di Lorenzo Fazzini
Se non si rischiasse di passare per irriverenti, sarebbe ora di gridare – evangelicamente – sui tetti che il modello di netta separazione tra Stato e religioni deve essere superato da una 'benedetta ingerenza'. Il perché è presto detto: vi è chi autorevolmente sostiene che non sono le tradizioni religiose a «minacciare gli Stati (almeno in Occidente), perché sono proprio questi ultimi a manifestare gravi segnali di debolezza e di impotenza quando devono regolare i segni di violenza che non cessano di minacciare le nostre società, come le ingiustizie, le esclusioni, la crisi del sistema educativo, il saccheggio dell’ambiente». Detto con una metafora, devono esserci più ingredienti religiosi nel menù della politica contemporanea, se questa vuole districarsi nei meandri dell’attuale condizione attuale. E in tutto ciò il cristianesimo rappresenta un’anomalia feconda e un 'messaggio rivoluzionario' valido anche per il XXI secolo, perché lungi dall’esaurirsi nella distinzione tra le cose di Dio e gli affari di Cesare, esso offre un orizzonte di 'alterità' – riassumibile nel concetto dinamico di 'regno di Dio' – che libera la politica dalla ristrettezza dei propri riferimenti. A argomentare tale tesi è un pensatore di razza, Paul Valadier, gesuita francese, direttore degli Archives de philosophie, docente di Filosofia politica al prestigioso Centre Sèvres di Parigi. Valadier ha condensato queste riflessioni nel libro Détresse du politique, force du religieux ('Debolezza del politico, forza del religioso'), pubblicato di recente da Seuil (pagine 298, euro 22,00). Si tratta di un vigoroso saggio in cui la tematica del rapporto tra sfera politica e dimensione religiosa viene tratteggiata in quella modalità innovativa ormai assodata negli Stati Uniti, ma che nel Vecchio Continente fatica ancora ad affermarsi. È singolare che la proposta di Valadier provenga dalla Francia, la République patria di una laicità spesso scivolata nel laicismo.
Già, perché annota il nostro, il rischio attuale non è l’ingerenza delle fedi nella res publica, quanto – la storia del Novecento lo dimostra con ampiezza di testimonianze – il predominio tirannico ieri, oggi relativista, della politica: «Al contrario del XVI secolo, la fonte della violenza nel XX secolo è venuta da parte degli Stati, tra i quali alcuni, mossi dall’ideologia, erano dominati da una forma di oppressione totalitaria molto peggiore di quella che le religioni hanno mai introdotto nella storia». Ma è all’oggi che Valadier – attraverso un excursus filosofico che partendo da Platone e Agostino, e passando per Machiavelli e Locke, approda ad Habermas – volge l’attenzione. Appunto per 'difendere' la politica dalla propria assolutizzazione, che scadrebbe in una democrazia puramente procedurale, il gesuita invoca il ritorno in campo di quella 'saggezza religiosa' che può diventare prezioso pungolo verso una dimensione pienamente umanistica della politica. Un esempio? Ecco «l’universalismo cristiano», il quale per Valadier è apportatore di «un’unità essenziale del genere umano che proviene da un legame religioso fondamentale, propri quando si stanno imponendo tutta una serie di differenze (razziali, etniche, sessuali, politiche, culturali…)». Con un riferimento trascendente – a questo aspetto è dedicata l’ultima sezione del libro, inesauribile 'miniera' di interessanti spunti intellettuali – la politica può vincere la tentazione del relativismo culturale. Per rifarsi all’esempio precedente, l’universalismo cristiano «obbliga a considerare l’umanità come un corpo solidale con la creazione. Le conseguenze politiche ed etiche sono ben chiare se si oppone questa visione all’universalismo livellatore che, dimenticando tutte le diversità, non vede per nulla le differenze tra l’umanità e le altre speciale animali o la natura». Valadier snocciola ulteriori dimensioni sociali in cui questo nuovo legame tra religioni e politica deve esplicarsi.
Affronta il tema dell’educazione, che deve liberarsi da quella visione statalista (e un po’ 'totalitaria') in cui l’aveva relegata la laicité alla francese, secondo il modello dell’ex presidente transalpino Jacques Chirac, secondo il quale «l’educazione è il santuario della Repubblica»: «Il legame tra scuola e Repubblica ha bloccato la scuola su se stessa e l’ha tagliata fuori rispetto alla società civile», denuncia Valadier. Ma è soprattutto nel rapporto con i sistemi democratici che le tradizioni religiose hanno ancora – argomenta l’intellettuale parigino – un incarico significativo: «Il ruolo delle religioni è di mantenere aperta la trascendenza. Il cristianesimo, rivolgendosi alla libertà che esso costruisce, la stimola e la provoca ponendo in primo piano la legge della carità e l’invito al rispetto dell’uomo nella sua interezza, in modo particolare il più povero».
Già, perché annota il nostro, il rischio attuale non è l’ingerenza delle fedi nella res publica, quanto – la storia del Novecento lo dimostra con ampiezza di testimonianze – il predominio tirannico ieri, oggi relativista, della politica: «Al contrario del XVI secolo, la fonte della violenza nel XX secolo è venuta da parte degli Stati, tra i quali alcuni, mossi dall’ideologia, erano dominati da una forma di oppressione totalitaria molto peggiore di quella che le religioni hanno mai introdotto nella storia». Ma è all’oggi che Valadier – attraverso un excursus filosofico che partendo da Platone e Agostino, e passando per Machiavelli e Locke, approda ad Habermas – volge l’attenzione. Appunto per 'difendere' la politica dalla propria assolutizzazione, che scadrebbe in una democrazia puramente procedurale, il gesuita invoca il ritorno in campo di quella 'saggezza religiosa' che può diventare prezioso pungolo verso una dimensione pienamente umanistica della politica. Un esempio? Ecco «l’universalismo cristiano», il quale per Valadier è apportatore di «un’unità essenziale del genere umano che proviene da un legame religioso fondamentale, propri quando si stanno imponendo tutta una serie di differenze (razziali, etniche, sessuali, politiche, culturali…)». Con un riferimento trascendente – a questo aspetto è dedicata l’ultima sezione del libro, inesauribile 'miniera' di interessanti spunti intellettuali – la politica può vincere la tentazione del relativismo culturale. Per rifarsi all’esempio precedente, l’universalismo cristiano «obbliga a considerare l’umanità come un corpo solidale con la creazione. Le conseguenze politiche ed etiche sono ben chiare se si oppone questa visione all’universalismo livellatore che, dimenticando tutte le diversità, non vede per nulla le differenze tra l’umanità e le altre speciale animali o la natura». Valadier snocciola ulteriori dimensioni sociali in cui questo nuovo legame tra religioni e politica deve esplicarsi.
Affronta il tema dell’educazione, che deve liberarsi da quella visione statalista (e un po’ 'totalitaria') in cui l’aveva relegata la laicité alla francese, secondo il modello dell’ex presidente transalpino Jacques Chirac, secondo il quale «l’educazione è il santuario della Repubblica»: «Il legame tra scuola e Repubblica ha bloccato la scuola su se stessa e l’ha tagliata fuori rispetto alla società civile», denuncia Valadier. Ma è soprattutto nel rapporto con i sistemi democratici che le tradizioni religiose hanno ancora – argomenta l’intellettuale parigino – un incarico significativo: «Il ruolo delle religioni è di mantenere aperta la trascendenza. Il cristianesimo, rivolgendosi alla libertà che esso costruisce, la stimola e la provoca ponendo in primo piano la legge della carità e l’invito al rispetto dell’uomo nella sua interezza, in modo particolare il più povero».
«Avvenire» del 28 novembre 2007
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