di Gaspare Barbiellini Amidei
Potrebbe essere questo l’ultimo anno per il doppio pedaggio di fatica e di ritualità stressante imposto agli studenti, uno in uscita (l’esame di Stato, detto di maturità), uno in entrata (i test di accesso, obbligatori in molte facoltà). Sarà eliminata la frustrante sensazione che l’università non si fida della scuola, mettendo fuori dalla porta un cittadino talvolta appena promosso a pieni voti. Delle due l’una: o la maturità è taroccata o l’università rischia di apparire arrogante. Adesso è nell’aria la decisione di integrare i due momenti di valutazione. Nel rispetto delle autonomie, anzi sfruttandone l’agilità di manovra, il governo sta definendo una cornice normativa utile alla collaborazione: da una parte si favorirà l’inserimento di professori universitari in appositi corsi scolastici di orientamento per i maturandi, da un’altra parte si coopterà almeno un professore di liceo e di istituto tecnico nel meccanismo delle prove di accesso alle facoltà che prevedono questi test. Nulla di rivoluzionario nella soluzione che viene disegnata, in accordo fra Fioroni (Pubblica istruzione) e Mussi (Università e ricerca): esiste già nel nostro ordinamento un complesso di regole che puntano alla continuità nell’insegnamento. Al loro tempo furono pensate per favorire forme di contatto fra i maestri delle elementari e i professori della scuola media: queste norme dimostrano che l’intero sistema è chiamato a evitare incongruenze e traumi negli snodi essenziali degli studi. I test, indispensabili spesso per il metabolismo degli studi universitari, perderebbero così nella collaborazione futura fra scuole e atenei il sapore agro di un esame bis. Del resto diversi atenei hanno da tempo anticipato in autonomia misure che si muovono nello spirito delle previste iniziative centrali. A Milano, solo per fare un esempio che potrebbe essere preso da altre aree geografiche altrettanto attive al proposito, c’è una realtà che in vari atenei già scavalca il brutto principio del doppio pedaggio. Cito soltanto alcune variabili: 1) alla Bocconi la prova di accesso si fa online già a maggio, prima ancora dell’esame di maturità: infatti il risultato individuale poggia per metà sul test e per metà sul curriculum del terzo e quarto anno delle superiori. Chi non passa in primavera online può fare a settembre la prova a Milano; 2) al Politecnico il test si fa all’inizio di settembre in presenza, ma per chi frequenta almeno il penultimo anno delle superiori è possibile sostenere un test online presso uno dei terminali della facoltà già dal 25 febbraio all’8 luglio; 3) alla Cattolica, superando di fatto l’illogicità del doppio pedaggio, si mostra fiducia nel valore dell’esame di maturità: in tre corsi di laurea (scienze della comunicazione, linguaggio dei media e scienze delle relazioni internazionali) possono infatti iscriversi per primi i ragazzi che all’esame di Stato hanno preso da 80 in su. Solo gli eventuali posti restanti spettano agli altri studenti con voti più bassi. La scelta di Fioroni e Mussi, come cornice, troverà un’opinione diffusa di condivisione, purché sia leggera e totalmente consapevole delle autonomie, che non tollerano dirigismi. Potrebbe, al di là delle polemiche e dei timori, essere un segnale di moderata liberalizzazione anche nelle troppe carte da bollo ideologiche degli alti studi. Importante è passare dalle intenzioni alla pratica: servono mezzi per avere nella scuola presenze sia pur brevi di professori universitari, da coinvolgere in corsi dell’ultimo anno delle superiori. Altrettanti mezzi sono necessari per cooptare professori delle superiori nei test preuniversitari. Quindici anni fa, dirigevo Il Tempo di Roma, lanciai l’idea della collaborazione scuola-università che forse ora diventa norma. Come simulazione di un modello organizzai per i figli dei lettori corsi gratuiti presso il giornale romano. Per qualche centinaio di ragazzi ne valse la pena: in cattedra si avvicendarono docenti famosi, rettori universitari e professori a gratuito contratto, da Gianni Agnelli all’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
«Corriere della sera» del 10 luglio 2006
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