Per l’Islam e i fondamentalisti religiosi è un peccato la caratteristica più preziosa della cultura occidentale
di Gian Enrico Rusconi
I nemici dell’Occidente si moltiplicano non soltanto nelle scuole coraniche islamiche-islamiste ma anche in alcune università occidentali. Dell’atteggiamento ostile fa parte anche il rifiuto o la denuncia del «razionalismo occidentale». Il termine è approssimativo, ma carico di suggestione negativa. Qualche anno fa un libro di successo, Occidentalismo. L’Occidente agli occhi dei suoi nemici, ha descritto con efficacia l’idea negativa di Occidente e quindi del suo razionalismo che è diffusa soprattutto nella cultura islamica. Uno dei passaggi centrali dice: «L’Occidente è colpevole del peccato del razionalismo, di essere cioè così arrogante da credere che la ragione per sé abiliti gli esseri umani a conoscere tutto ciò che c’è da conoscere».
Detta così, siamo davanti a una deformazione del razionalismo occidentale, costruita a partire dal primato della fede o della religione. Definire il razionalismo come «peccato» perché considera come «unica fonte di conoscenza dei fenomeni naturali la ragione» significa impedirne a priori ogni comprensione. A meno che l’affermazione non si limiti a dire che ci sono alcuni fenomeni o espressioni, in particolare della natura umana, che hanno dimensioni che dovrebbero essere considerare trascendenti (o sovra-naturali). Accessibili a forme di comprensione da definire con criteri diversi da quelli naturalistico-scientifici.
Ma, se è così, non c’è bisogno di ricorrere all’Islam. Si tratta di un antico e classico topos del pensiero occidentale: dalla tensione tra ermeneutica e metodo scientifico, ai dibattiti filosofici tra ragione dialettica e razionalità empirica o positivista, sino alle attuali discussioni tra naturalismo integrale e naturalismo liberalizzato o pluralista. Nella stessa rinascita del darwinismo di oggi ci sono posizioni strettamente naturaliste «scientiste» (con espliciti pronunciamenti ateistici) e posizioni assai più sfumate e problematiche (fondate sull’assunto «etsi deus non daretur»).
Max Weber, il maggiore studioso del razionalismo occidentale, ha sostenuto che esso consiste nell’insieme dei processi di razionalizzazione e scientificizzazione che culminano nella «intellettualizzazione» del mondo. Il risultato è «il disincantamento» del mondo e della natura, che da cosmo dotato di senso oggettivo diventa un insieme di regolarità determinate dalla scienza. Un mondo disincantato o secolarizzato non è necessariamente un mondo senza Dio, ma dove Dio ha perso ogni ruolo cosmologico. Questa è la sfida alla razionalità religiosa.
Weber intendeva dimostrare che i processi di razionalizzazione e secolarizzazione hanno avuto luogo storicamente «soltanto in Occidente» anche sulla base delle sue radici cristiane. In particolare, sotto la spinta dell’ascetismo intramondano promosso nella prima modernità dal protestantesimo. Il razionalismo moderno dunque non è il prodotto esclusivo della scienza e/o dell’illuminismo ma di una dinamica più profonda dalle remote matrici religiose.
Non ci interessa qui verificare fino a che punto le tesi weberiane siano convincenti o esaurienti dal punto di vista storico. Il nesso tra lo sviluppo eccezionale dell’Occidente e il razionalismo secolarizzante è un fatto storico incontrovertibile. Ma oggi si producono dinamiche differenti. Constatiamo, ad esempio, che i cosiddetti «valori asiatici» sono del tutto congruenti con aspetti non secondari del razionalismo originariamente occidentale. Culture extra-occidentali, con radici religiose diverse da quelle cristiane, stanno lanciando all’Occidente sfide che contengono robuste componenti di razionalismo, nell’uso e nello sviluppo delle tecnologie, ad esempio. È un razionalismo di tipo nuovo più sensibile ai «valori»?
È un equivoco molto più diffuso che la razionalità e il razionalismo, intesi come disciplina mentale e stile di vita, siano espressione di un formalismo metodico, indifferente a quelli che sono chiamati «i valori». Il razionalismo sarebbe sostanzialmente sempre strumentale, cioè incapace di creare e trasmettere valori autentici e senso del vivere privato e collettivo. È un’affermazione inconsistente. Il razionalismo infatti nasce e si muove all’interno di un surplus di valori, in un orizzonte pieno di valori di segno differente. Non a caso in Occidente si è sviluppato e vive tuttora insieme con la libertà di coscienza, di religione e della indagine scientifica, l’autonomia della persona, il pluralismo ideologico, la tolleranza, il civismo - e soprattutto con l’uso pubblico della ragione. Dov’è il vuoto dei valori lamentato dagli islamisti e dai clericali nostrani?
Il razionalismo riconosce la pluralità dei valori, certificandone nel contempo una parziale incommensurabilità e irriducibilità che può essere fonte di contrasti. Le realizzazioni dei valori sono motivo di tensioni e di contraddizioni. Il razionalismo non azzera, ma tiene conto della contraddittorietà della vita reale. E in questa ottica il razionalismo diventa ragionevolezza. La ragionevolezza è l’accettazione del pluralismo delle visioni della vita e delle fedi, il leale confronto di culture-civiltà diverse.
A questo punto possiamo tentare una sintesi del razionalismo occidentale menzionandone tre elementi costitutivi:
1) razionalismo scientifico e/o filosofico in senso ampio, inteso come intellettualizzazione e disincantamento del mondo, che comprende la secolarizzazione;
2) razionalismo etico-politico inteso come uso pubblico della ragione, caratterizzato dalla trasparenza delle procedure politico-istituzionali e dal confronto con le altre civiltà, leale e fermo nella reciprocità del riconoscimento;
3) razionalismo come attitudine o abito costantemente autocritico. Quest’ultimo è un tratto peculiare dell’Occidente: nessuna civiltà appare più differenziata e contrastata al suo interno di quella occidentale. Ne discende la sua capacità autocritica che può talvolta spingersi sino all’autodenigrazione. Ma l’autocritica è una forza, non una debolezza. Quando l’Occidente smetterà di autocriticarsi sarà la sua fine.
Se è questo «ciò che resta» del razionalismo occidentale, teniamocelo ben stretto.
Detta così, siamo davanti a una deformazione del razionalismo occidentale, costruita a partire dal primato della fede o della religione. Definire il razionalismo come «peccato» perché considera come «unica fonte di conoscenza dei fenomeni naturali la ragione» significa impedirne a priori ogni comprensione. A meno che l’affermazione non si limiti a dire che ci sono alcuni fenomeni o espressioni, in particolare della natura umana, che hanno dimensioni che dovrebbero essere considerare trascendenti (o sovra-naturali). Accessibili a forme di comprensione da definire con criteri diversi da quelli naturalistico-scientifici.
Ma, se è così, non c’è bisogno di ricorrere all’Islam. Si tratta di un antico e classico topos del pensiero occidentale: dalla tensione tra ermeneutica e metodo scientifico, ai dibattiti filosofici tra ragione dialettica e razionalità empirica o positivista, sino alle attuali discussioni tra naturalismo integrale e naturalismo liberalizzato o pluralista. Nella stessa rinascita del darwinismo di oggi ci sono posizioni strettamente naturaliste «scientiste» (con espliciti pronunciamenti ateistici) e posizioni assai più sfumate e problematiche (fondate sull’assunto «etsi deus non daretur»).
Max Weber, il maggiore studioso del razionalismo occidentale, ha sostenuto che esso consiste nell’insieme dei processi di razionalizzazione e scientificizzazione che culminano nella «intellettualizzazione» del mondo. Il risultato è «il disincantamento» del mondo e della natura, che da cosmo dotato di senso oggettivo diventa un insieme di regolarità determinate dalla scienza. Un mondo disincantato o secolarizzato non è necessariamente un mondo senza Dio, ma dove Dio ha perso ogni ruolo cosmologico. Questa è la sfida alla razionalità religiosa.
Weber intendeva dimostrare che i processi di razionalizzazione e secolarizzazione hanno avuto luogo storicamente «soltanto in Occidente» anche sulla base delle sue radici cristiane. In particolare, sotto la spinta dell’ascetismo intramondano promosso nella prima modernità dal protestantesimo. Il razionalismo moderno dunque non è il prodotto esclusivo della scienza e/o dell’illuminismo ma di una dinamica più profonda dalle remote matrici religiose.
Non ci interessa qui verificare fino a che punto le tesi weberiane siano convincenti o esaurienti dal punto di vista storico. Il nesso tra lo sviluppo eccezionale dell’Occidente e il razionalismo secolarizzante è un fatto storico incontrovertibile. Ma oggi si producono dinamiche differenti. Constatiamo, ad esempio, che i cosiddetti «valori asiatici» sono del tutto congruenti con aspetti non secondari del razionalismo originariamente occidentale. Culture extra-occidentali, con radici religiose diverse da quelle cristiane, stanno lanciando all’Occidente sfide che contengono robuste componenti di razionalismo, nell’uso e nello sviluppo delle tecnologie, ad esempio. È un razionalismo di tipo nuovo più sensibile ai «valori»?
È un equivoco molto più diffuso che la razionalità e il razionalismo, intesi come disciplina mentale e stile di vita, siano espressione di un formalismo metodico, indifferente a quelli che sono chiamati «i valori». Il razionalismo sarebbe sostanzialmente sempre strumentale, cioè incapace di creare e trasmettere valori autentici e senso del vivere privato e collettivo. È un’affermazione inconsistente. Il razionalismo infatti nasce e si muove all’interno di un surplus di valori, in un orizzonte pieno di valori di segno differente. Non a caso in Occidente si è sviluppato e vive tuttora insieme con la libertà di coscienza, di religione e della indagine scientifica, l’autonomia della persona, il pluralismo ideologico, la tolleranza, il civismo - e soprattutto con l’uso pubblico della ragione. Dov’è il vuoto dei valori lamentato dagli islamisti e dai clericali nostrani?
Il razionalismo riconosce la pluralità dei valori, certificandone nel contempo una parziale incommensurabilità e irriducibilità che può essere fonte di contrasti. Le realizzazioni dei valori sono motivo di tensioni e di contraddizioni. Il razionalismo non azzera, ma tiene conto della contraddittorietà della vita reale. E in questa ottica il razionalismo diventa ragionevolezza. La ragionevolezza è l’accettazione del pluralismo delle visioni della vita e delle fedi, il leale confronto di culture-civiltà diverse.
A questo punto possiamo tentare una sintesi del razionalismo occidentale menzionandone tre elementi costitutivi:
1) razionalismo scientifico e/o filosofico in senso ampio, inteso come intellettualizzazione e disincantamento del mondo, che comprende la secolarizzazione;
2) razionalismo etico-politico inteso come uso pubblico della ragione, caratterizzato dalla trasparenza delle procedure politico-istituzionali e dal confronto con le altre civiltà, leale e fermo nella reciprocità del riconoscimento;
3) razionalismo come attitudine o abito costantemente autocritico. Quest’ultimo è un tratto peculiare dell’Occidente: nessuna civiltà appare più differenziata e contrastata al suo interno di quella occidentale. Ne discende la sua capacità autocritica che può talvolta spingersi sino all’autodenigrazione. Ma l’autocritica è una forza, non una debolezza. Quando l’Occidente smetterà di autocriticarsi sarà la sua fine.
Se è questo «ciò che resta» del razionalismo occidentale, teniamocelo ben stretto.
«La Stampa» del 26 ottobre 2007
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