di Collura Matteo
Luigi Pirandello è uno degli scrittori più significativi del Novecento, secolo in cui soprattutto la cultura europea portò a compimento la rivoluzionaria scomposizione della personalità umana e la dissoluzione delle forme, tutte: da quella sociale a quella culturale, da quella artistica a quella politica. Per questo, oggi - nonostante l’irriducibile fortuna in teatro - il mondo di Pirandello, anche quello da lui immaginato come futuribile fantasia, può apparire lontano, antico, radicalmente superato. Dal secondo dopoguerra a oggi, assorbiti finanche i rivoluzionari effetti del ‘68, le tematiche pirandelliane, i suoi speciosi rovelli, risultano legati a un tempo a noi ormai estraneo; un tempo che coincide con la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, gli anni, appunto, dell’«involontario soggiorno sulla terra» di Pirandello, ma che di fatto durava da secoli. Quest’epoca, sappiamo, ebbe il suo epilogo negli anni del fascismo; anni in cui la maschera dell’ipocrisia e del conformismo accentuò la sua asfissiante morsa. Contro quella morsa lottò Pirandello, pur restando - ecco uno dei paradossi legati al suo nome - un perfetto uomo del suo tempo. Un’ulteriore conferma di quanto fin qui asserito ci viene data dal nuovo «Meridiano» dedicato da Mondatori all’autore dei Sei personaggi, in cui, a cura di Ferdinando Taviani, sono raccolti i Saggi e gli Interventi (pagine 1618, euro 55). Ma altre conferme si hanno da questa corposa e interessante lettura. Per esempio quella che riguarda la biografia ricavabile dai suoi scritti: Pirandello parla di sé in modo più esplicito nelle opere di fantasia (commedie, romanzi, novelle) che nelle interviste e negli scritti occasionali o di circostanza. Lui era fatto così: in pubblico, davanti a un microfono o a un registratore era un professore austero, tendente alla retorica, consapevole dei suoi meriti artistici, un siciliano dal carattere altero e piuttosto ombroso, permaloso. In privato - e le sue tantissime lettere ai familiari, a Marta Abba e agli amici lo dimostrano - era un uomo impaurito e inadatto a vivere la vita se non scrivendola. Era un artista infelice, e non soltanto a causa dell’infermità mentale della moglie, ma per la sua incapacità a vivere la propria esistenza come un essere umano qualunque; e questo dramma appare chiaramente nelle sue opere. Dicevamo della consapevolezza di Pirandello dei suoi meriti artistici; meriti messi in discussione severamente da Benedetto Croce, il quale considerava le novelle e i romanzi di Pirandello «più che altro una prosecuzione alquanto in ritardo dell’opera della scuola veristica italiana». Leggiamo la risposta che Pirandello diede a Croce, attraverso il resoconto di un incontro che il drammaturgo ebbe a New York con Domenico Vittorini, nel 1935: «Croce, nella sua ottusità, non ha visto la corrente umana che corre lungo tutta la mia arte. Non è mai stato capace di vedere che io sono stato e sono nemico del formalismo e dell’ipocrisia. Fondamentalmente, io ho sempre cercato di dimostrare che nulla offende tanto la vita quanto il ridurla a un vuoto concetto». E sconcerta che un siffatto «nemico del formalismo e dell’ipocrisia» abbia, nel 1924, l’anno del rapimento e dell’assassinio di Matteotti, chiesto l’iscrizione al Partito Nazionale Fascista. Su questo particolare momento della vita di Pirandello, nel «Meridiano» appena pubblicato si hanno pagine non dico definitivamente illuminanti, ma che aiutano a capire scelte altrimenti incomprensibili. Fu il suo chiuso sentire antidemocratico, il suo piccato antiparlamentarismo a consigliarlo nelle scelte politiche (anche se la politica, è giusto dirlo, non fu un grande interesse per Pirandello). «L’errore fondamentale su cui riposa tutta la vita americana», dichiarò Pirandello a Giuseppe Villaroel in una intervista pubblicata dal Giornale d’Italia l’8 maggio 1924, «è quello stesso che secondo me infirma la concezione democratica della vita. Sono antidemocratico per eccellenza. La massa per se stessa ha bisogno di chi la formi, ha bisogni materiali, aspirazioni che non superano le necessità pratiche». Tanti gli articoli, gli appunti «tecnici», vistosi lo stupore e le apprensioni che al «maestro» venivano dalle nuove scoperte scientifiche messe al servizio dell’arte (il cinema e il sonoro in primo luogo); tante le note critiche messe insieme in questo nuovo libro, arricchito da una testimonianza di grande interesse, quella del nipote del drammaturgo, Andrea Pirandello, figlio del primogenito del premio Nobel, Stefano. Con Stefano, Luigi Pirandello scrisse molti articoli, addirittura firmandone col suo nome alcuni frutto del lavoro esclusivo del figlio. «Il che sarà stato per il padre un gioco, un divertimento», annotò Sciascia, «ma, a parte il movente economico, certo non per il figlio». Ed è così nella commovente testimonianza di Andrea Pirandello.
«Corriere della sera» del 10 luglio 2006
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