di Giorgio De Simone
Se è vero, come credo, che tornare ogni tanto a Socrate non può che far bene, la sollecitazione a farlo viene oggi da un libro, «Vita tragicomica di Socrate» (Salani, pagine 160, euro 10) di Pietro Emanuele, ordinario di filosofia all’università di Messina. Opera tra il serio e il faceto, vi si ribadisce che, a partire dal suo contemporaneo Aristofane, di Socrate si può dire tutto: che fu un predicatore cervellotico, un furbacchione, un ficcanaso, probabilmente anche un filosofo nonché l’amico, in ogni senso, di Alcibiade e non solo. Così Emanuele del grande ateniese disegna meglio il rovescio che il dritto tanto da farci domandare: ma allora fu vera gloria? Prendiamo il processo. Siamo nel 399, Socrate ha settant’anni e si ritrova inopinatamente portato davanti ai giudici da un imprenditore di pelli, Anito, un retore, Licone, e un poeta fallito, Meleto. Formalizzata da quest’ultimo, l’accusa ha due capi d’imputazione: empietà e corruzione di giovani. Due 'addebiti' che, combinati, possono portare alla condanna a morte. Naturalmente se l’imputato rinuncia, di fatto, a difendersi. Che è quanto fece Socrate esaltando la propria 'missione', rifiutando il sostegno di un retore del peso e del valore di Lisia, non dichiarandosi pentito di nulla. Quando gli fu chiesto che pena ritenesse adeguata per le proprie colpe rispose di voler essere mantenuto dalla collettività per il resto dei suoi giorni al Pritaneo. Per orgoglio e ambizione, secondo quello che ne pensava Indro Montanelli, Socrate decise un comportamento che gli avrebbe dato gloria imperitura e non prese in considerazione nessuna delle alternative che lo potevano salvare. In ogni caso per noi stupefacente resta l’accusa di empietà. Un uomo le cui ultime parole furono «Ricordatevi che dobbiamo un gallo ad Asclepio», un uomo che sull’anima aveva passato la vita a interrogare se stesso e i discepoli, un uomo che non negava l’aldilà e aveva elevato il proprio 'dàimon', sorta di nostro angelo custode, a sua guida spirituale, quest’uomo fu accusato di negare l’esistenza degli dèi (e dunque di contestare la natura sacra delle leggi). Religione e cittadinanza erano allora ritenute un 'unicum' e l’ateismo era ufficialmente condannato, sicché visto qui e ora, in un’Europa che di divinità non vuole sentir parlare e dove la laicità è il valore più grande, un verdetto di condanna per empietà fa impressione. Siamo abituati a decantare quella ateniese come la più grande democrazia del mondo antico e ci sembra impossibile che chi, in quello straordinario contesto, veniva accusato a torto o a ragione di non credere negli dèi potesse finir male. Ce lo vediamo oggi in un qualsiasi angolo del nostro continente (nei paesi islamici è, ovviamente, tutt’altro discorso) qualcuno incriminato perché non crede in Dio o perché insegna o predica sui giornali che Dio non esiste? A noi è difficile dire quanto una persona razionale potesse, nella Grecia antica, credere negli dèi. Ma ci viene facile affermare che per gli intellettuali e i puri pensatori di oggi refrattari a ogni idea di divino, credere in Gesù Cristo sia molto più difficile di quanto non fosse per i loro omologhi dell’antica Grecia confidare in Zeus e nel suo fantasmagorico Pantheon.
Avvenire del 27 novembre 2007
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