Confronto tra lo scrittore e lo storico della lingua Gian Luigi Beccaria
di Claudio Magris
di Claudio Magris
«L’occhio coglie 999 sfumature di colore. Ma non esistono vocaboli per esprimerle»
In Val Leventina, nel Ticino - racconta Gian Luigi Beccaria nel suo ultimo libro Tra le pieghe delle parole (Einaudi) - la mucca sterile si chiama böira, quella che partorisce a due anni muiata o carena, quella di poco valore marnegia e quella brutta manigia, quella dalle gambe corte quateda, seleda quella dalla schiena concava e tireda quella con la schiena diritta, mülegna quella dal posteriore spiovente; l’elenco continua, in un epico tentativo della lingua di dare nome a tutte le cose e a tutti i loro aspetti diversi. Un inseguimento grandioso della realtà, gloriosamente sconfitto dall’innumerevole e mutevole molteplicità del mondo. In un’altra pagina del suo libro, Beccaria analizza varie parole che, in lingue e culture differenti, suddividono lo spettro dei colori, per raggrupparne poi in modi differenti i vari segmenti così ritagliati, ma nessuna lingua può coprire i 999 colori che l’occhio umano, secondo l’Atlante Cromatico Dumont, riesce a distinguere l’uno dall’altro e la classificazione è costretta a ricorrere a triplette di numeri. Nella Lettera di Lord Chandos, il racconto con il quale Hofmannsthal nel 1901 apre la letteratura del Novecento denunciando l’insufficienza della parola rispetto alla vita, balena l’impossibile nostalgia di una lingua che abbia una parola diversa per ogni cosa in ogni suo istante che la rende diversa; non solo per ogni foglia, ma per ogni foglia nella luce del sole, nel buio della notte e così via. Tra le pieghe delle parole si aggiunge ai libri che hanno fatto di Gian Luigi Beccaria, nel corso degli anni, uno storico della lingua, un critico letterario e un saggista di grande statura e di affascinante scrittura, di asciutto rigore e creativa fantasia. A parte gli studi più schiettamente scientifici - da Ritmo e melodia nella prosa italiana ai testi di storia della lingua e ai lessici - ha scritto dei saggi che hanno arricchito sostanzialmente la comprensione della poesia contemporanea e dell’inquieto mondo che la sottende, come L’autonomia del significante, un vero capolavoro. All’analisi filologica ha saputo unire una vena di umorismo, che coglie aspetti della buffa commedia umana attraverso le parole e la loro spesso comica deformazione, e ha analizzato l’epica del canto popolare che immerge l’alta cultura del passato nel povero e immaginoso fluire quotidiano. Allievo di Benvenuto Terracini ma anche di Giovanni Getto, Beccaria si è formato in quell’Università di Torino degli anni Cinquanta e Sessanta che è stata un cuore intellettuale e vitale dell’Italia di allora e in cui ci siamo trovati e siamo cresciuti insieme: un pugno di allievi di Getto, anche se laureati con altri maestri, rimasti legati per sempre in un reciproco arricchimento culturale ma soprattutto esistenziale e fraterno, che continua negli anni anche con chi è già arrivato alla fine del suo viaggio, e rende talvolta difficilmente - e inutilmente - separabili le idee, le intuizioni dell’uno o dell’altro. Lo incontro a Niella Tanaro, nelle sue Langhe, dove molti anni fa mi sono trovato nella giuria del premio «La Langa canta» e ho contribuito a far vincere l’incantevole canzone popolare La rondinella. «In questo libro - gli dico - tu leggi le parole come romanzi; esse infatti dicono sentimenti, gerarchie sociali, pregiudizi, passioni, usi, valori. Ogni parola diversa, di lingue e dialetti sparsi in tutto il mondo, dice una sfumatura diversa dell’universale-umano, una particolarità del cuore, dei sensi e della mente, che è di tutti ma esiste solo in quella parola e perisce con lei. Il tuo libro si concentra, pur senza alcuna nostalgia conservatrice, soprattutto sullo sparire, sulla morte delle parole e dell’umano che vive in esse: le cinquemila lingue oggi esistenti, di cui entro la fine del secolo morirà la metà o il 90 per cento; l’ultima donna parlante l’eyak, linguaggio dell’Alaska, scomparsa nel 2001, mestieri e cibi cancellati insieme ai loro nomi. Tuttavia nascono di continuo nuove parole e dunque nuove modalità dell’umano, slang, termini legati alle nuove tecnologie e così via. Forse la morte di qualcosa tocca più della nascita di qualcosa d’altro e i nonni affascinano più dei nipoti? Oppure è la lingua in sé, con la sua articolazione del tempo, ad avere a che fare con la morte, come per il vice-vicebibliotecario di Moby Dick, che amava le grammatiche perché gli ricordavano la sua natura mortale?». Beccaria: In ogni cosa del mondo, così nelle lingue, morte e vita sono strettamente intrecciate, come del resto hai mostrato nei tuoi libri: penso in particolare a Microcosmi e al tuo viaggio in laguna, dove dai voce alla eterna storia della continuità e della trasmutazione delle cose, alle fusioni e alle dissoluzioni nel limo della storia, che tutto fa e disfà. Nelle lingue trisavoli e nipoti convivono. Le parole del presente contengono il fondo della loro radice, sono la presenza verbale del passato. Tutte poggiano su delle rovine storiche, il passato non si cancella, sopravvive anche là dove non ne riconosciamo più la presenza. Nelle pieghe delle parole moderne si annida sempre qualcosa di lontano. Le lingue muoiono, ed insieme sono una testimonianza del durare. Le tracce della storia si nascondono dietro ad ogni parola comune. Tu stesso hai raccontato in Danubio come dietro alla nascita di una parola nuova, il croissant, il Kipfel si celi l’assedio fallito dei turchi a Vienna (1683), festeggiato con la creazione di un dolce simbolo della mezzaluna sconfitta. Magris: In uno dei tuoi libri più belli, hai dimostrato che, almeno in poesia, il significante - la musica, la seduzione fonica, l’assonanza di una parola - prevale sul significato, anzi lo evoca e lo crea. Se Leopardi avesse scritto «negli occhi tuoi fuggitivi e ridenti», anziché «ridenti e fuggitivi», quello sguardo di Silvia e la sua poesia, è stato detto, sarebbero diversi. In questo libro invece prevale il significato: sono gli eventi, i costumi, i ricordi collettivi che si depositano in una parola e la formano. A toccare la fantasia è più il lupo che si aggira nel bosco o sono i suoi differenti nomi nelle differenti lingue, che lo fanno più feroce o più mansueto? Beccaria: I nomi del lupo, o dell’orso, e di tutti gli animali pericolosi, fanno paura come gli animali in carne e ossa. Tant’è vero che l’uomo crea perifrasi eufemistiche, o vezzeggiativi. In irlandese, o nel gaelico scozzese, l’orso si chiama «il buono», in russo «il mangiatore di miele», in inglese e tedesco «il bruno», e il nome originario della donnola, terrore dei pollai per secoli, è stato mutato nelle lingue romanze in «giovane» o «bella donna» (italiano: donnola; francese: belette ecc.). La parola agisce di per sé, ha un autonomo potere, e l’uomo cerca di esaltarlo o di neutralizzarlo, a seconda dei casi e delle convenienze. Magris: Tu parli anche di linguaggio e intolleranza, delle parole aggressive verso l’altro e il diverso. La lingua è la frontiera che rinserra una comunità, muro che esclude gli altri, oppure un fiume che accoglie e integra gli altri corsi d’acqua incontrati nel cammino? Beccaria: La lingua è come un fiume che muta e scorre, a tratti si allarga in laghi fermi, o si attarda in paludi. Il suo flusso poco si avverte, noi ci siamo dentro, cogliamo le alterazioni meglio dopo secoli, esaminando stratificazioni storiche e arricchimenti decisivi provenienti da altre lingue e culture. La storia dell’uomo segna però ricorrenti ostilità verso gli apporti esterni. In un capitolo del mio libro passo in rassegna le tante calunnie etniche, i molti significati spregiativi e distorti, la lunga serie delle «parole contro»: contro chi professa un’altra religione, ha costumi differenti, parla un’altra lingua, ha un colore diverso della pelle. Eppure, l’apertura, la mistura è regolarmente un segno di forza, non di cedimento. Come già Machiavelli scriveva nel suo Discorso, le lingue conviene «che sieno miste» con le altre, che il fiume si integri con gli altri corsi d’acqua. «Non si può trovare una lingua che parli ogni cosa per sé senza aver accattato da altri», continuava il Nostro. Il purismo è chiusura, segno di morte non di vita.
Niccolò Machiavelli è uno degli autori citati da Gian Luigi Beccaria nel suo nuovo libro «Tra le pieghe delle parole. Lingua storia cultura» (Einaudi, pagine 230, 19,50) Beccaria insegna Storia della lingua italiana all’Università di Torino. Tra le sue opere: «I nomi del mondo» e «L’autonomia del significante», editi da Einaudi
«Corriere della sera» deò 26 ottobre 2007
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