Veltroni su Pol Pot e Auschwitz
di Pierluigi Battista
Il Walter Veltroni che paragona gli orrori di Pol Pot ai crimini commessi dal nazismo non è un cultore del passato che si lascia invischiare in una polverosa querelle storiografica. Da neosegretario di un nuovo partito post-ideologico che vuole chiudere i conti con i lutti del Novecento, recide l’ultimo legame emotivo e simbolico con una storia, quella del comunismo, che malgrado fallimenti e atrocità inenarrabili rivendica ancora uno statuto di «superiorità» morale rispetto ad altre, analoghe mostruosità storiche rigettate dalla coscienza civile. Rompe il tabù dell’inconfrontabilità di nazismo e comunismo e si libera dei compromessi di una memoria selettiva, accomodante, autoconsolatoria e perciò autoassolutoria. Veltroni lo ha fatto alla presentazione pubblica di un romanzo, «L’illusione del bene» di Cristina Comencini, che molti ex comunisti (ovvio: comunisti italiani che materialmente non misero in pratica le nefandezze altrove compiute nel nome del comunismo) farebbero bene a leggere, colmo di un pathos ammirevole per le conseguenze di quel crollo del «mondo interiore», del «sistema mentale che va in frantumi» assieme alla catastrofe di un’idea grandiosa e grandiosamente cruenta: «Il male, il bene, la sensazione nostra di essere i migliori, l’idea che esistesse un progetto futuro che avrebbe permesso a milioni di persone di essere uguali». Lo ha fatto, certo con un’astuzia da consumato leader politico, scegliendo di menzionare le abiezioni di un regime, quello di Pol Pot, già condannato nella morale condivisa: l’«autogenocidio» di cui parlava Primo Levi, l’immagine delle piramidi di teschi ritrovate nei killing fields cambogiani, l’annichilimento di un quarto della popolazione, la deportazione e lo sterminio di tutti gli abitanti della città bollati come esseri impuri e contaminati dal morbo borghese, gli sciami indottrinati di bambini delatori e carnefici delle loro famiglie. Ma lo ha fatto, sfidando un’interdizione, un veto politico e culturale ancora funzionante a vent’anni dallo sfaldamento comunista, e malgrado le intimazioni al silenzio di chi continua ad anatemizzare il paragone tra nazismo e comunismo come il frutto di una molesta «nevrosi comparativa». Troppo facile prendersela con Pol Pot? I puristi incontentabili avrebbero forse preferito un accenno alle dimensioni apocalittiche del massacro maoista della «rivoluzione culturale» o una citazione più esplicita del Gulag sovietico, la cui tragedia echeggia nelle pagine di «L’Urss di Lenin e Stalin», il nuovo libro di uno storico non lontano dall’itinerario politico di Veltroni, Andrea Graziosi, che non occulta le profonde «affinità» tra i due dioscuri «grandi e feroci» del totalitarismo comunista. Ma resta la sostanza di una prima volta, il coraggio di un’equiparazione morale che è ancora sottoposta ai rigori di un divieto perentorio. La menzione di Pol Pot rappresenta piuttosto la strada obbligata per imporre un tema che ancora nessun dirigente cresciuto alla scuola del Pci aveva osato affrontare con tanta radicalità di giudizio. Come se la liquidazione definitiva dell’ultimo tabù, attuata con la necessaria sapienza retorica nella scelta delle citazioni e dei riferimenti storici, fosse il segno di un congedo doloroso ma irrevocabile con il passato e la condizione di un «nuovo inizio» che abbia, finalmente, il sapore della sincerità e dell’autenticità.
«Corriere della sera» del 31 ottobre 2007
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