Se non esiste il riconoscimento di una comune e intangibile natura umana, allora nessun limite è sicuro e tutto è permesso: anche l’uccisione di un essere consenziente. L’analisi del filosofo tedesco Spaemann
di Robert Spaemann
Non esiste un’etica senza fondamento metafisico. Ci si può rendere facilmente conto di ciò prendendo l’esempio del solipsismo: se il solipsismo è vero, allora non c’è alcun obbligo morale nei confronti di nessuno. Solo se c’è un essere autonomo l’agire ha una dimensione morale, e solo se l’essere si manifesta in una natura umana la dignità umana può essere rispettata.
In caso contrario varrebbe senza limitazioni il principio «volenti non fit iniura» e non ci sarebbero obiezioni morali nei confronti del cannibale di Rotenburg, che ha ucciso spietatamente e mangiato un’altra persona con il suo consenso. Sicuramente per l’essere umano la sua natura può essere normativa solo se la natura stessa viene intesa come cifra della volontà divina, altrimenti vale la frase di Dostojevski: «Se Dio non esiste, allora tutto è permesso».
La politica moderna non è più orientata, come quella aristotelica, all’eudaimonia, a una definizione interiore di felicità. Hobbes considera l’uomo come essere che non è affatto capace di raggiungere la felicità ma che «procede di desiderio in desiderio». La costituzione americana non garantisce la felicità ma la ricerca della felicità (pursuit of happines), e ciò che la politica è in grado di fare è proteggere l’uomo dalla violenza di altri uomini. Inoltre, come diceva Federico II di Prussia, «ognuno può vivere a modo suo».
Non si è mai potuto portare avanti coerentemente questa concezione della politica e oggi essa urta contro limiti precisi. La politica e il diritto devono partire sempre da una determinata valutazione degli interessi degli individui come criterio di giudizio di ciò che è naturale, altrimenti non si sarebbe potuto punire il già citato cannibale di Rotenburg. Dunque dobbiamo giudicare gli interessi e l’idea di felicità a seconda che siano conformi all’effettivo interesse degli individui, altrimenti perché vietare la pubblicità del tabacco? Da diversi decenni sappiamo che l’uomo, con il suo agire, è in grado di causare pericoli duraturi ed estesi per l’esistenza del genere umano. Il moderno
in dubio pro libertate deve nel frattempo lasciare spazio a un nuovo tuziorismo. Perfino nel caso improbabile che il riscaldamento globale non sia causato dall’uomo, dobbiamo presumere l’ipotesi più probabile, e di conseguenza dobbiamo imporre drastiche limitazioni. Inoltre, gli individui sono pronti a obbedire agli esperti ogni volta che la parola eudaimonia possa essere sostituita dal termine «salute», e questo anche nel caso della salute mentale. Quando però il concetto di salute mentale ha una connotazione morale, e ce l’ha, emerge sempre un liberalismo individualistico che vorrebbe addirittura vietare la definizione della mancanza di attrazione verso l’altro sesso come difetto psichico e la ricerca della possibilità terapeutiche. Questo punto di vista è profondamente irrazionale.
La concezione liberale moderna dello Stato ha ritenuto di poter fare a meno dell’antropologia. Scopo dello Stato è soltanto la difesa dello spazio di libertà soggettivo degli individui e la libertà non è altro che il «potersi muovere lungo strade il più possibili numerose» ( Thomas Hobbes).
Il movimento illuminista classico ripropone la contrapposizione dei greci tra physis e nomos e il suo concetto di libertà è emancipatorio, concepisce la libertà come liberazione da tutte le limitazioni date dalla tradizione o da autorità altrui. Ciò che deve essere liberato è la natura umana. Nell’età classica dell’Illuminismo è ancora lontana l’idea di un’emancipazione della natura umana, ovvero il tentativo di intendere l’essere umano come un semplice soggetto di volontà per il quale non sussiste alcuna determinazione di tipo normativo. L’idea illuministica dello Stato è pienamente ispirata dalla fede in un «sistema naturale» e in diritti naturali dell’uomo. La critica di queste idee proviene inizialmente dallo storicismo e dal tradizionalismo, poi però si radicalizza nel rifiuto di qualsiasi norma di tipo antropologico attestante una sorta di natura dell’essere umano. Aborto, eutanasia, omosessualità, perversioni sessuali, rifiuto del ruolo femminile materno, tutto ciò rappresenta per l’Illuminismo un orrore. Per i giacobini, il riconoscimento naturale dell’esistenza di Dio appare ancora così irrinunciabile da condannare l’ateismo con la pena di morte. Solo la critica del razionalismo, attraverso il romanticismo e lo storicismo, relativizza il concetto di natura, a differenza di quello aristotelico non affatto storico. Solo la trasformazione radicale ed emancipatrice del XX secolo ha legittimato tutti i cosiddetti «fenomeni», in quanto rifiutano qualsiasi normativa di natura.
Le conseguenze derivanti da questo atteggiamento urtano da alcuni decenni contro i propri limiti e si mostrano inconciliabili con le condizioni di mantenimento del genere umano. Possiamo portare alcuni esempi in proposito. 1) Non può esserci educazione senza regole di tipo normativo, che certamente variano nello spazio e nel tempo, ma che non sono una scelta. Se le variazioni non restano all’interno di una cornice che è stabilita dalla natura umana, l’educazione, ovvero la trasmissione di modelli di vita giusta, non può più funzionare.
2) I conflitti d’interesse possono essere superati solo in modo giusto, se siamo in grado di pesare gli interessi, ovvero se sappiamo distinguere i più importanti da quelli meno importanti, i più urgenti da quelli meno urgenti, i più fondati da quelli meno fondati. È significativo che Marx abbia rifiutato qualunque idea di giusta risoluzione dei conflitti d’interesse. Secondo lui esiste un’unica soluzione, ovvero l’universalizzazione di un solo interesse attraverso il superamento di tutti gli altri, la produzione di una ricchezza abbondante e quindi la scomparsa del problema della distribuzione.
3) La soluzione del precedente punto si rivela oggi impossibile. Il problema della scarsità delle risorse esisterà fino a quando esisterà l’essere umano, quindi anche la necessità degli Stati e il desiderio di giustizia, inteso come criterio interiore basato sulla natura dell’essere umano.
4) Il rifiuto di un criterio di questo tipo e lo scatenarsi illimitato di desideri soggettivi distruggono le condizioni di vita a lungo termine della famiglia dell’umanità. Fino a pochi decenni fa, la natura che ci circonda appariva come una riserva illimitata e inesauribile di risorse, una forza infinita capace di neutralizzare le conseguenze dell’attività umana. Oggi sappiamo che questa forza è limitata e la politica ne deve tener conto. Se percepiamo le limitazioni che derivano da queste considerazioni solo come obblighi indesiderati – ovvero, freudianamente, il principio di piacere contrapposto al principio di realtà –, allora la dittatura ecologica rappresenta un risultato inevitabile.
Se esiste però una sorta di natura umana, allora c’è anche la possibilità di considerare i limiti come condizioni sensate, come indica la parola greca telos. Solo se esiste un telos
naturale della vita degli uomini, sussiste allora la possibilità che l’agire degli Stati, volto al mantenimento del genere umano, sia compatibile con gli scopi degli individui. Solo se esiste una fondamentale normalità, basata su una comune natura umana, dalla quale non vogliamo e non possiamo emanciparci, è possibile a lungo la democrazia.
In caso contrario varrebbe senza limitazioni il principio «volenti non fit iniura» e non ci sarebbero obiezioni morali nei confronti del cannibale di Rotenburg, che ha ucciso spietatamente e mangiato un’altra persona con il suo consenso. Sicuramente per l’essere umano la sua natura può essere normativa solo se la natura stessa viene intesa come cifra della volontà divina, altrimenti vale la frase di Dostojevski: «Se Dio non esiste, allora tutto è permesso».
La politica moderna non è più orientata, come quella aristotelica, all’eudaimonia, a una definizione interiore di felicità. Hobbes considera l’uomo come essere che non è affatto capace di raggiungere la felicità ma che «procede di desiderio in desiderio». La costituzione americana non garantisce la felicità ma la ricerca della felicità (pursuit of happines), e ciò che la politica è in grado di fare è proteggere l’uomo dalla violenza di altri uomini. Inoltre, come diceva Federico II di Prussia, «ognuno può vivere a modo suo».
Non si è mai potuto portare avanti coerentemente questa concezione della politica e oggi essa urta contro limiti precisi. La politica e il diritto devono partire sempre da una determinata valutazione degli interessi degli individui come criterio di giudizio di ciò che è naturale, altrimenti non si sarebbe potuto punire il già citato cannibale di Rotenburg. Dunque dobbiamo giudicare gli interessi e l’idea di felicità a seconda che siano conformi all’effettivo interesse degli individui, altrimenti perché vietare la pubblicità del tabacco? Da diversi decenni sappiamo che l’uomo, con il suo agire, è in grado di causare pericoli duraturi ed estesi per l’esistenza del genere umano. Il moderno
in dubio pro libertate deve nel frattempo lasciare spazio a un nuovo tuziorismo. Perfino nel caso improbabile che il riscaldamento globale non sia causato dall’uomo, dobbiamo presumere l’ipotesi più probabile, e di conseguenza dobbiamo imporre drastiche limitazioni. Inoltre, gli individui sono pronti a obbedire agli esperti ogni volta che la parola eudaimonia possa essere sostituita dal termine «salute», e questo anche nel caso della salute mentale. Quando però il concetto di salute mentale ha una connotazione morale, e ce l’ha, emerge sempre un liberalismo individualistico che vorrebbe addirittura vietare la definizione della mancanza di attrazione verso l’altro sesso come difetto psichico e la ricerca della possibilità terapeutiche. Questo punto di vista è profondamente irrazionale.
La concezione liberale moderna dello Stato ha ritenuto di poter fare a meno dell’antropologia. Scopo dello Stato è soltanto la difesa dello spazio di libertà soggettivo degli individui e la libertà non è altro che il «potersi muovere lungo strade il più possibili numerose» ( Thomas Hobbes).
Il movimento illuminista classico ripropone la contrapposizione dei greci tra physis e nomos e il suo concetto di libertà è emancipatorio, concepisce la libertà come liberazione da tutte le limitazioni date dalla tradizione o da autorità altrui. Ciò che deve essere liberato è la natura umana. Nell’età classica dell’Illuminismo è ancora lontana l’idea di un’emancipazione della natura umana, ovvero il tentativo di intendere l’essere umano come un semplice soggetto di volontà per il quale non sussiste alcuna determinazione di tipo normativo. L’idea illuministica dello Stato è pienamente ispirata dalla fede in un «sistema naturale» e in diritti naturali dell’uomo. La critica di queste idee proviene inizialmente dallo storicismo e dal tradizionalismo, poi però si radicalizza nel rifiuto di qualsiasi norma di tipo antropologico attestante una sorta di natura dell’essere umano. Aborto, eutanasia, omosessualità, perversioni sessuali, rifiuto del ruolo femminile materno, tutto ciò rappresenta per l’Illuminismo un orrore. Per i giacobini, il riconoscimento naturale dell’esistenza di Dio appare ancora così irrinunciabile da condannare l’ateismo con la pena di morte. Solo la critica del razionalismo, attraverso il romanticismo e lo storicismo, relativizza il concetto di natura, a differenza di quello aristotelico non affatto storico. Solo la trasformazione radicale ed emancipatrice del XX secolo ha legittimato tutti i cosiddetti «fenomeni», in quanto rifiutano qualsiasi normativa di natura.
Le conseguenze derivanti da questo atteggiamento urtano da alcuni decenni contro i propri limiti e si mostrano inconciliabili con le condizioni di mantenimento del genere umano. Possiamo portare alcuni esempi in proposito. 1) Non può esserci educazione senza regole di tipo normativo, che certamente variano nello spazio e nel tempo, ma che non sono una scelta. Se le variazioni non restano all’interno di una cornice che è stabilita dalla natura umana, l’educazione, ovvero la trasmissione di modelli di vita giusta, non può più funzionare.
2) I conflitti d’interesse possono essere superati solo in modo giusto, se siamo in grado di pesare gli interessi, ovvero se sappiamo distinguere i più importanti da quelli meno importanti, i più urgenti da quelli meno urgenti, i più fondati da quelli meno fondati. È significativo che Marx abbia rifiutato qualunque idea di giusta risoluzione dei conflitti d’interesse. Secondo lui esiste un’unica soluzione, ovvero l’universalizzazione di un solo interesse attraverso il superamento di tutti gli altri, la produzione di una ricchezza abbondante e quindi la scomparsa del problema della distribuzione.
3) La soluzione del precedente punto si rivela oggi impossibile. Il problema della scarsità delle risorse esisterà fino a quando esisterà l’essere umano, quindi anche la necessità degli Stati e il desiderio di giustizia, inteso come criterio interiore basato sulla natura dell’essere umano.
4) Il rifiuto di un criterio di questo tipo e lo scatenarsi illimitato di desideri soggettivi distruggono le condizioni di vita a lungo termine della famiglia dell’umanità. Fino a pochi decenni fa, la natura che ci circonda appariva come una riserva illimitata e inesauribile di risorse, una forza infinita capace di neutralizzare le conseguenze dell’attività umana. Oggi sappiamo che questa forza è limitata e la politica ne deve tener conto. Se percepiamo le limitazioni che derivano da queste considerazioni solo come obblighi indesiderati – ovvero, freudianamente, il principio di piacere contrapposto al principio di realtà –, allora la dittatura ecologica rappresenta un risultato inevitabile.
Se esiste però una sorta di natura umana, allora c’è anche la possibilità di considerare i limiti come condizioni sensate, come indica la parola greca telos. Solo se esiste un telos
naturale della vita degli uomini, sussiste allora la possibilità che l’agire degli Stati, volto al mantenimento del genere umano, sia compatibile con gli scopi degli individui. Solo se esiste una fondamentale normalità, basata su una comune natura umana, dalla quale non vogliamo e non possiamo emanciparci, è possibile a lungo la democrazia.
« Avvenire » del 2 novembre 2007
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