Il celebre scrittore francese riflette sulla scuola a partire dalle sue esperienze personali, da studente «somaro» a professore
Di Bernard Gorce
«Chi non riesce nello studio spesso si fabbrica personalità sostitutive attraverso il continuo acquisto di oggetti. Ed è difficile insegnare a ragazzi immersi in un marketing permanente»
Di Bernard Gorce
«Chi non riesce nello studio spesso si fabbrica personalità sostitutive attraverso il continuo acquisto di oggetti. Ed è difficile insegnare a ragazzi immersi in un marketing permanente»
Scrittore di successo, affermatosi negli anni Ottanta con la serie di Benjamin Malaussène, Daniel Pennac è autore del fortunato saggio Come un romanzo in difesa della lettura. Nell’ultimo libro Chagrin d’école (Gallimard) rievoca, con sottile umorismo, il suo tormentato percorso scolastico: da alunno con difficoltà d’apprendimento a docente di francese.
Perché un libro che è, al tempo stesso, testimonianza e riflessione sull’insuccesso scolastico?
« Chagrin d’école non è un saggio sulla scuola ma sul dolore di non capire. Sono stato io stesso uno studente somaro e il libro parla della sofferenza del bambino che, già da piccolo, prova quel particolare dolore di non capire quanto gli viene insegnato. Non assimila. Gli sfugge il senso della sua presenza in classe, così come le finalità di un’istituzione da cui cercherà di scappare. Il dolore dello zuccone provoca in lui una disistima permanente. L’adolescente fallito si sente privato di futuro, prigioniero di un eterno presente ».
Comunque il libro esce in un contesto di tensioni su una scuola che non sa far progredire gli allievi...
«Già nel 1969, quando cominciai a insegnare, sentivo la sala professori decretare unanime: 'Il livello si abbassa'. Questo leitmotiv sull’abbassamento del livello tradisce un altro malessere, l’incapacità della nostra società di superare la riproduzione dell’élite da parte di se stessa. Ma la vera difficoltà di insegnare oggi riguarda un altro aspetto: il conflitto permanente tra desideri e bisogni. I nostri figli crescono in una società venditrice che da mattina a sera si rivolge ai loro desideri superficiali: consumare sempre di più, cambiare marche, eccetera. Ebbene, il compito dei professori consiste nel rivolgersi ai loro bisogni fondamentali: leggere, contare, ragionare. Difficilissimo insegnare a ragazzi nei quali un marketing permanente crea confusione tra desideri e bisogni. Questa clientelizzazione della giovinezza riguarda evidentemente di più i ragazzi con difficoltà scolastiche che, consumando, si fabbricano personalità sostitutive.
Di fronte a questo problema, tutto il resto mi sembra secondario».
La sofferenza dello «zuccone», lei dice, è tanto più terribile in quanto porta con sé quella degli adulti che lo circondano.
«La nullità del figlio getta nella disperazione i genitori che temono per il suo futuro, e scoraggia gli insegnanti che la vivono come un fallimento professionale. Sono tutti coinvolti nel disagio. È per questo che rifiuto di soffermarmi sulla responsabilità degli uni e degli altri. Intendiamoci bene, escludo il caso di adulti torturatori, di perversi che si compiacciono del fallimento, o di educatori indifferenti. Ma per la maggioranza degli adulti il fallimento si determina nonostante quello che, più o meno bene, abbiamo fatto. Allora il senso di colpa fa solo sprofondare l’adulto, insieme con il bambino, nell’umiliazione.
Meglio cercare soluzioni che indicare colpevoli».
Però lei non è tenero con i genitori immaturi…
«Racconto il caso del padre di un mio allievo che era venuto a lamentarsi della scarsa maturità del figlio e che il giorno dopo ho incrociato sul marciapiede, vestito in maniera impeccabile, ma sul monopattino! Questa storia mi sembra sintomatica di una società in cui troppo spesso scompaiono le frontiere tra genitori e figli, uniti dallo stesso infantilismo consumistico. La facilità di certi bambini nel padroneggiare, meglio degli adulti, il funzionamento dei gadget elettronici d’ultimo grido è solo una pseudo-maturità. Il loro essere 'connessi' ci fa perdere il senso della loro infanzia. E noi adulti disperdiamo nei consumi buona parte dell’attenzione che dovremmo rivolgere all’infanzia dei nostri figli. Non faccio l’avvocato dell’austerità (viva il desiderio!) ma deploro l’infantilizzazione dell’individuo da parte di un marketing permanente. Uomini-bambini di fronte a bambini-uomini, ciascuno intento a recitare il ruolo dell’altro, mentre si è perso il senso di cosa l’altro debba essere. Ecco cosa siamo ».
Leggendo il libro si ha la sensazione che il successo, in classe, dipenda dai talenti del professore…
«Ho constatato spesso che la qualità di vita e d’insegnamento nei college e nei licei dove vengo invitato è dovuta in gran parte alla personalità del direttore, del preside, e quella della classe alla personalità dell’insegnante. Detto questo, penso che certe pratiche potrebbero essere generalizzate. Il teatro, ad esempio, andrebbe praticato in tutti gli istituti come lo sport. L’opera ripetuta e recitata suscita lo spirito di gruppo e rende davvero possibile immergersi nella lingua francese. Se tutti gli allievi, fin dalla più tenera età, venissero abituati a recitare, sono persuaso che la loro capacità di esprimersi cambierebbe in modo sostanziale».
Qual è il segreto del mestiere?
«L’amore. Ma attenzione: non si tratta di rendere sentimentale il rapporto pedagogico. Quello che chiamo amore è un cocktail fatto di passione per la materia che si insegna, piacere di trasmetterla e una benevola lucidità nei confronti della giovinezza.
Questi tre ingredienti mi sembrano indispensabili al mestiere di professore ».
Eppure pare che in alcune città i giovani siano meno «amabili» degli zucconi di un tempo…
«Su 12 milioni e 400 mila allievi, in Francia, poniamo che 50 mila siano responsabili di atti violenti negli istituti. Sarebbe lo 0,4% della popolazione scolastica. Oggi, quando si tratta di scuola, si sente parlare solo di questo margine che delinque. Tale stigmatizzazione della periferia mi scandalizza. Sono scandalizzato che le intelligenze più raffinate si facciano portatrici di tale razzismo incosciente. Anche qui vedo la sindrome di una società che ha perso il senso della paternità».
Perché un libro che è, al tempo stesso, testimonianza e riflessione sull’insuccesso scolastico?
« Chagrin d’école non è un saggio sulla scuola ma sul dolore di non capire. Sono stato io stesso uno studente somaro e il libro parla della sofferenza del bambino che, già da piccolo, prova quel particolare dolore di non capire quanto gli viene insegnato. Non assimila. Gli sfugge il senso della sua presenza in classe, così come le finalità di un’istituzione da cui cercherà di scappare. Il dolore dello zuccone provoca in lui una disistima permanente. L’adolescente fallito si sente privato di futuro, prigioniero di un eterno presente ».
Comunque il libro esce in un contesto di tensioni su una scuola che non sa far progredire gli allievi...
«Già nel 1969, quando cominciai a insegnare, sentivo la sala professori decretare unanime: 'Il livello si abbassa'. Questo leitmotiv sull’abbassamento del livello tradisce un altro malessere, l’incapacità della nostra società di superare la riproduzione dell’élite da parte di se stessa. Ma la vera difficoltà di insegnare oggi riguarda un altro aspetto: il conflitto permanente tra desideri e bisogni. I nostri figli crescono in una società venditrice che da mattina a sera si rivolge ai loro desideri superficiali: consumare sempre di più, cambiare marche, eccetera. Ebbene, il compito dei professori consiste nel rivolgersi ai loro bisogni fondamentali: leggere, contare, ragionare. Difficilissimo insegnare a ragazzi nei quali un marketing permanente crea confusione tra desideri e bisogni. Questa clientelizzazione della giovinezza riguarda evidentemente di più i ragazzi con difficoltà scolastiche che, consumando, si fabbricano personalità sostitutive.
Di fronte a questo problema, tutto il resto mi sembra secondario».
La sofferenza dello «zuccone», lei dice, è tanto più terribile in quanto porta con sé quella degli adulti che lo circondano.
«La nullità del figlio getta nella disperazione i genitori che temono per il suo futuro, e scoraggia gli insegnanti che la vivono come un fallimento professionale. Sono tutti coinvolti nel disagio. È per questo che rifiuto di soffermarmi sulla responsabilità degli uni e degli altri. Intendiamoci bene, escludo il caso di adulti torturatori, di perversi che si compiacciono del fallimento, o di educatori indifferenti. Ma per la maggioranza degli adulti il fallimento si determina nonostante quello che, più o meno bene, abbiamo fatto. Allora il senso di colpa fa solo sprofondare l’adulto, insieme con il bambino, nell’umiliazione.
Meglio cercare soluzioni che indicare colpevoli».
Però lei non è tenero con i genitori immaturi…
«Racconto il caso del padre di un mio allievo che era venuto a lamentarsi della scarsa maturità del figlio e che il giorno dopo ho incrociato sul marciapiede, vestito in maniera impeccabile, ma sul monopattino! Questa storia mi sembra sintomatica di una società in cui troppo spesso scompaiono le frontiere tra genitori e figli, uniti dallo stesso infantilismo consumistico. La facilità di certi bambini nel padroneggiare, meglio degli adulti, il funzionamento dei gadget elettronici d’ultimo grido è solo una pseudo-maturità. Il loro essere 'connessi' ci fa perdere il senso della loro infanzia. E noi adulti disperdiamo nei consumi buona parte dell’attenzione che dovremmo rivolgere all’infanzia dei nostri figli. Non faccio l’avvocato dell’austerità (viva il desiderio!) ma deploro l’infantilizzazione dell’individuo da parte di un marketing permanente. Uomini-bambini di fronte a bambini-uomini, ciascuno intento a recitare il ruolo dell’altro, mentre si è perso il senso di cosa l’altro debba essere. Ecco cosa siamo ».
Leggendo il libro si ha la sensazione che il successo, in classe, dipenda dai talenti del professore…
«Ho constatato spesso che la qualità di vita e d’insegnamento nei college e nei licei dove vengo invitato è dovuta in gran parte alla personalità del direttore, del preside, e quella della classe alla personalità dell’insegnante. Detto questo, penso che certe pratiche potrebbero essere generalizzate. Il teatro, ad esempio, andrebbe praticato in tutti gli istituti come lo sport. L’opera ripetuta e recitata suscita lo spirito di gruppo e rende davvero possibile immergersi nella lingua francese. Se tutti gli allievi, fin dalla più tenera età, venissero abituati a recitare, sono persuaso che la loro capacità di esprimersi cambierebbe in modo sostanziale».
Qual è il segreto del mestiere?
«L’amore. Ma attenzione: non si tratta di rendere sentimentale il rapporto pedagogico. Quello che chiamo amore è un cocktail fatto di passione per la materia che si insegna, piacere di trasmetterla e una benevola lucidità nei confronti della giovinezza.
Questi tre ingredienti mi sembrano indispensabili al mestiere di professore ».
Eppure pare che in alcune città i giovani siano meno «amabili» degli zucconi di un tempo…
«Su 12 milioni e 400 mila allievi, in Francia, poniamo che 50 mila siano responsabili di atti violenti negli istituti. Sarebbe lo 0,4% della popolazione scolastica. Oggi, quando si tratta di scuola, si sente parlare solo di questo margine che delinque. Tale stigmatizzazione della periferia mi scandalizza. Sono scandalizzato che le intelligenze più raffinate si facciano portatrici di tale razzismo incosciente. Anche qui vedo la sindrome di una società che ha perso il senso della paternità».
(per gentile concessione del quotidiano «La Croix»; traduzione di Anna Maria Brogi)
«Avvenire» del 1 novembre 2007
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