di Roberto Mussapi
Il grande studioso del mondo greco ha riscritto l’«Odissea» per il proprio nipotino. Inserendosi così nel solco di una tradizione che vanta esempi illustri
Jeanne-Pierre Vernant è uno dei massimi studiosi della civiltà greca, autore di opere memorabili. Questo grande interprete di una delle costole del nostro passato e del nostro presente ora scrive una favola rivolta al nipote, la favola di Ulisse (cui segue quella di Perseo e Medusa) che un vecchio vuole narrare a un bambino (C’era una volta Ulisse, Einaudi, pagg. 82, euro 8,50).
Diciamo subito che il risultato artistico è modesto: semplicistica la lettura del mito, che in modo sfolgorante lo studioso ha contribuito a indagare, né la bonomia è un buon registro per raccontare storie memorabili. Ma non è questo il punto, il grande Vernant si è divertito e, ci auguriamo, anche i suoi nipoti. Il punto è che l’autore rilancia un genere letterario esistente quanto un po’ occulto: la creazione di un’opera letteraria partendo da un’altra opera letteraria, necessariamente un insuperabile capolavoro.
Esiste una tradizione poco esplorata in tal senso, ma è il caso di rievocarla, perché tocca alcuni nodi della natura stessa dell’opera letteraria. Non mi riferisco alla riduzione per ragazzi dei grandi capolavori, né alle opere liberamente ispirate a un modello, a quell’«imitazione» che è un canone della letteratura, a partire da Virgilio che guarda ai poemi di Omero. Parlo di una diversa intenzione letteraria: creare un’opera che abbia pretese artistiche intrinseche non limitandosi a ridurre o a riassumere a scopi divulgativi un capolavoro, ma riscrivendolo, in altra forma, abbreviata. Un’opera nuova da un modello insuperabile, ma un’opera che sia essa stessa autonoma, respirante e emanante poesia e luce.
Il tentativo di Vernant va in questa direzione, e manifesta una volta in più l’immortalità dei classici: le opere di Omero, Dante, Shakespeare e pochi, non pochissimi altri, sono concluse e non concluse nello stesso tempo, accettano filiazioni necessariamente minori ma non di servizio. Celebre in tal senso una trilogia, Esopo Fedro La Fontaine: molte fiabe sono le stesse, gli autori di epoche diverse riscrivono le stesse trame, e ognuno dei tre libri è impeccabile. Ma un altro caso illustre è costituito dalle fiabe teatrali di Carlo Gozzi (ricordiamo almeno le meravigliose Tre melarance, e La donna serpente), che attingevano esplicitamente al capolavoro della fiaba italiana, il sontuoso, vorticante, barocco Cunto de li cunti, detto anche Pentamerone, del secentesco napoletano Giovanbattista Basile.
Ma l’operazione più rischiosa, al limite della follia, in tal senso, si svolse in pieno romanticismo, per mano di un sodale del grande poeta S.T. Coleridge, il padre e il maestro della poesia romantica. Charles Lamb, e la sorella Mary, decisero di riscrivere le commedie e le tragedie di Shakespeare in forma di favole. Folle impresa, come si è detto, ma coronata dal successo che spesso arride alle sfide apparentemente impossibili. I fratelli Lamb innanzitutto esclusero tutte le tragedie storiche, romane o inglesi, privilegiando quindi esplicitamente le opere di pura immaginazione. Straordinariamente riuscirono a tramutare in fiaba Amleto e altre tragedie terribili, come Otello, mentre solo apparentemente più facile fu il compito con le commedie, già di per sé fiabesche, di Shakespeare.
Certo le fiabe dei fratelli Lamb perdevano la geniale conoscenza rivelante di Shakespeare, la sua vertiginosa adesione ai segreti della vita, ma ne salvavano il fascino della storia, lo stupore degli accadimenti, pur con i necessari abbassamenti delle favole per fanciulli: Amleto cercava di indurre la madre al ravvedimento, Desdemona era una donna un po’ irragionevole che aveva scelto di sposare un uomo di colore... Ma il risultato fu che letteratura popolare ebbe un eccellente libro di favole che avvicinava il mondo a Shakespeare in un secolo in cui il teatro era riservato alla borghesia, e non popolare, felicemente di massa come era stato ai tempi fastosi dell’età elisabettiana.
L’opera dei fratelli Lamb risale all’inizio dell’Ottocento, mentre nel secolo appena trascorso, negli anni Settanta, un’iniziativa editoriale di Einaudi tentava un’altra strada di riscrittura, questa volta parziale, dei classici: tenendo conto della situazione italiana (distanza secolare tra lingua scritta e lingua parlata, tanto per citare uno dei problemi), lo Struzzo propose alcuni capolavori che un scrittore tagliava, alternando alle pagine e ai versi originali (ricordiamo l’eccellente Orlando furioso di Italo Calvino), non un commento critico ma un racconto delle parti tagliate, che fungesse di raccordo e insieme creasse una nuova realtà narrativa.
Ma esistono altri casi in cui la riscrittura del modello lo supera: La bella addormentata nel bosco di Walt Disney, col prodigioso incanto di una morte mutata in sonno da un bacio, con l’immobilità del castello e del mondo ridestata a una resurrezione dall’amore, supera di gran lunga il rozzo quanto lezioso modello di Perrault. Ma è un caso raro, e possibile poiché lo scrittore francese non è un Ariosto o uno Shakespeare o, per tornare all’origine di queste considerazioni, un Omero.
Partendo da loro però altre opere possono nascere, autonome, sicuramente inferiori ma non necessariamente superflue. È una prova della doppia vita dei classici: da un lato splendono, conclusi e perfetti come astri paghi dell’irradiante luce propria, dall’altro vivono sottoterra, seminano, suggeriscono nuove filiazioni.
Jeanne-Pierre Vernant è uno dei massimi studiosi della civiltà greca, autore di opere memorabili. Questo grande interprete di una delle costole del nostro passato e del nostro presente ora scrive una favola rivolta al nipote, la favola di Ulisse (cui segue quella di Perseo e Medusa) che un vecchio vuole narrare a un bambino (C’era una volta Ulisse, Einaudi, pagg. 82, euro 8,50).
Diciamo subito che il risultato artistico è modesto: semplicistica la lettura del mito, che in modo sfolgorante lo studioso ha contribuito a indagare, né la bonomia è un buon registro per raccontare storie memorabili. Ma non è questo il punto, il grande Vernant si è divertito e, ci auguriamo, anche i suoi nipoti. Il punto è che l’autore rilancia un genere letterario esistente quanto un po’ occulto: la creazione di un’opera letteraria partendo da un’altra opera letteraria, necessariamente un insuperabile capolavoro.
Esiste una tradizione poco esplorata in tal senso, ma è il caso di rievocarla, perché tocca alcuni nodi della natura stessa dell’opera letteraria. Non mi riferisco alla riduzione per ragazzi dei grandi capolavori, né alle opere liberamente ispirate a un modello, a quell’«imitazione» che è un canone della letteratura, a partire da Virgilio che guarda ai poemi di Omero. Parlo di una diversa intenzione letteraria: creare un’opera che abbia pretese artistiche intrinseche non limitandosi a ridurre o a riassumere a scopi divulgativi un capolavoro, ma riscrivendolo, in altra forma, abbreviata. Un’opera nuova da un modello insuperabile, ma un’opera che sia essa stessa autonoma, respirante e emanante poesia e luce.
Il tentativo di Vernant va in questa direzione, e manifesta una volta in più l’immortalità dei classici: le opere di Omero, Dante, Shakespeare e pochi, non pochissimi altri, sono concluse e non concluse nello stesso tempo, accettano filiazioni necessariamente minori ma non di servizio. Celebre in tal senso una trilogia, Esopo Fedro La Fontaine: molte fiabe sono le stesse, gli autori di epoche diverse riscrivono le stesse trame, e ognuno dei tre libri è impeccabile. Ma un altro caso illustre è costituito dalle fiabe teatrali di Carlo Gozzi (ricordiamo almeno le meravigliose Tre melarance, e La donna serpente), che attingevano esplicitamente al capolavoro della fiaba italiana, il sontuoso, vorticante, barocco Cunto de li cunti, detto anche Pentamerone, del secentesco napoletano Giovanbattista Basile.
Ma l’operazione più rischiosa, al limite della follia, in tal senso, si svolse in pieno romanticismo, per mano di un sodale del grande poeta S.T. Coleridge, il padre e il maestro della poesia romantica. Charles Lamb, e la sorella Mary, decisero di riscrivere le commedie e le tragedie di Shakespeare in forma di favole. Folle impresa, come si è detto, ma coronata dal successo che spesso arride alle sfide apparentemente impossibili. I fratelli Lamb innanzitutto esclusero tutte le tragedie storiche, romane o inglesi, privilegiando quindi esplicitamente le opere di pura immaginazione. Straordinariamente riuscirono a tramutare in fiaba Amleto e altre tragedie terribili, come Otello, mentre solo apparentemente più facile fu il compito con le commedie, già di per sé fiabesche, di Shakespeare.
Certo le fiabe dei fratelli Lamb perdevano la geniale conoscenza rivelante di Shakespeare, la sua vertiginosa adesione ai segreti della vita, ma ne salvavano il fascino della storia, lo stupore degli accadimenti, pur con i necessari abbassamenti delle favole per fanciulli: Amleto cercava di indurre la madre al ravvedimento, Desdemona era una donna un po’ irragionevole che aveva scelto di sposare un uomo di colore... Ma il risultato fu che letteratura popolare ebbe un eccellente libro di favole che avvicinava il mondo a Shakespeare in un secolo in cui il teatro era riservato alla borghesia, e non popolare, felicemente di massa come era stato ai tempi fastosi dell’età elisabettiana.
L’opera dei fratelli Lamb risale all’inizio dell’Ottocento, mentre nel secolo appena trascorso, negli anni Settanta, un’iniziativa editoriale di Einaudi tentava un’altra strada di riscrittura, questa volta parziale, dei classici: tenendo conto della situazione italiana (distanza secolare tra lingua scritta e lingua parlata, tanto per citare uno dei problemi), lo Struzzo propose alcuni capolavori che un scrittore tagliava, alternando alle pagine e ai versi originali (ricordiamo l’eccellente Orlando furioso di Italo Calvino), non un commento critico ma un racconto delle parti tagliate, che fungesse di raccordo e insieme creasse una nuova realtà narrativa.
Ma esistono altri casi in cui la riscrittura del modello lo supera: La bella addormentata nel bosco di Walt Disney, col prodigioso incanto di una morte mutata in sonno da un bacio, con l’immobilità del castello e del mondo ridestata a una resurrezione dall’amore, supera di gran lunga il rozzo quanto lezioso modello di Perrault. Ma è un caso raro, e possibile poiché lo scrittore francese non è un Ariosto o uno Shakespeare o, per tornare all’origine di queste considerazioni, un Omero.
Partendo da loro però altre opere possono nascere, autonome, sicuramente inferiori ma non necessariamente superflue. È una prova della doppia vita dei classici: da un lato splendono, conclusi e perfetti come astri paghi dell’irradiante luce propria, dall’altro vivono sottoterra, seminano, suggeriscono nuove filiazioni.
«Il Giornale» del 20 luglio 2006
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