di Giordano Bruno Guerri
Quando i nostri connazionali, fra Otto e Novecento, emigrarono negli Stati Uniti, subirono gli stessi pregiudizi razziali riservati alle popolazioni di colore. In fondo, anche la loro pelle non era così bianca...
Chiusi nelle loro «little Italy», i milioni di italiani che a cavallo fra Ottocento e Novecento avevano scelto gli Stati Uniti si adattavano con fatica al passaggio da società rurali chiuse alla moderna società americana. Nel Paese, oltretutto, la paura del comunismo era aumentata a dismisura dopo la rivoluzione sovietica del 1917 e la fondazione, nel 1919, dell’American Communist Party, in cui solo il 7 per cento degli iscritti parlava inglese.
L’ostilità nazionalista verso gli immigrati divenne sciovinismo. Soltanto gli imprenditori erano favorevoli a un ingresso illimitato di emigranti, mentre la popolazione era ostile per semplici motivi razzistici e religiosi (la maggior parte dei nuovi arrivati era cattolica), per paura della delinquenza e del «pericolo sovversivo» costituito dai nuovi venuti. Dagli studi di una Commissione parlamentare, istituita nel 1911, risultò che siciliani e calabresi erano particolarmente attivi nel contribuire alla crescita del preoccupante fenomeno della criminalità nelle città americane. A questo dato oggettivo si aggiungeva la paura che i fisici macilenti e la «scarsa intelligenza» dei nuovi arrivati finisse per corrompere i tratti originali degli americani, attivando così un vero e proprio processo degenerativo.
Dopo la crisi economica del 1929, con i relativi disordini e con il diffondersi del «pericolo comunista», anche i segregazionisti si resero conto che era ormai diventato impossibile continuare a mantenere un numero tanto alto di immigrati europei fuori dalla élite dei bianchi, a rischio di pericolose coalizioni con i neri. Vennero quindi estesi i diritti civili a tutti i cosiddetti «caucasici», gruppo razziale che comprendeva anche i mediterranei, ma che era suddiviso in «White Caucasian» (anglosassoni, germanici e scandinavi) e «Caucasian». La suddivisione è ancora in vigore nei metodi statistici usati dalle istituzioni di molti Stati americani, e le presunte razze non caucasiche furono escluse dai diritti civili fino agli anni Sessanta.
Gli italiani si trovarono dunque nella necessità di distinguersi dalla popolazione nera, cui venivano accomunati dagli anglosassoni. La loro faticosa vicenda - e parliamo di quasi 9 milioni di emigranti, più i loro figli - è analizzata nell’ottima raccolta di saggi in Gli italiani sono bianchi? Come l’America ha costruito la razza (il Saggiatore, pagg. 384, euro 19,50), a cura di Jennifer Guglielmo e Salvatore Salerno. Gli italiani erano tutti arrivati negli Stati Uniti «senza essere consapevoli dell’esistenza della linea del colore. Ma impararono in fretta che essere bianchi significava riuscire a evitare molte forme di violenza e di umiliazione, assicurarsi, tra gli altri privilegi, l’accesso preferenziale alla cittadinanza, al diritto di proprietà, a un’occupazione soddisfacente, a un salario con cui si poteva vivere, ad abitazioni decorose, al potere politico, allo status sociale e a un’istruzione di buon livello».
È evidente l’importanza, per gli italiani d’America, di non essere accostati ai neri: un marchio terribile, soprattutto in alcuni Stati. «Gli Stati Uniti che gli immigrati italiani conobbero erano una nazione fondata su un processo di colonizzazione, espropriazione e schiavitù e pertanto percorsa da profonde fratture, causate da gerarchie di disuguaglianza basate sulla razza». Essendo rimasti poveri più a lungo della maggioranza degli altri emigrati europei, gli italiani vissero altrettanto a lungo fra i neri, nei quartieri più poveri degli Stati Uniti, sperimentando sia i privilegi dell’essere bianchi sia le discriminazioni razziali a loro danno. Accolti inizialmente come «bianchi», dovettero attendere a lungo prima di essere trattati davvero come tali.
Nel 1922, in Alabama, un uomo di colore accusato di miscegenation (mescolanza di razze) per avere avuto rapporti sessuali con una bianca venne assolto in quanto la donna «non era bianca, era italiana». I pregiudizi razziali venivano accresciuti persino dal presunto cristianesimo «pagano» degli italiani, con particolare sospetto sulla venerazione della Madonna nera di Loreto, il san Nicola nero di Bari, il Filippo nero di Agira, il san Zeno nero di Verona, il Cristo nero di Siculana, e il San Calogero nero tanto amato in Sicilia.
La situazione era più grave per i meridionali, considerati come un’«altra razza» anche dagli italiani del nord, che condividevano una comune convinzione nordeuropea per cui «l’Europa finisce a Napoli. Calabria, Sicilia, tutto il resto appartiene all’Africa». Una tesi simile, del resto, era sostenuta e in parte originata dai principali antropologi positivisti italiani, convinti che i meridionali «mediterranei», più scuri, fossero una razza diversa da quella dei settentrionali «ariani», più chiari: i primi avrebbero posseduto «sangue africano inferiore» e dimostravano di avere «una struttura sociale e morale e reminiscenze di un’epoca primitiva e perfino quasi barbarica»: dunque appartenevano a «una civiltà assolutamente inferiore». Simili idee attraversarono con facilità l’Atlantico e furono subito accolte dai bianchi nati negli Stati Uniti e dagli emigranti dall’Europa settentrionale, fornendo loro una facile spiegazione genetica per la violenza cui i meridionali sembravano maggiormente portati. Oltretutto non erano molti gli italiani - specie quelli del sud - a considerarsi tali. Le vicende dell’unità nazionale avevano lasciato indifferenti o ostili allo Stato nazionale i loro padri, nonni, bisnonni, e la loro fedeltà, il loro «senso della patria», riguardava soltanto compaesani e parenti.
In simili condizioni di sottoproletariato, aggravato dalle distinzioni razziali, non stupisce che quanti svilupparono attività o appartenenze politico-sindacali lo fecero nei gruppi anarchici o in quelli socialisti, per lottare contro lo sfruttamento ma anche - di conseguenza - contro il razzismo, il capitalismo, il nazionalismo, l’imperialismo. Finirono così, spesso, per aggravare la propria posizione: marchiati come sovversivi, criminali, o in entrambi i modi, spesso erano costretti a accettare lavori tipicamente «neri». E con i neri spesso familiarizzavano o si mobilitavano, venendo meno al rispetto della linea del colore e suscitando l’odio dei sostenitori della supremazia bianca. Uno dei protagonisti di Babbitt, romanzo di Sinclair Lewis pubblicato nel 1922, sostiene che i dago «devono imparare che questo è il paese dell’uomo bianco e che non sono desiderati qui». Dago e - ancora di più - guinea erano le definizioni di «italiano» che più accostavano i nostri emigrati ai neri.
Bollati in tale modo, dopo i casi di linciaggio avvenuti tra fine Ottocento e inizio Novecento, gli italiani subirono spesso una discriminazione ufficiosa ma non per questo meno infamante: come il rifiuto dei nativi americani di viaggiare sullo stesso tram e di vivere in case accanto alle loro; oppure l’esclusione dei bimbi italiani da scuole e cinema, mentre i loro genitori venivano esclusi da certi sindacati e associazioni. Persino in alcune chiese venivano segregati. Libri, riviste, giornali popolari e cinema favorirono la segregazione presentando spesso gli italiani come «razzialmente sospetti», e gli stessi rappresentanti del governo usavano il loro potere per registrare una differenza nell’aspetto fisico, ovvero catalogavano i nostri emigranti come «bianchi scuri» di «razza» italiana.
Furono moltissimi gli italiani che per liberarsi di simili pregiudizi dalle conseguenze drammatiche, cambiarono religione (25mila soltanto a New York nel 1918) e americanizzarono il nome. E fu a partire dall’implacabile esecuzione di Sacco e Vanzetti e dalle più note imprese di Al Capone che - comprensibilmente - gli italiani d’America sentirono più forte la necessità di essere riconosciuti come americani «bianchi» a tutti gli effetti. Allo stesso tempo - d’altra parte e per lo stesso motivo - sentivano il bisogno di essere riabilitati nella loro italianità. Determinante fu, in questo senso, il favore con il quale il governo di Washington vide l’insediarsi al potere di Mussolini e il progressivo stabilizzarsi del fascismo in un regime forte e filocapitalista. Mussolini, d’altronde, era prodigo di gesti amichevoli verso gli Stati Uniti, ma soprattutto di attenzioni (culturali e politiche) verso quegli stessi emigrati che il regime liberale aveva praticamente ignorato.
All’integrazione degli italiani giovarono anche grandi imprese come la trasvolata atlantica da Roma a Chicago, con 24 idrovolanti. Poi, il successo di italo-americani come Joe di Maggio, Frank Sinatra, Fiorello La Guardia ecc. (al riguardo è uscito nel 2004 Sinatra, Scorsese, Di Maggio e tutti gli altri, di Erik Amfitheatrof (Neri Pozza, pagg. 460, euro 18). Giovò agli italiani, soprattutto, il loro lavoro. Ma in un film di grande successo - Fa’ la cosa giusta, di Spike Lee (1989) - il protagonista nero, litigando con un pizzaiolo italo-americano, gli dice, allusivo: «Lo sai cosa si dice degli italiani di pelle scura, vero?»: si dice ancora che non sono del tutto bianchi.
Chiusi nelle loro «little Italy», i milioni di italiani che a cavallo fra Ottocento e Novecento avevano scelto gli Stati Uniti si adattavano con fatica al passaggio da società rurali chiuse alla moderna società americana. Nel Paese, oltretutto, la paura del comunismo era aumentata a dismisura dopo la rivoluzione sovietica del 1917 e la fondazione, nel 1919, dell’American Communist Party, in cui solo il 7 per cento degli iscritti parlava inglese.
L’ostilità nazionalista verso gli immigrati divenne sciovinismo. Soltanto gli imprenditori erano favorevoli a un ingresso illimitato di emigranti, mentre la popolazione era ostile per semplici motivi razzistici e religiosi (la maggior parte dei nuovi arrivati era cattolica), per paura della delinquenza e del «pericolo sovversivo» costituito dai nuovi venuti. Dagli studi di una Commissione parlamentare, istituita nel 1911, risultò che siciliani e calabresi erano particolarmente attivi nel contribuire alla crescita del preoccupante fenomeno della criminalità nelle città americane. A questo dato oggettivo si aggiungeva la paura che i fisici macilenti e la «scarsa intelligenza» dei nuovi arrivati finisse per corrompere i tratti originali degli americani, attivando così un vero e proprio processo degenerativo.
Dopo la crisi economica del 1929, con i relativi disordini e con il diffondersi del «pericolo comunista», anche i segregazionisti si resero conto che era ormai diventato impossibile continuare a mantenere un numero tanto alto di immigrati europei fuori dalla élite dei bianchi, a rischio di pericolose coalizioni con i neri. Vennero quindi estesi i diritti civili a tutti i cosiddetti «caucasici», gruppo razziale che comprendeva anche i mediterranei, ma che era suddiviso in «White Caucasian» (anglosassoni, germanici e scandinavi) e «Caucasian». La suddivisione è ancora in vigore nei metodi statistici usati dalle istituzioni di molti Stati americani, e le presunte razze non caucasiche furono escluse dai diritti civili fino agli anni Sessanta.
Gli italiani si trovarono dunque nella necessità di distinguersi dalla popolazione nera, cui venivano accomunati dagli anglosassoni. La loro faticosa vicenda - e parliamo di quasi 9 milioni di emigranti, più i loro figli - è analizzata nell’ottima raccolta di saggi in Gli italiani sono bianchi? Come l’America ha costruito la razza (il Saggiatore, pagg. 384, euro 19,50), a cura di Jennifer Guglielmo e Salvatore Salerno. Gli italiani erano tutti arrivati negli Stati Uniti «senza essere consapevoli dell’esistenza della linea del colore. Ma impararono in fretta che essere bianchi significava riuscire a evitare molte forme di violenza e di umiliazione, assicurarsi, tra gli altri privilegi, l’accesso preferenziale alla cittadinanza, al diritto di proprietà, a un’occupazione soddisfacente, a un salario con cui si poteva vivere, ad abitazioni decorose, al potere politico, allo status sociale e a un’istruzione di buon livello».
È evidente l’importanza, per gli italiani d’America, di non essere accostati ai neri: un marchio terribile, soprattutto in alcuni Stati. «Gli Stati Uniti che gli immigrati italiani conobbero erano una nazione fondata su un processo di colonizzazione, espropriazione e schiavitù e pertanto percorsa da profonde fratture, causate da gerarchie di disuguaglianza basate sulla razza». Essendo rimasti poveri più a lungo della maggioranza degli altri emigrati europei, gli italiani vissero altrettanto a lungo fra i neri, nei quartieri più poveri degli Stati Uniti, sperimentando sia i privilegi dell’essere bianchi sia le discriminazioni razziali a loro danno. Accolti inizialmente come «bianchi», dovettero attendere a lungo prima di essere trattati davvero come tali.
Nel 1922, in Alabama, un uomo di colore accusato di miscegenation (mescolanza di razze) per avere avuto rapporti sessuali con una bianca venne assolto in quanto la donna «non era bianca, era italiana». I pregiudizi razziali venivano accresciuti persino dal presunto cristianesimo «pagano» degli italiani, con particolare sospetto sulla venerazione della Madonna nera di Loreto, il san Nicola nero di Bari, il Filippo nero di Agira, il san Zeno nero di Verona, il Cristo nero di Siculana, e il San Calogero nero tanto amato in Sicilia.
La situazione era più grave per i meridionali, considerati come un’«altra razza» anche dagli italiani del nord, che condividevano una comune convinzione nordeuropea per cui «l’Europa finisce a Napoli. Calabria, Sicilia, tutto il resto appartiene all’Africa». Una tesi simile, del resto, era sostenuta e in parte originata dai principali antropologi positivisti italiani, convinti che i meridionali «mediterranei», più scuri, fossero una razza diversa da quella dei settentrionali «ariani», più chiari: i primi avrebbero posseduto «sangue africano inferiore» e dimostravano di avere «una struttura sociale e morale e reminiscenze di un’epoca primitiva e perfino quasi barbarica»: dunque appartenevano a «una civiltà assolutamente inferiore». Simili idee attraversarono con facilità l’Atlantico e furono subito accolte dai bianchi nati negli Stati Uniti e dagli emigranti dall’Europa settentrionale, fornendo loro una facile spiegazione genetica per la violenza cui i meridionali sembravano maggiormente portati. Oltretutto non erano molti gli italiani - specie quelli del sud - a considerarsi tali. Le vicende dell’unità nazionale avevano lasciato indifferenti o ostili allo Stato nazionale i loro padri, nonni, bisnonni, e la loro fedeltà, il loro «senso della patria», riguardava soltanto compaesani e parenti.
In simili condizioni di sottoproletariato, aggravato dalle distinzioni razziali, non stupisce che quanti svilupparono attività o appartenenze politico-sindacali lo fecero nei gruppi anarchici o in quelli socialisti, per lottare contro lo sfruttamento ma anche - di conseguenza - contro il razzismo, il capitalismo, il nazionalismo, l’imperialismo. Finirono così, spesso, per aggravare la propria posizione: marchiati come sovversivi, criminali, o in entrambi i modi, spesso erano costretti a accettare lavori tipicamente «neri». E con i neri spesso familiarizzavano o si mobilitavano, venendo meno al rispetto della linea del colore e suscitando l’odio dei sostenitori della supremazia bianca. Uno dei protagonisti di Babbitt, romanzo di Sinclair Lewis pubblicato nel 1922, sostiene che i dago «devono imparare che questo è il paese dell’uomo bianco e che non sono desiderati qui». Dago e - ancora di più - guinea erano le definizioni di «italiano» che più accostavano i nostri emigrati ai neri.
Bollati in tale modo, dopo i casi di linciaggio avvenuti tra fine Ottocento e inizio Novecento, gli italiani subirono spesso una discriminazione ufficiosa ma non per questo meno infamante: come il rifiuto dei nativi americani di viaggiare sullo stesso tram e di vivere in case accanto alle loro; oppure l’esclusione dei bimbi italiani da scuole e cinema, mentre i loro genitori venivano esclusi da certi sindacati e associazioni. Persino in alcune chiese venivano segregati. Libri, riviste, giornali popolari e cinema favorirono la segregazione presentando spesso gli italiani come «razzialmente sospetti», e gli stessi rappresentanti del governo usavano il loro potere per registrare una differenza nell’aspetto fisico, ovvero catalogavano i nostri emigranti come «bianchi scuri» di «razza» italiana.
Furono moltissimi gli italiani che per liberarsi di simili pregiudizi dalle conseguenze drammatiche, cambiarono religione (25mila soltanto a New York nel 1918) e americanizzarono il nome. E fu a partire dall’implacabile esecuzione di Sacco e Vanzetti e dalle più note imprese di Al Capone che - comprensibilmente - gli italiani d’America sentirono più forte la necessità di essere riconosciuti come americani «bianchi» a tutti gli effetti. Allo stesso tempo - d’altra parte e per lo stesso motivo - sentivano il bisogno di essere riabilitati nella loro italianità. Determinante fu, in questo senso, il favore con il quale il governo di Washington vide l’insediarsi al potere di Mussolini e il progressivo stabilizzarsi del fascismo in un regime forte e filocapitalista. Mussolini, d’altronde, era prodigo di gesti amichevoli verso gli Stati Uniti, ma soprattutto di attenzioni (culturali e politiche) verso quegli stessi emigrati che il regime liberale aveva praticamente ignorato.
All’integrazione degli italiani giovarono anche grandi imprese come la trasvolata atlantica da Roma a Chicago, con 24 idrovolanti. Poi, il successo di italo-americani come Joe di Maggio, Frank Sinatra, Fiorello La Guardia ecc. (al riguardo è uscito nel 2004 Sinatra, Scorsese, Di Maggio e tutti gli altri, di Erik Amfitheatrof (Neri Pozza, pagg. 460, euro 18). Giovò agli italiani, soprattutto, il loro lavoro. Ma in un film di grande successo - Fa’ la cosa giusta, di Spike Lee (1989) - il protagonista nero, litigando con un pizzaiolo italo-americano, gli dice, allusivo: «Lo sai cosa si dice degli italiani di pelle scura, vero?»: si dice ancora che non sono del tutto bianchi.
«Il giornale» dell’8 luglio 2006
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