elementi sparsi» di una teoria del ritratto, non sistematica, ma significativa e sorprendente. Si parte dal celebre sonetto XVI, «Movesi il vecchierel canuto et biancho», in cui un pellegrino compie un viaggio per venerare la Veronica, la vera immagine di Cristo. Con questo pellegrino si identifica lo stesso poeta, che in un certo senso venera l’immagine della sua Laura.
E qui entra in gioco il Secondo Concilio di Nicea: nella quinta sessione, al centro della sala conciliare, «dove già la tradizione voleva in posizione d’onore i Sacri Vangeli», viene messa un’icona. Per la prima volta, l’immagine viene elevata allo stesso rango della parola divina: in effetti dai lavori del Concilio emergerà poi la prevalenza della vista sull’udito, e verrà ufficialmente attribuita alle immagini sacre la capacità di indurre i fedeli all’adorazione di Gesù incarnato, con grande vantaggio per le loro anime.
Petrarca, in tutto ciò, finisce per ricoprire il doppio ruolo di teorico e fruitore concreto della propria stessa teoria. Infatti sappiamo, per sua diretta testimonianza, che si era fatto dipingere dal famoso pittore Simone Martini un ritratto di Laura, al quale teneva moltissimo. Nel Terzo Libro del Secretum, però, dalle parole di Sant’Agostino emerge un duro rimprovero verso questa sua debolezza peccaminosa. Ma a leggere bene, osserva Bertone, si scopre che il male non sta nel ritratto, bensì nell’ossessione del pensiero continuo di Laura, che occupa e tormenta la mente del poeta anche quando la sua donna non è presente. Al contrario verso l’autore di quest’ultimo, Simone Martini, viene espresso un apprezzamento assoluto, al punto di parlare del «genio di un famoso artista».
Quindi Petrarca non si rivela affatto sulla linea dell’iconoclastia, della condanna dell’immagine in quanto inferiore rispetto alla parola, quanto piuttosto dell’idea che nel ritratto, sulla scia di quello divino della Veronica e delle icone, si ponga un fondamento di verità. L’arte del ritratto, e in generale la pittura, è dunque nobile, e in un certo senso divina, dotata com’è del potere di suggerire l’identificazione dell’immagine con la realtà che riproduce. È quanto Petrarca suggerisce nei due sonetti di ringraziamento per il ritratto di Laura, dedicati appunto a Simone Martini, il LXXVII e il LXXVIII. All’immagine, sia pure un’immagine non di per sé sacra, viene attribuito un valore del tutto positivo: la pittura è da ascrivere pienamente nel novero delle arti liberali. Da poeta, Petrarca assume qui anche un po’ il ruolo di storico dell’arte, e di pioniere di un discorso tuttora in atto sull’immagine e il suo ruolo.
Per la prima volta, un intellettuale riconosce all’immagine una potenza dirompente, esercitata attraverso l’emotività che suscita, sia nell’artista che la produce, sia nello spettatore che l’ammira: Simone Martini secondo Petrarca è salito «nel cielo» per ideare la sua opera e vedere la vera immagine di Laura, senza lo schermo ingannevole del corpo. Ecco perché ogni volta che guarda il suo ritratto il poeta tanto si commuove. Una rilettura di tre sonetti che ci fa riflettere su una sorprendente ipotesi: che l’immagine nasca nella cultura occidentale con le radici ben piantate nella dimensione della spiritualità.
Giorgio Bertone, Il Volto di Dio. Il volto di Laura, Il melangolo, pp. 76, € 15,00
E qui entra in gioco il Secondo Concilio di Nicea: nella quinta sessione, al centro della sala conciliare, «dove già la tradizione voleva in posizione d’onore i Sacri Vangeli», viene messa un’icona. Per la prima volta, l’immagine viene elevata allo stesso rango della parola divina: in effetti dai lavori del Concilio emergerà poi la prevalenza della vista sull’udito, e verrà ufficialmente attribuita alle immagini sacre la capacità di indurre i fedeli all’adorazione di Gesù incarnato, con grande vantaggio per le loro anime.
Petrarca, in tutto ciò, finisce per ricoprire il doppio ruolo di teorico e fruitore concreto della propria stessa teoria. Infatti sappiamo, per sua diretta testimonianza, che si era fatto dipingere dal famoso pittore Simone Martini un ritratto di Laura, al quale teneva moltissimo. Nel Terzo Libro del Secretum, però, dalle parole di Sant’Agostino emerge un duro rimprovero verso questa sua debolezza peccaminosa. Ma a leggere bene, osserva Bertone, si scopre che il male non sta nel ritratto, bensì nell’ossessione del pensiero continuo di Laura, che occupa e tormenta la mente del poeta anche quando la sua donna non è presente. Al contrario verso l’autore di quest’ultimo, Simone Martini, viene espresso un apprezzamento assoluto, al punto di parlare del «genio di un famoso artista».
Quindi Petrarca non si rivela affatto sulla linea dell’iconoclastia, della condanna dell’immagine in quanto inferiore rispetto alla parola, quanto piuttosto dell’idea che nel ritratto, sulla scia di quello divino della Veronica e delle icone, si ponga un fondamento di verità. L’arte del ritratto, e in generale la pittura, è dunque nobile, e in un certo senso divina, dotata com’è del potere di suggerire l’identificazione dell’immagine con la realtà che riproduce. È quanto Petrarca suggerisce nei due sonetti di ringraziamento per il ritratto di Laura, dedicati appunto a Simone Martini, il LXXVII e il LXXVIII. All’immagine, sia pure un’immagine non di per sé sacra, viene attribuito un valore del tutto positivo: la pittura è da ascrivere pienamente nel novero delle arti liberali. Da poeta, Petrarca assume qui anche un po’ il ruolo di storico dell’arte, e di pioniere di un discorso tuttora in atto sull’immagine e il suo ruolo.
Per la prima volta, un intellettuale riconosce all’immagine una potenza dirompente, esercitata attraverso l’emotività che suscita, sia nell’artista che la produce, sia nello spettatore che l’ammira: Simone Martini secondo Petrarca è salito «nel cielo» per ideare la sua opera e vedere la vera immagine di Laura, senza lo schermo ingannevole del corpo. Ecco perché ogni volta che guarda il suo ritratto il poeta tanto si commuove. Una rilettura di tre sonetti che ci fa riflettere su una sorprendente ipotesi: che l’immagine nasca nella cultura occidentale con le radici ben piantate nella dimensione della spiritualità.
Giorgio Bertone, Il Volto di Dio. Il volto di Laura, Il melangolo, pp. 76, € 15,00
«Avvenire» dell’8 marzo 2008
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