Bologna, una sentenza del tribunale della Libertà legittima il «martirio» islamico
di Magdi Allam
di Magdi Allam
Giudice di Bologna: la violenza contro i militari non è terrorismo
Che un tribunale sciaraitico di Al Qaeda dica che è legittimo combattere contro le forze internazionali in Afghanistan e che è legittimo il «martirio » degli islamici che muoiono in battaglia, è un fatto scontato. Che lo sentenzi il tribunale della libertà di Bologna ci preoccupa assai. Ebbene, ciò è quanto si evince dall’ordinanza del 27 giugno 2006 emessa dalla corte presieduta da Liviana Gobbi, con cui è stata respinta la richiesta di custodia in carcere nei confronti di 18 sospetti terroristi islamici.
La sentenza ha affermato il principio che «restano esclusi dall’ambito della definizione di terrorismo gli atti di violenza, da chiunque compiuti, contro militari impegnati in un conflitto armato, salvo la illiceità di tali atti sotto altri profili del diritto internazionale umanitario (crimini di guerra o contro l’umanità)».
Quel «da chiunque compiuti» si traduce nell’equiparazione sul piano della legalità delle forze multinazionali impegnate in Afghanistan e di quelle che le combattono, di fatto Al Qaeda e i Taliban: «Né pare condizione sufficiente a caratterizzare come "terroristica" la partecipazione a un conflitto bellico da parte di persone non appartenenti ai Paesi in conflitto, dovendo ricondursi alla nozione di forze armate sia l’esercito regolare di uno Stato sia ogni organizzazione armata che partecipi al conflitto, purché posta sotto un comando responsabile che garantisca la disciplina tra i subordinati ed il rispetto del diritto internazionale umanitario». Fino ad arrivare alla legittimazione del martirio islamico se si muore uccidendo le forze multinazionali: «Posto, tuttavia, che la glorificazione di imprese compiute da confratelli in terra straniera si riferisce a personaggi che hanno combattuto in Bosnia e in Afghanistan (...), non può in alcun modo ritenersi certo che il "martirio" più volte emergente nelle conversazioni sia rappresentato quale conseguenza di un’azione terroristica (ad esempio "kamikaze") e non, invece, di un’attività di tipo militare o paramilitare ».
Chiariamo che il contesto di queste conclusioni si riferisce all’attività di Ben Ali Lotfi, già indagato nel procedimento «Vento di guerra» e di cui la stessa corte giudicante ha accertato la diretta partecipazione ai combattimenti in Afghanistan nell’agosto del 2002. Tuttavia, la corte sembra ignorare che all’epoca in Afghanistan, all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001 contro New York e Washington, era iniziata un’azione anti-terrorismo internazionale avallata dalle risoluzioni 1.368 del 12 settembre 2001 e 1.373 del 28 settembre 2001, in base alle quali gli Stati Uniti hanno promosso l’Operazione Enduring Freedom. Così come, con la risoluzione 1.386 del 20 dicembre 2001, le Nazioni Unite autorizzarono la costituzione dell’Isaf (International Security Assistance Force) con il compito di garantire la sicurezza a Kabul e dintorni.
Eppure questo inequivocabile contesto giuridico, in cui delle forze internazionali legittimate dall’Onu si contrappongono a delle organizzazioni terroristiche, viene rivoluzionato dalla sentenza di Bologna laddove si immagina che Ben Ali Lotfi fosse un resistente e non un terrorista: «Dai contenuti delle conversazioni si può cogliere come egli fosse impegnato in attività di combattimento. In particolare egli riferiva ai suoi interlocutori dell’accoglienza a lui riservata dalle popolazioni locali, che pure poverissime, aiutavano lui e i suoi compagni nelle loro esigenze di vita quotidiana.
Dunque Ben Lotfi non agiva contro le predette popolazioni, ma al loro fianco. Gli elementi sopra riportati portano ragionevolmente a escludere che egli partecipasse ad azioni terroristiche contro la popolazione civile o ad altre persone non partecipanti al conflitto armato. (...) Mentre appare altamente probabile che egli facesse parte di una milizia combattente contro le forze della coalizione nell’ambito di un conflitto, probabilmente quello afghano». Dunque per la corte bolognese Al Qaeda e i Taliban sono una «milizia combattente», schierata al fianco della popolazione, che legittimamente combatte contro le forze della coalizione in quello che viene definito un conflitto, non contro il terrorismo, bensì «probabilmente afghano».
Si tratta di una sentenza che legittima ancor più l’attività terroristica islamica globalizzata. Dopo la sentenza del tribunale di Milano, emessa in primo grado da Clementina Forleo il 24 gennaio 2005 e convalidata in appello da Rosario Caiazzo il 28 novembre 2005, che ha legittimato il reclutamento in Italia di aspiranti terroristi suicidi da inviare in Iraq, la nuova sentenza del tribunale di Bologna legittima il terrorismo, nobilitandolo come resistenza, anche in un contesto come quello afghano dove le Nazioni Unite hanno avallato sin dall’inizio il diritto a ricorrere alla forza per combattere Al Qaeda e i Taliban che la proteggevano.
La conclusione è che per la nostra magistratura combattere contro le forze multinazionali impegnate nella lotta al terrorismo non è mai punibile come terrorismo, sia dove l’Onu non ha dato la propria autorizzazione sin dall’inizio, come è il caso dell’Iraq, sia dove questa autorizzazione c’è stata come è il caso dell’Afghanistan.
La sentenza ha affermato il principio che «restano esclusi dall’ambito della definizione di terrorismo gli atti di violenza, da chiunque compiuti, contro militari impegnati in un conflitto armato, salvo la illiceità di tali atti sotto altri profili del diritto internazionale umanitario (crimini di guerra o contro l’umanità)».
Quel «da chiunque compiuti» si traduce nell’equiparazione sul piano della legalità delle forze multinazionali impegnate in Afghanistan e di quelle che le combattono, di fatto Al Qaeda e i Taliban: «Né pare condizione sufficiente a caratterizzare come "terroristica" la partecipazione a un conflitto bellico da parte di persone non appartenenti ai Paesi in conflitto, dovendo ricondursi alla nozione di forze armate sia l’esercito regolare di uno Stato sia ogni organizzazione armata che partecipi al conflitto, purché posta sotto un comando responsabile che garantisca la disciplina tra i subordinati ed il rispetto del diritto internazionale umanitario». Fino ad arrivare alla legittimazione del martirio islamico se si muore uccidendo le forze multinazionali: «Posto, tuttavia, che la glorificazione di imprese compiute da confratelli in terra straniera si riferisce a personaggi che hanno combattuto in Bosnia e in Afghanistan (...), non può in alcun modo ritenersi certo che il "martirio" più volte emergente nelle conversazioni sia rappresentato quale conseguenza di un’azione terroristica (ad esempio "kamikaze") e non, invece, di un’attività di tipo militare o paramilitare ».
Chiariamo che il contesto di queste conclusioni si riferisce all’attività di Ben Ali Lotfi, già indagato nel procedimento «Vento di guerra» e di cui la stessa corte giudicante ha accertato la diretta partecipazione ai combattimenti in Afghanistan nell’agosto del 2002. Tuttavia, la corte sembra ignorare che all’epoca in Afghanistan, all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001 contro New York e Washington, era iniziata un’azione anti-terrorismo internazionale avallata dalle risoluzioni 1.368 del 12 settembre 2001 e 1.373 del 28 settembre 2001, in base alle quali gli Stati Uniti hanno promosso l’Operazione Enduring Freedom. Così come, con la risoluzione 1.386 del 20 dicembre 2001, le Nazioni Unite autorizzarono la costituzione dell’Isaf (International Security Assistance Force) con il compito di garantire la sicurezza a Kabul e dintorni.
Eppure questo inequivocabile contesto giuridico, in cui delle forze internazionali legittimate dall’Onu si contrappongono a delle organizzazioni terroristiche, viene rivoluzionato dalla sentenza di Bologna laddove si immagina che Ben Ali Lotfi fosse un resistente e non un terrorista: «Dai contenuti delle conversazioni si può cogliere come egli fosse impegnato in attività di combattimento. In particolare egli riferiva ai suoi interlocutori dell’accoglienza a lui riservata dalle popolazioni locali, che pure poverissime, aiutavano lui e i suoi compagni nelle loro esigenze di vita quotidiana.
Dunque Ben Lotfi non agiva contro le predette popolazioni, ma al loro fianco. Gli elementi sopra riportati portano ragionevolmente a escludere che egli partecipasse ad azioni terroristiche contro la popolazione civile o ad altre persone non partecipanti al conflitto armato. (...) Mentre appare altamente probabile che egli facesse parte di una milizia combattente contro le forze della coalizione nell’ambito di un conflitto, probabilmente quello afghano». Dunque per la corte bolognese Al Qaeda e i Taliban sono una «milizia combattente», schierata al fianco della popolazione, che legittimamente combatte contro le forze della coalizione in quello che viene definito un conflitto, non contro il terrorismo, bensì «probabilmente afghano».
Si tratta di una sentenza che legittima ancor più l’attività terroristica islamica globalizzata. Dopo la sentenza del tribunale di Milano, emessa in primo grado da Clementina Forleo il 24 gennaio 2005 e convalidata in appello da Rosario Caiazzo il 28 novembre 2005, che ha legittimato il reclutamento in Italia di aspiranti terroristi suicidi da inviare in Iraq, la nuova sentenza del tribunale di Bologna legittima il terrorismo, nobilitandolo come resistenza, anche in un contesto come quello afghano dove le Nazioni Unite hanno avallato sin dall’inizio il diritto a ricorrere alla forza per combattere Al Qaeda e i Taliban che la proteggevano.
La conclusione è che per la nostra magistratura combattere contro le forze multinazionali impegnate nella lotta al terrorismo non è mai punibile come terrorismo, sia dove l’Onu non ha dato la propria autorizzazione sin dall’inizio, come è il caso dell’Iraq, sia dove questa autorizzazione c’è stata come è il caso dell’Afghanistan.
«Corriere della sera» del 23 luglio 2006
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