Un saggio di Cesare De Marchi riflette sul futuro del romanzo. E avanza un criterio di giudizio
di Paolo Di Stefano
«Le opere che resistono al tempo sono quelle in cui lo scrittore si è impegnato sulla lingua»
È raro che un autore di romanzi completamente fuori tendenza, abbia anche voglia di esporre un’idea di narrativa che fa a pugni con gran parte della produzione corrente. Una provocazione? Forse. Sicuramente il desiderio di aprire una discussione sul senso (dimenticato) della letteratura. Il protagonista di questa sfida è Cesare De Marchi, 58 anni, genovese vissuto a lungo a Milano, che oggi abita a Stoccarda, dove dirige la Dante Alighieri, traduce, insegna, scrive. Nel ‘98 ha vinto il premio Campiello con Il talento e l’anno scorso è uscito con un grandioso romanzo storico, La furia del mondo, dal sapore mitteleuropeo non solo per le atmosfere ma anche per lo stile. Il suo saggio Romanzi (sottotitolo: Leggerli, scriverli), edito da Feltrinelli non ha nessuna ambizione di competere con i numerosi studi di narratologia. Non usa terminologie scientifiche, non intende rivolgersi agli accademici ma ai lettori comuni e agli scrittori che hanno voglia di interrogarsi sull’arte del romanzo. Tono conversativo e affabile, nessun intento prescrittivo ma principi saldi. Il primo è solo apparentemente ovvio: un romanzo è fatto esclusivamente di parole, anzi è un movimento di parole sia per lo scrittore sia per il lettore. La questione è il rapporto che queste parole hanno con il mondo. Risponde De Marchi: «Certo, non si può scrivere senza o contro la realtà, il romanzo non è fine a se stesso. Ma la realtà non va imitata o riprodotta, la realtà in un romanzo viene semmai rappresentata: cioè il testo narrativo è il risultato della trasposizione di un’esperienza soggettiva nel linguaggio». Sostenere che la lingua è la materia prima di un romanzo è solo in apparenza una tesi banale, in un tempo in cui viene rivendicata la necessità di un rapporto intimo tra letteratura e realtà (vedi, per esempio, le recenti dichiarazioni di Roberto Saviano). E forse si potrebbe liquidare con questa «banalità» anche la discussione ultima sull’impegno: se la materia prima per lo scrittore è la parola, il suo impegno maggiore si deve concentrare su di essa. Il resto conta poco. C’è una polemica sotterranea che percorre tutto il libro di De Marchi e la si avverte sin dalle prime pagine, quando si passa a parlare della crescente prevalenza della trama nella narrativa italiana: «Bisogna vedere - scrive - se la tensione debba derivare tutta dalla trama». Secondo De Marchi, da una parte il postmoderno dall’altra soprattutto l’industria culturale impongono il recupero dell’intreccio per tenere il lettore in un «perenne stato di eccitazione emotiva»: «Con il procedere dell’arte del romanzo - dice - la trama avrebbe dovuto perdere importanza: la neoavanguardia italiana, per esempio, mostrava di disprezzarla. Invece oggi accade il contrario: i narratori più giovani non nascondono i loro debiti verso il cinema, e in effetti i loro testi procedono per brevi sequenze e dissolvenze come di macchine da presa». Gli autori citati a questo proposito sono Sandro Veronesi e Niccolò Ammaniti. «Un romanzo come Io non ho paura ti prende, indubbiamente, ma non hai voglia di rileggerlo: sono libri che impongono di essere divorati senza soffermarsi sui dettagli in cui dovrebbe consistere la vera arte narrativa». È il trionfo dell’intreccio sul tessuto linguistico e sullo scavo psicologico. «Non essendoci più le grandi trame ottocentesche costruite su fatti irripetibili e straordinari, si producono trame inconsuete che non esorbitano dalla quotidianità. Da qui nasce il predominio del giallo, che è il modo più semplice per costruire un intreccio: cioè un filo degli eventi esterno al movimento verbale in sé, un filo narrativo che non richiede rappresentazioni veramente drammatiche né personaggi a tutto tondo». La voglia di rileggere, si diceva. Può essere un criterio di valore? «Certo. Sto rileggendo Herzog di Bellow: alla seconda lettura, i grandi libri rivelano nuove sfumature espressive e stilistiche, e perfezionano i caratteri dei personaggi. Può capitare addirittura che una seconda lettura ti faccia amare un romanzo che alla prima lettura non ti aveva appassionato: a me è capitato con Senilità». E le delusioni? «Ci sono romanzi che non reggono a una seconda lettura: rileggendo La peste di Camus sono rimasto molto deluso. Mi è parso un romanzo con una tesi troppo scoperta e dichiarata. Forse ha ragione la Sontag quando dice che Camus era più grande come uomo che come scrittore». Un altro libro che non tiene alla rilettura? «Ho provato recentemente con Il Mulino del Po: mi sono limitato a una ventina di pagine: non è il Guerra e pace italiano...». Altro «surrogato della profondità prospettica» del romanzo è quello strutturale: «Trame semplici vengono trasformate in trame complesse, smontandole e riarticolandole. Ci sono testi che insistono nel gioco delle inversioni temporali: per rendere più emozionante la trama si ricorre a questi artifici di scompaginamento che sostituiscono il vecchio racconto di fatti straordinari. Ci si trova di fronte a personaggi sempre nuovi di cui il lettore deve indovinare il legame con la vicenda principale». La frammentazione temporale è, secondo De Marchi, un «difetto» di romanzi anche notevoli come Underworld di Don De Lillo o come La macchia umana di Philip Roth, per non dire di lunghe narrazioni italiane come Q. di Luther Blisset: «I personaggi tendono a non esser più che pedine di un intricato gioco di scacchi, la frammentarietà ne ostacola il definirsi o lo consente solo a tratti». I personaggi possono venir meno anche per motivi stilistici: «Rileggendo Sciascia - nota De Marchi - mi sono accorto di quanto sia letterario in senso negativo, a tratti aulico. Indubbiamente sa raccontare ed emozionare, ma è inverosimile, i suoi personaggi parlano come libri stampati, non sono caratterizzati. Leggendo L’idiota di Dostoevskij, ti rendi conto come da ogni riga venga fuori un personaggio nella sua individualità...». Si parla al lettore: che cosa vede quando legge una descrizione? Che cosa vede quando un personaggio pensa? C’è una visibilità esterna e una visibilità interiore. Che cosa comporta l’immedesimazione? Il romanzo è un sogno a occhi aperti? La lettura come pretesto per fantasticare è una lettura autentica o un equivoco? Si parla di tempo narrativo e si scopre che Il Gattopardo non ha movimento: «È un insieme di quadri più che un divenire di vicende, è un centone di episodi anche grandiosi e indimenticabili, ma il racconto procede a sprazzi senza continuità, non si distende mai in un flusso unico e largo. Tomasi di Lampedusa si serve in prevalenza della drammatizzazione, è sempre in presa diretta». Il saggio di De Marchi contiene una mole enorme di letture e di esempi. In positivo e in negativo. Il catalogo dei citati è lungo: Goethe, Stendhal, Dostoevskij, Hugo, Tolstoj, Flaubert, Proust, George Eliot, Fontane, Mann, Pasternak, Beckett, Cortázar, Joyce, Bellow. Ma anche Ariosto, Manzoni, Verga, Svevo, Gadda. Colpisce il piglio deciso con cui viene smontata la «leggerezza» rivendicata da Italo Calvino nelle sue Lezioni americane: «Quel che gli rimprovero è la normatività, e cioè il desiderio di innalzare la sua poetica a estetica». De Marchi ricorda un Calvino del 1960 contro il «mare dell’oggettività» dentro cui rischiavano di annegare le nuove avanguardie. E una pagina di due anni dopo in cui si contrapponeva «sfida al labirinto» e «resa al labirinto» tipica dell’avanguardia. «Era un modo per affermare un impegno civile e politico, la necessità che la letteratura non si arrenda al corso del mondo. Poi però Calvino sarebbe andato in una direzione contraria». Nelle sue Lezioni opporrà come «due vocazioni opposte» la leggerezza di un sonetto di Cavalcanti alla pesantezza di un verso dantesco. «Non sono d’accordo, - incalza De Marchi - la pesantezza di Dante in questo caso è rapporto stretto con la realtà, profondità prospettica, impegno e contenuto umano. Calvino rischia di identificare la leggerezza con il puro gioco verbale: rispetto al discorso che faceva più di vent’anni prima contro la resa al labirinto e il mare dell’oggettività cade in evidente contraddizione».
Cesare De Marchi è nato a Genova nel 1949. Vive in Germania Tra i suoi libri: «Il bacio della maestra», «La malattia del commissario» (Sellerio); «Il talento», «La furia del mondo» (Feltrinelli) Il saggio «Romanzi. Leggerli, scriverli», è edito da Feltrinelli (pagine 169, euro 15)
«Corriere della sera» del 31 ottobre 2007
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