In «Mal di scuola» le voci, la rabbia, e le speranze degli insegnanti
di Sergio Rizzo
di Sergio Rizzo
«A metà febbraio il preside Ugo Castorina fa sequestrare undici cellulari ad altrettanti studenti di una terza classe e appena rientrato in ufficio scrive una circolare per proibirli durante le ore di lezione. All’uscita i genitori dei ragazzi marciano inferociti per riprendersi i telefonini dei figli. La macchina del preside viene bloccata e circondata, volano insulti e manate. Un assedio, con i carabinieri che si devono mettere fisicamente in mezzo per evitare il linciaggio». Il preside si salva, ma ancora non può immaginare quello che succederà dopo qualche giorno. «Il 3 marzo, è un sabato, quando suona la campanella insieme agli scolari entrano anche il padre e il nonno di un ragazzo di seconda. Vogliono ritirare una pagellina, che sanno già non essere delle migliori. Castorina dice loro di aspettare nella sala d’attesa. Il nonno replica in modo poco conciliante: "Vieni fuori che ti dobbiamo ammazzare". Il padre non apre bocca, parte con una testata, pure il nonno si dedica con zelo alla missione. Intervengono professori e bidelli, una insegnante si prende un pugno in faccia, Castorina finisce invece al pronto soccorso...». Succede anche questo, nelle scuole italiane. E non succede soltanto a Bari, nel quartiere San Paolo, dove passa la frontiera fra civiltà e degrado. Perché «un San Paolo esiste in quasi ogni città». La storia di Castorina è raccontata insieme ad altre undici in un libro che esce oggi in libreria. Si intitola, semplicemente: «Mal di scuola». L’ha scritto per la Rizzoli Marco Imarisio, inviato del Corriere, che ha raccolto in tutta Italia le testimonianze del disagio. Il male profondo, sempre più radicato, ha trasformato la scuola italiana, essa stessa, nel territorio di frontiera. Perché se «un San Paolo esiste in quasi ogni città», non è detto che il disagio sia sempre frutto del degrado. Per esempio a Cagliari, scrive Imarisio, «la risposta va cercata sotto gli ombrelloni del Lido, lo stabilimento più esclusivo del Poetto, la spiaggia che per quattro mesi diventa l’agorà di Cagliari». Dove «tra un bagno di sole e uno in acqua i genitori degli aspiranti liceali o maturandi si informano su parole, opere e omissioni dei professori. Se bocciano, se sono severi, quali sono i buoni e quali i difficili». Testimonianza di Valeria Meili, professoressa di Lettere al Giovanni Maria Dettori, il liceo classico che a Cagliari è considerato più che un’istituzione: «E una volta che i figli sono dentro, si comportano di conseguenza. Ci sono alcuni genitori che riducono la partecipazione alla vita scolastica a una mera ingerenza. Al non voler accettare che i figli possano subire delle sconfitte». Non sono casi isolati, anzi. «Valeria dice che è lecito preoccuparsi perché questa tipologia di genitori è in continuo aumento». Con conseguenze che la professoressa di Cagliari giudica devastanti: «Disconoscono quella poca autorità che ci resta. Ci mettono al livello dei loro figli, come fossimo compagni di classe e non insegnanti. Contestano ogni valutazione e trasmettono ai ragazzi la convinzione che non ci sia differenza fra loro e il docente». E allora, conclude Valeria Meili, «perché dovrei fregiarmi del mio titolo di professoressa, che suona a questo punto vuoto e privo di significato, quando per molti genitori non sono che una carta di quel castello che essi costruiscono intorno ai figli, fatto di abiti griffati, cellulari, viaggi giusti e scooter?». Non che fra gli insegnanti manchi qualche mela marcia, come dimostrano altre piccole storie tratte dai verbali degli ispettori chiamati a verificare casi di cattiva gestione didattica che nel libro «Mal di scuola» separano un capitolo dall’altro. In un grande liceo scientifico del Nord il preside aveva imposto questa linea: «Comunque promuovere». Si era così arrivati al risultato storico (quanto assurdo) del cento per cento di ammissioni all’esame di maturità, compreso l’alunno T.D., che a scuola non si era quasi mai fatto vedere. «Più che assente, era da considerarsi latitante», sottolinea Imarisio. Il preside aveva avuto anche il coraggio di presentare trionfalmente alla stampa questo risultato, prova «del livello di assoluta eccellenza raggiunto dal suo istituto». In un altro liceo, questa volta tecnico professionale, gli ispettori avevano invece scoperto una specie di gioco al massacro fra un professore di discipline economico-aziendali e il dirigente scolastico. Un gioco del quale gli unici a fare le spese erano gli studenti, sottoposti a un’autentica doccia scozzese con il voto: prima un diluvio di otto, poi una valanga di due. Ma alla fine, spunta dal nulla Ciro Naturale. Trentadue anni, abita in una strada del quartiere napoletano di Barra dove nemmeno i taxi vogliono entrare. È nato lì, con «vicini di casa che si sedevano in cortile e oliavano i loro kalashnikov davanti a tutti». Aveva contro il mondo intero. All’esame delle medie nemmeno lo volevano interrogare, tanta era la fretta «di levarselo di torno. Lui invece aveva studiato, in geografia aveva preparato l’Argentina per via di Maradona». Così, racconta Imarisio, quando gli dissero «Naturale può andare», Ciro «si mise a urlare, che Naturale non andava da nessuna parte, se volevano che andasse, prima dovevano fargli almeno qualche domanda». Ciro Naturale si è laureato. Adesso fa l’educatore, lavora anche dodici ore al giorno per una manciata di euro al mese sulla base di progetti finanziati dalla Regione. «Una volta un ragazzo disse che sembrava una guardia giurata». Il suo compito è cercare di sottrarre i ragazzi di Barra dal destino dei loro padri. Qualche volta ci riesce, molte altre no. Vive in sedici metri quadrati con la moglie e due figlie, lo pagano quando capita ma lui da Barra non se ne va. «Per capire che la scuola ha davvero bisogno di uno come lui, basterebbe entrare a casa sua. Guardare il frigorifero sul quale c’è un televisore vecchio e scassato che quasi tocca il soffitto. Basterebbe questo per avere un’idea della forza che ci vuole. Fidarsi, di Ciro Naturale». E sono le ultime parole del libro.
«Corriere della sera» del 31 ottobre 2007
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