Turchi, Curdi, Armeni
Di Christopher Hitchens
Di Christopher Hitchens
Nel secolo appena trascorso, le vittime del genocidio o del tentato genocidio sono state - per la stragrande maggioranza - gli armeni, gli ebrei e i curdi. Durante quest’ottobre, gli avvenimenti e la politica sembrano essersi alleati per attizzare la conflittualità esistente fra i tre popoli. Che cosa possiamo imparare da questo fallimento dell’umanità? Per ricapitolare: al solo suggerimento che la Camera dei rappresentanti americana potrebbe accogliere una risoluzione che riconosce i massacri in Armenia del 1915 come un’azione pianificata di «sterminio razziale» (era questa la definizione dell’ambasciatore americano Henry Morgenthau in un’epoca in cui la parola genocidio non era stata ancora coniata), le autorità turche hanno ribadito la minaccia di invadere le province autonome curde nel Nord dell’Iraq. E molti ebrei americani si sono sentiti lacerati tra la solidarietà verso questo popolo oppresso e martoriato e il loro sostegno agli interessi nazionali di Israele, che mantiene una collaborazione strategica con la Turchia, e in particolar modo con le forze armate turche, fortemente politicizzate. Per illustrare questo quadro sconsolante, si potrebbe cominciare con alcune distinzioni. Nel 1991, nel Nord dell’Iraq, dove aleggiava ancora l’odore del gas nelle cittadine e nei villaggi del Kurdistan colpiti da Saddam, avevo sentito dire da Jalal Talabani, dell’Unione patriottica del Kurdistan, che i curdi dovevano chiedere scusa agli armeni per l’appoggio dato agli Ottomani all’epoca del genocidio. Talabani, che ha spesso ripetuto questa affermazione, è oggi il presidente dell’Iraq. (Considero questa dichiarazione spontanea come prova determinante, dato che i popoli più fieri non sono inclini a offrire scuse per crimini vergognosi che non hanno commesso). Di conseguenza, è ovvio che Talabani si è visto puntare addosso armi e missili turchi, in quanto leader iracheno e curdo. E qui occorre fare un’ulteriore distinzione: molti di noi, pur sostenendo con convinzione i diritti e le aspirazioni dei curdi, nutrono seri dubbi sul cosiddetto Partito dei lavoratori del Kurdistan, ovvero il Pkk. Si tratta di un’organizzazione stalinista, simile a Sendero Luminoso. Il tentativo messo in atto da questa fazione ribelle per sfruttare la nuova zona di libertà rappresentata dal Kurdistan iracheno è parecchio irresponsabile e si presta direttamente al gioco di quegli elementi dell’esercito turco che sono pronti a riportare in vita il nazionalismo kemalista contro il governo del primo ministro Recep Tayyip Erdogan, giudicato troppo morbido nei confronti delle richieste avanzate dai curdi. E qui rileviamo un paradosso, in quanto i satrapi in uniforme che pretendono di difendere il secolarismo turco sono spesso più reazionari del Partito per la giustizia e lo sviluppo, di ispirazione islamista. I generali hanno posto il veto a un incontro all’inizio di quest’anno tra Abdullah Gül - oggi presidente della Turchia ma allora ministro degli Esteri - e il governo regionale curdo in Iraq. Basta questo a dimostrare che vogliono sfruttare la questione dei confini e del Pkk come argomento divisorio di politica interna. La situazione è assai complessa, ma il Congresso e il suo ramo esecutivo l’hanno trattata con spaventosa disinvoltura. La risoluzione armena è una vecchia storia. Ricordo ancora quando venne sollevata dal senatore Bob Dole e bloccata dall’allora presidente Bill Clinton. Peccato non averla affrontata con fermezza anni fa. Oggi il Congresso e la Casa Bianca, intimoriti persino davanti alla parola curdo, fanno di tutto per non attentare all’orgoglio nazionale turco. E di conseguenza, per farla breve, sono proprio gli Stati Uniti e i loro alleati a ricevere le pressioni di Ankara, anziché il contrario. E questa è una situazione francamente indegna. Nel 2003 le autorità turche, che avevano sfruttato per decenni il sostegno americano e della Nato, hanno rifiutato alle basi americane in Turchia il permesso di entrare in azione su un «fronte del Nord» nell’invasione dell’Iraq, a meno che non fosse consentito alle loro forze armate di seguire gli americani fin nel Kurdistan iracheno. L’amministrazione Bush giustamente si rifiutò di accettare questo baratto. Il danno provocato dall’orgoglio ferito della Turchia si rivelò enorme: nessuno ne parla, ma se la coalizione avesse attaccato Bagdad da due direzioni, molte aree sunnite avrebbero compreso sin dal primo momento che il cambiamento di regime era ormai irreversibile. La presenza dei ribelli del Pkk in quei giorni non rappresentava una questione prioritaria, anche se la Turchia puntava semplicemente a prevenire l’instaurarsi di qualsiasi forma di autonomia nel Kurdistan iracheno che avesse potuto rappresentare un incitamento o un appoggio alla minoranza curda presente sul suo territorio. Occorre pertanto mettere in chiaro alcune cose. L’Unione Europea, alla quale la Turchia vorrebbe aderire con l’appoggio entusiastico degli americani, insiste affinché vengano riconosciuti i diritti linguistici e politici dei curdi all’interno della Turchia. E’il minimo che si possa chiedere. Se i turchi preferiscono invece continuare a diffondere menzogne ufficiali su quello che accadde agli armeni, non possiamo accontentarli facendo lo stesso, e certamente dovremmo respingere e condannare ogni minaccia contro l’America e i suoi alleati che la Turchia potrebbe sollevare qualora il Congresso si decida ad affermare la verità. Resta ancora aperta la questione di Cipro, dove la Turchia mantiene una forza di occupazione che è stata a più riprese condannata da un’infinità di risoluzioni dell’Onu sin dal 1974. Non dobbiamo acconsentire che la nostra condotta venga condizionata dall’arroganza turca. Faremo anzi un favore alla democratizzazione e modernizzazione di quel Paese se sapremo insistere che vengano ritirate le truppe da Cipro e dai confini dell’Iraq, che la Turchia affronti una volta per tutte la verità storica sull’Armenia, e che la smetta di comportarsi come se il potere fosse ancora nelle mani dell’Impero Ottomano.
«Corriere della sera» del 31 ottobre 2007
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