di Giuseppe Iannaccone
La recente pubblicità su carta stampata di un dentifricio propone una vignetta in cui un dente comodamente seduto in poltrona, con tanto di pantofole e occhiali presumibilmente per presbiti, legge, alla luce di una lampada e visibilmente concentrato, un libro: «Il deserto del tartaro». In cima campeggia un titolo che ribadisce il gioco di parole, nel caso in cui il distratto lettore di riviste non avesse afferrato: «una lettura mor-dente».
Niente di nuovo si dirà chi ha imparato a tollerare le campagne pubblicitarie di quella famosa catena della grande distribuzione alimentare che ha già altrettanto «simpaticamente» antropomorfizzato e fornito di pensiero e parola ogni prodotto commestibile, dai cavoli alle merende. E d’altronde la maggior parte dei seguaci del Grande Fratello (il reality) non sa che il copyright di quest’invenzione metaforica ancor prima che linguistica non è dell’Aran Endemol (la casa di produzione del reality medesimo), ma di George Orwell, e che è «depositata» nel suo libro più famoso, 1984.
Se per interpretare questo fenomeno tutto postmoderno della citazione che cancella l’originale si proponesse la categoria, sarcastica più che ironica, dell'«umiliazione linguistica», si rischierebbe certamente di essere accusati di integralismo filologico o moralismo linguistico o, nella migliore delle ipotesi, di prendere tutto troppo sul serio. Ma è davvero così poco grave l’avvento di questa «pubblicità regresso» in cui titoli di romanzi e nomi di personaggi letterari volteggiano come arance in mano a un giocoliere, perdendo, giro dopo giro, il senso originario?
Eugenio Montale scrisse, moltissimi anni fa: «Chi ha fatto il nome di Kafka, a proposito del Deserto dei Tartari, merita di essere perdonato se non conosceva il precedente romanzo Barnabo delle montagne che svolge press’a poco lo stesso tema (la grandezza e la degnità della vita in solitudine) e che presenta il primo personaggio veramente originale di Buzzati: una cornacchia». Chissà se Eugenio Montale avrebbe perdonato oggi chi non fa il nome di Dino Buzzati incappando in pubblicità così mor-denti, o di George Orwell, guardando l’ennesima edizione del Grande Fratello, perché non li sa. Quei nomi.
Niente di nuovo si dirà chi ha imparato a tollerare le campagne pubblicitarie di quella famosa catena della grande distribuzione alimentare che ha già altrettanto «simpaticamente» antropomorfizzato e fornito di pensiero e parola ogni prodotto commestibile, dai cavoli alle merende. E d’altronde la maggior parte dei seguaci del Grande Fratello (il reality) non sa che il copyright di quest’invenzione metaforica ancor prima che linguistica non è dell’Aran Endemol (la casa di produzione del reality medesimo), ma di George Orwell, e che è «depositata» nel suo libro più famoso, 1984.
Se per interpretare questo fenomeno tutto postmoderno della citazione che cancella l’originale si proponesse la categoria, sarcastica più che ironica, dell'«umiliazione linguistica», si rischierebbe certamente di essere accusati di integralismo filologico o moralismo linguistico o, nella migliore delle ipotesi, di prendere tutto troppo sul serio. Ma è davvero così poco grave l’avvento di questa «pubblicità regresso» in cui titoli di romanzi e nomi di personaggi letterari volteggiano come arance in mano a un giocoliere, perdendo, giro dopo giro, il senso originario?
Eugenio Montale scrisse, moltissimi anni fa: «Chi ha fatto il nome di Kafka, a proposito del Deserto dei Tartari, merita di essere perdonato se non conosceva il precedente romanzo Barnabo delle montagne che svolge press’a poco lo stesso tema (la grandezza e la degnità della vita in solitudine) e che presenta il primo personaggio veramente originale di Buzzati: una cornacchia». Chissà se Eugenio Montale avrebbe perdonato oggi chi non fa il nome di Dino Buzzati incappando in pubblicità così mor-denti, o di George Orwell, guardando l’ennesima edizione del Grande Fratello, perché non li sa. Quei nomi.
«Il Giornale» del 19 luglio 2006
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