Lei non si è limitato a ripercorrere una cronologia. Perché ha posposto i poemi di Stròlegh (1975), Teater (1978) e L’angel (1994) a Isman (2003)? «È stato detto che le prime poesie erano epico-narrative mentre poi c’è stato un allontanamento nel lirico, e questo io non lo condivido. La critica tende a stabilire dei canoni, a dire che la poesia scritta prima dà adito a uno sviluppo. Volevo rompere questa sequenza. Anche nelle mie ultime poesie ci sono parti descrittive e sono convinto che in Stròlegh ci siano parti religiose come in Isman».
Perché ha scelto proprio il verso «aria de la memoria»?
«Due fondamenti del mio scrivere e del mio vivere, direi. La memoria non è solo fatto mnemonico degli eventi di una vita, ma vuol dire penetrare sempre di più dentro di sé e in quella memoria inconscia che è la memoria spirituale. A un recente incontro su poesia e politica ho incontrato Bertinotti che ha detto: "Io non sono un ateo, sono un uomo che cerca". La ricerca della verità è sicuramente dentro gli uomini che si mettono in movimento verso se stessi e il mondo, e questa ricerca è continua provocazione alla memoria, è un ricordare per conoscere. E l’aria perché da una parte è un elemento leggero, che non vediamo anche se respiriamo, ma dall’altra è uno spessore, un elemento tra le cose, tra l’uomo e l’altro uomo. E ha una dimensione spirituale perché è il tramite che abbiamo con l’aldilà. Ciò che non vediamo e non tocchiamo è al di là dell’aria».
I suoi versi civili sono invettive...
«L’uomo che meno cerca di conoscersi e capire se stesso, tende sempre a realizzarsi fuori di sé. E quindi le cose materiali e gli altri uomini diventano oggetti del suo potere. Questa trasformazione dell’uomo in oggetto, a servizio di qualcosa che è sempre fugace, è l’antitesi del farsi dell’uomo e del porsi in relazione. E questo m’indigna, tanto più quando è un’organizzazione ecclesiale che magari fa la stessa cosa, perché Cristo ha rifiutato sempre il potere».
Nelle invettive usa il turpiloquio che però, letto in milanese, comunica solo un focoso sdegno.
«Perché c’è un sacrosanto diritto dell’uomo incolto, che soffre, alla bestemmia. È stato anche detto che colui che bestemmia crede, altrimenti non bestemmierebbe: dentro ha un dolore, una passione dell’uomo. E questo non viene capito abbastanza da chi fa tacere il popolo quando bestemmia o addirittura lo redarguisce. Nominare il nome di Dio invano è molto più quello di una preghiera falsa che non quello della bestemmia, perché è la carne che è tutt’uno con lo spirito che soffre, e quindi questa sofferenza ti da diritto all’indignazione, alla rivolta contro il negativo che fa bestemmiare. Ha sempre bestemmiato il popolano, non bestemmia mai il signore, è vero o no? Perché il padrone bestemmia nella vita, bestemmia con il comportamento da sepolcro imbiancato. Ed è allora che Cristo prende la frusta, è l’unica violenza che fa nei Vangeli».
Debenedetti scriveva che il dialetto rende credibili parole che la lingua italiana ha reso desuete, parole come «onore, amicizia, lealtà».
«Perché acquisiscono un potere nella verità. Cos’è la poesia? Come dice Dante, "I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto", cioè ascolto e prendo nota. E questo è importantissimo, perché non è più l’io mentale dell’individuo che costruisce i versi, ma è l’Amore che lo muove dentro e gli fa dire non solo il contenuto ma anche il modo: "e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando"».
Quindi non è in forza del dialetto, ma dell’ispirazione.
«La poesia ha la forza straordinaria di dire come fosse la prima volta quella parola che è bestemmia o retorica nell’uso comune, perché mossa da amore, espressione di qualcosa che trascina l’uomo al dire. È questo che toglie ogni eleganza estetica. La poesia è proprio la parola vivente».
I dialetti sono ridotti a italiani cadenzati. Che ruolo sociale avranno nel domani?
«Mi son trovato a scrivere una lingua che sembrava morente e non so perché. La storia non va dove pensiamo mentalmente che vada. Il latino aveva sommerso le lingue orali degli osci, pelangi, galli… poi l’uomo, libero dal tallone dello Stato, si è rimesso di fronte alla fatica del vivere ed è rinata la lingua. E così non possiamo sapere come andrà quando cadrà l’impero americano, per non dire cosa succederà quando crolleranno gli Stati europei. D’altra parte, se vogliamo sapere come viveva la gente nel Cinquecento si legge il Folengo, non l’Ariosto o Tasso. Per capire la vita sotto il fascismo non si legge Ungaretti né Montale ma Delio Tessa; per sapere come si viveva nell’Ottocento non si legge Leopardi, che amo, ma il Belli e Porta. Anche se scompaiono le lingue parlate – ma non scompaiono, si trasformano – questo ha poco peso per la storia dello spirito umano, perché essa è la storia dei corpi e della terra, e viene fatta attraverso le testimonianze».
La sua poesia ha due motori, la lontananza e il movimento. In questa tensione l’uomo vive. Allora cosa ci minaccia?
«La perdita del senso della lontananza. Si ha la presunzione di aver conosciuto il reale e allora non si ha più la giusta distanza dell’uomo dalla natura, dagli altri uomini e da Dio. La parola indoeuropea sak vuol dire lontananza: il sacro o la pone o la riempie. La perdita di questo senso della lontananza è la perdita della possibilità di riempire la lontananza. Einstein dice che non si perviene alle leggi universali per via di logica: l’intuizione è possibile nel rapporto simpatetico con l’esperienza. E il rapporto simpatetico è il rapporto d’amore, torniamo al movimento d’amore che copre la lontananza».
Una sfida per le religioni? «Il mio amico Adonis ha detto che il monoteismo è violento e fa le guerre… dimenticando che né i romani né i greci erano monoteisti. È l’uomo che fa le guerre. E la perdita del senso dell’uomo fa arrivare a questi sproloqui».
«Letture» di aprile 2006
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