di Pierluigi Battista
Come andrà a finire (l’eventuale) istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sul G8 di Genova? Nel modo più ovvio e scontato. Se al momento delle conclusioni in Parlamento dovesse prevalere una maggioranza di centrosinistra si stabilirà in nome del popolo italiano che la polizia si è comportata in modo deplorevole, che nel luglio 2001 l’Italia ha conosciuto una condizione «cilena», che Carlo Giuliani è stato assassinato con predeterminazione, che l’estintore rosso era un giocattolo, che i black block erano in contatto con i servizi segreti ovviamente deviati, e che la scuola Diaz è stato il teatro di una macelleria messicana voluta e deliberata dal governo del Polo. Se invece subentrasse una maggioranza di centrodestra si stabilirà, sempre in nome del popolo italiano, che la polizia non ha fatto che difendersi, che i disordini sono stati preordinati, che la possibilità di qualche marginale errore deve imputarsi alla preparazione difettosa di un evento mondiale pur sempre organizzato dall’ultimo governo di centrosinistra prima dell’avvento berlusconiano del 2001, e che nella scuola Diaz, occupata dai militanti più violenti della manifestazione, le forze dell’ordine sono state accolte da sassi e bastonate. Non è una previsione, è una certezza ricavata dalla nozione stessa di «verità politica». La «verità giudiziaria» si basa sulla logica dei riscontri fattuali, delle responsabilità individuali, delle prove che dovrebbero dimostrare l’eventuale consumazione di un reato o riconoscere l’innocenza di chi non lo ha commesso. L’esito processuale non è scontato. Le sue regole prevedono l’indipendenza e la mancanza di accanimento politico di chi indaga e soprattutto di chi giudica. La «verità politica» è governata da una logica di segno rovesciato. I giudici sono esponenti politici a tutti gli effetti. Non è previsto che votino in contrasto con i risultati auspicati dallo schieramento cui appartengono. Hanno familiarità con le tendenze, il disegno complessivo, il giudizio politico ma non con i fatti, i dettagli, le responsabilità effettive dei singoli. Anzi, si sa già in partenza quale sia la loro valutazione sui fatti presi in considerazione dalla commissione parlamentare. Inoltre, la «verità politica» è essa stessa un concetto implicitamente polemico con la «verità giudiziaria», sospetta che nelle aule dei tribunali non si faccia «piena luce», che la giustizia vera sia cosa troppo delicata per lasciarla nelle mani dei giudici anziché dei parlamentari illuminati dal genio dell’intuizione politica. Le commissioni parlamentari hanno agito sempre così, inchinandosi al feticcio della «verità politica». E’stato il caso della commissione sulle stragi, laboriosissima ma incapace di pervenire a qualsiasi risultato. Della commissione P2, le cui conclusioni politiche sono state regolarmente smentite da quelle giudiziarie. Di quella antimafia, che costruì il teorema politico dell’incriminazione di Andreotti, anch’esso intaccato dai notori esiti giudiziari. Della commissione Telekom Serbia, che inscenò una gazzarra politica con l’ausilio di personaggi screditati se non addirittura grotteschi. Della commissione Mitrokhin, che voleva ricostruire la storia d’Italia su un paradigma dietrologico di nuovo conio, dove il Kgb avrebbe dovuto sostituire la Cia come matrice di ogni male e di ogni nefandezza. Ogni volta la verità «politica» ha prevalso a maggioranza, con la forza dei numeri parlamentari e non dei fatti. Adesso, dopo lo stravagante dietrofront di Di Pietro, si ricomincia con Genova. Solidarietà ai giudici, quelli veri, che giudicano nei tribunali. Quelli con la targhetta politica sulla casacca, non ne hanno bisogno.
«Corriere della sera» del 5 novembre 2007
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