Scuola e università nel mirino del critico letterario Alfonso Berardinelli: «I grandi autori del passato? Vengono utilizzati male,o in modo terroristico Guai all’insegnante che li rende noiosi»
di Luigi Vaccari
«Oggi tutti leggono per obbligo scolastico. La letteratura vive se è davvero un oggetto d’uso. Se la tramutiamo in un oggetto di studio la uccidiamo»
I classici sono sempre d'attualità. E sempre inafferrabili. Dice Alfonso Berardinelli, critico letterario e saggista: «Un classico, come è stato già detto da qualcuno, è un libro che vorremmo aver letto e non abbiamo letto. Questo significa che il nostro rapporto con i classici è ambivalente: vorremmo farli nostri e nello stesso tempo ci fanno paura perché li sentiamo lontani da noi. Comunque sono di almeno due tipi: quelli canonici, sui quali non si può obiettare, e quelli relativi a un certo periodo, a una certa tendenza, a un certo gusto. In un momento in cui si torna a parlare, anche per ragioni politiche, di identità culturali, sono quei testi sui quali noi fondiamo la nostra idea della vita, del vivere comune, e perfino dell'aldilà».
Come superare la paura e conquistarli?
«Credo che anche noi adulti soffriamo di un complesso scolastico nei confronti dei classici. A scuola si usano male, in modo terroristico e noioso. Si crea una inibizione a leggerli che per molte persone, anche abbastanza colte, dura tutta la vita. Penso che si dovrebbe cominciare così: considerarli libri qualunque; leggerli, capendo quello che si riesce a capire, senza troppa erudizione. Ma ricordando sempre che leggere un grande classico dà al lettore una straordinaria sicurezza».
Italo Calvino ha scritto: «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire»…
«Ha scritto anche, con una semplicità ancora più provocatoria, che bisogna leggere i classici perché comunque leggerli è meglio che non leggerli. Questo lo trovo di un praticismo sublime. Calvino era un uomo pratico, arguto e astuto. Capiva bene che ci sono cose che è meglio fare che non fare. Anch'io credo che la lettura dei classici abbia anzitutto una funzione pratica elementare: chi non li legge avrà sempre quel rimorso, si sentirà per sempre ignorante, non riuscirà mai a liberarsi di un complesso di inferiorità culturale. Solo chi ha letto almeno 10 classici fo ndamentali è libero da queste fisime…».
Quanto i classici più remoti influenzano la letteratura contemporanea?
«È difficile dirlo. Chiunque scriva ha sempre in mente alcuni autori che considera come i suoi classici. Si può dunque scegliere. Ci sono i classici canonici, che dovrebbero essere tali per tutti. E i classici personali, di cui ogni lettore o scrittore sente un assoluto bisogno. E ci sono classici minori: per esempio Edgard Poe o Stevenson o Goncarov potrebbero essere considerati minori, rispetto a Dante e Shakespeare. Ma è anche l'unicità, la singolarità, l'incomparabile bizzarria che rende classici autori come loro. Ne esistono che rappresentano e sintetizzano le caratteristiche di un genere letterario: Sofocle e Shakespeare il teatro; Omero, Cervantes e Tolstoj la narrazione epica; Saffo e Leopardi la poesie lirica; Plutarco, Seneca, Montaigne e Voltaire la saggistica…».
Lei si è occupato a lungo di poesia. E recentemente ha scritto un libro intitolato: «Che noia la poesia»…
«Il titolo si riferisce alla scuola, che si dimostra così efficiente nell'annoiare gli studenti con opere e autori che noiosi non sono affatto. Abbiamo scritto questo libro per combattere un diffuso pregiudizio negativo che tuttora esiste contro la poesia. Sembra che nessuno osi leggerla di propria iniziativa: la si legge soltanto per obbligo scolastico. E, in aggiunta, si è costretti a produrre, sui testi appena letti, delle complicate e spesso inutili interpretazioni. La letteratura vive se è davvero un oggetto d'uso: cioè, se è letta. Se la trasformiamo in oggetto di studio e basta la uccidiamo. Il discorso riguarda tutti i classici».
Ampiamente diffusi in collane anche economiche. Ma quale ascolto hanno presso i lettori non specialistici?
«È un mistero. Non basta vendere tutti i classici a prezzi popolari per essere certi che verranno letti e capiti. L'incontro fra passato e presente è sempre un problema. Bisogna anche dire che un classico è capito e agisce davvero soltanto se viene letto come se fosse stato scritto ieri. Sarà una deformazione cancellare la distanza, ma forse è necessaria perché un libro scritto secoli fa venga letto oggi come qualcosa di vivo e interessante oggi. Qui gli studiosi sono utili, indispensabili a volte, perché sono gli unici capaci di spiegarci il senso di un linguaggio remoto rispetto al nostro linguaggio attuale. Ma è bene che gli studiosi non credano di essere i soli destinatari dei classici: debbono essere al servizio dei lettore comune, altrimenti l'alta cultura diventa patrimonio esclusivo di una casta di specialisti».
Lo sono, al servizio di tutti? O invece ignorano i lettori comuni perché non li considerano conquistabili?
«La scuola e l'insegnamento dovrebbero avere il compito di fare incontrare il meglio di ciò che la critica ha scritto con quei lettori ingenui, sprovveduti e spesso svogliati che sono gli studenti. È il grande compito di chi insegna. Ed è un momento cruciale nella trasmissione del sapere. Ma bisogna anche divertirsi. Guai all'insegnante che rende noiosa la lettura dei più grandi capolavori prodotti dall'umanità. È lo stesso caso del sacerdote che rende noiosa e poco interessante una sacra scrittura».
Non è quello che spesso accade?
«Sì: ne sto parlando proprio perché, ahimé, accade. La nostra società non ha ancora capito i crimini culturali, quasi sempre inconsapevoli, che vengono commessi nell'insegnamento scolastico e universitario. I classici vengono somministrati e usati per superare esami e dare voti. Nel corso dell'apprendimento non vengono presi in considerazione quei metodi elementari che dovrebbero realizzare un vero contatto tra le grandi opere e i giovani che oggi le leggono. È vero che la libera lettura individuale, senza prescrizioni e imposizioni, non è sostituibile da alcun insegnamento istituzionale. Ma non c'è vero insegnamento, neppure istituzionale, che possa credere di raggiung ere gli studenti senza essere riuscito a coinvolgerli. Insegnare è un'arte e richiede una vocazione e un talento specifici come tutte le altre arti».
In questa situazione quale futuro intravede per i classici?
«Sono la fonte dei nostri rimorsi culturali e l'utopia della vita di ogni lettore, ciò che ci rende insoddisfatti del presente e che ci fa sentire debitori del passato. Debitori anche nei confronti delle nostre più o meno dimenticate e migliori aspirazioni. Chissà che futuro avremo. Ma una cosa è certa: un futuro delle nostre società che fosse fondato sulla cancellazione della memoria e del passato sarebbe mostruoso: come oggi si comincia a dire, post umano…».
Come superare la paura e conquistarli?
«Credo che anche noi adulti soffriamo di un complesso scolastico nei confronti dei classici. A scuola si usano male, in modo terroristico e noioso. Si crea una inibizione a leggerli che per molte persone, anche abbastanza colte, dura tutta la vita. Penso che si dovrebbe cominciare così: considerarli libri qualunque; leggerli, capendo quello che si riesce a capire, senza troppa erudizione. Ma ricordando sempre che leggere un grande classico dà al lettore una straordinaria sicurezza».
Italo Calvino ha scritto: «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire»…
«Ha scritto anche, con una semplicità ancora più provocatoria, che bisogna leggere i classici perché comunque leggerli è meglio che non leggerli. Questo lo trovo di un praticismo sublime. Calvino era un uomo pratico, arguto e astuto. Capiva bene che ci sono cose che è meglio fare che non fare. Anch'io credo che la lettura dei classici abbia anzitutto una funzione pratica elementare: chi non li legge avrà sempre quel rimorso, si sentirà per sempre ignorante, non riuscirà mai a liberarsi di un complesso di inferiorità culturale. Solo chi ha letto almeno 10 classici fo ndamentali è libero da queste fisime…».
Quanto i classici più remoti influenzano la letteratura contemporanea?
«È difficile dirlo. Chiunque scriva ha sempre in mente alcuni autori che considera come i suoi classici. Si può dunque scegliere. Ci sono i classici canonici, che dovrebbero essere tali per tutti. E i classici personali, di cui ogni lettore o scrittore sente un assoluto bisogno. E ci sono classici minori: per esempio Edgard Poe o Stevenson o Goncarov potrebbero essere considerati minori, rispetto a Dante e Shakespeare. Ma è anche l'unicità, la singolarità, l'incomparabile bizzarria che rende classici autori come loro. Ne esistono che rappresentano e sintetizzano le caratteristiche di un genere letterario: Sofocle e Shakespeare il teatro; Omero, Cervantes e Tolstoj la narrazione epica; Saffo e Leopardi la poesie lirica; Plutarco, Seneca, Montaigne e Voltaire la saggistica…».
Lei si è occupato a lungo di poesia. E recentemente ha scritto un libro intitolato: «Che noia la poesia»…
«Il titolo si riferisce alla scuola, che si dimostra così efficiente nell'annoiare gli studenti con opere e autori che noiosi non sono affatto. Abbiamo scritto questo libro per combattere un diffuso pregiudizio negativo che tuttora esiste contro la poesia. Sembra che nessuno osi leggerla di propria iniziativa: la si legge soltanto per obbligo scolastico. E, in aggiunta, si è costretti a produrre, sui testi appena letti, delle complicate e spesso inutili interpretazioni. La letteratura vive se è davvero un oggetto d'uso: cioè, se è letta. Se la trasformiamo in oggetto di studio e basta la uccidiamo. Il discorso riguarda tutti i classici».
Ampiamente diffusi in collane anche economiche. Ma quale ascolto hanno presso i lettori non specialistici?
«È un mistero. Non basta vendere tutti i classici a prezzi popolari per essere certi che verranno letti e capiti. L'incontro fra passato e presente è sempre un problema. Bisogna anche dire che un classico è capito e agisce davvero soltanto se viene letto come se fosse stato scritto ieri. Sarà una deformazione cancellare la distanza, ma forse è necessaria perché un libro scritto secoli fa venga letto oggi come qualcosa di vivo e interessante oggi. Qui gli studiosi sono utili, indispensabili a volte, perché sono gli unici capaci di spiegarci il senso di un linguaggio remoto rispetto al nostro linguaggio attuale. Ma è bene che gli studiosi non credano di essere i soli destinatari dei classici: debbono essere al servizio dei lettore comune, altrimenti l'alta cultura diventa patrimonio esclusivo di una casta di specialisti».
Lo sono, al servizio di tutti? O invece ignorano i lettori comuni perché non li considerano conquistabili?
«La scuola e l'insegnamento dovrebbero avere il compito di fare incontrare il meglio di ciò che la critica ha scritto con quei lettori ingenui, sprovveduti e spesso svogliati che sono gli studenti. È il grande compito di chi insegna. Ed è un momento cruciale nella trasmissione del sapere. Ma bisogna anche divertirsi. Guai all'insegnante che rende noiosa la lettura dei più grandi capolavori prodotti dall'umanità. È lo stesso caso del sacerdote che rende noiosa e poco interessante una sacra scrittura».
Non è quello che spesso accade?
«Sì: ne sto parlando proprio perché, ahimé, accade. La nostra società non ha ancora capito i crimini culturali, quasi sempre inconsapevoli, che vengono commessi nell'insegnamento scolastico e universitario. I classici vengono somministrati e usati per superare esami e dare voti. Nel corso dell'apprendimento non vengono presi in considerazione quei metodi elementari che dovrebbero realizzare un vero contatto tra le grandi opere e i giovani che oggi le leggono. È vero che la libera lettura individuale, senza prescrizioni e imposizioni, non è sostituibile da alcun insegnamento istituzionale. Ma non c'è vero insegnamento, neppure istituzionale, che possa credere di raggiung ere gli studenti senza essere riuscito a coinvolgerli. Insegnare è un'arte e richiede una vocazione e un talento specifici come tutte le altre arti».
In questa situazione quale futuro intravede per i classici?
«Sono la fonte dei nostri rimorsi culturali e l'utopia della vita di ogni lettore, ciò che ci rende insoddisfatti del presente e che ci fa sentire debitori del passato. Debitori anche nei confronti delle nostre più o meno dimenticate e migliori aspirazioni. Chissà che futuro avremo. Ma una cosa è certa: un futuro delle nostre società che fosse fondato sulla cancellazione della memoria e del passato sarebbe mostruoso: come oggi si comincia a dire, post umano…».
(1 - continua)
«Avvenire» del 19 luglio 2006
«Avvenire» del 19 luglio 2006
Nessun commento:
Posta un commento