Dall'interventismo sovversivo del giovane Mussolini alle tendenze più eversive suscitate dall'impresa di Fiume: ecco come all'interno del fascismo lasciò un'impronta forte l'ala rivoluzionaria o "di sinistra", che guardava al sindacalismo d'inizio Novecento ispirato dalle idee di Sorel. Parla lo storico Buchignani
di Luca Gallesi
Con l'avvento dei totalitarismi la parte più radicale prefigurò una «terza via» legata al mito della nuova civiltà antiborghese. Fu poi Asor Rosa a intuire per primo gli sviluppi di questa idea nel comunismo del dopoguerra
La rivoluzione in camicia nera dello storico Paolo Buchignani, appena uscito da Mondadori (pagine 458, euro 20) fornisce una interpretazione complessiva del "fascismo rivoluzionario", un fenomeno nient'affatto minoritario, marginale o eretico, come a lungo si è pensato, ma centralissimo e per molti versi tale da costituire l'essenza del fascismo.
Professor Buchignani, a quali correnti di pensiero fa riferimento il "fascismo di sinistra"?
«Il fascismo rivoluzionario è figlio del sindacalismo soreliano di inizio secolo, del futurismo, dall'interventismo sovversivo del giovane Mussolini, delle tendenze più eversive del fiumanesimo. Di qui la sua carica rivoluzionaria, la sua volontà di costruire il "nuovo": un nuovo Stato, una nuova civiltà e un "uomo nuovo". Anche il fascismo autoritario e conservatore, originato dal nazionalismo di Enrico Corradini, si propone di dar vita ad uno Stato nuovo, ma questo Stato (edificato dal nazionalista Alfredo Rocco negli anni Venti è uno Stato di tipo prussiano, che si propone di garantire l'ordine borghese e di ridurre le masse a sudditi passivi e obbedienti. Non a caso è fieramente avversato dai rivoluzionari in camicia nera, fautori, viceversa, di una costante mobilitazione delle masse, composte da militanti attivi e fanatici agli ordini del Duce, al quale essi attribuiscono la loro stessa volontà rivoluzionaria».
Dal suo libro si evince l'idea di una rivolta generalizzata contro il corrotto stato borghese e liberale che all'inizio del Novecento attira i più vivaci intelletti delle più diverse tendenze: da Benito Mussolini ad Antonio Gramsci, da Piero Gobetti a Benedetto Croce. Era davvero così diffusa l'insofferenza verso il parlamentarismo giolittiano?
«Il fascismo affonda le radici sia nella "crisi della democrazia" che si manifesta in Europa a partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento, sia nel "radicalismo nazionale" italiano che si origina dal mito mazziniano del Risorgimento come rivoluzione inco mpiuta e tradita. Un mito che - come ha rilevato Emilio Gentile - ben presto subisce una metamorfosi: ossia, da critica alla classe dirigente liberale ed in particolare giolittiana (accusata di trasformismo, di corruzione, di mancanza di ideali) si trasforma in attacco sempre più virulento allo Stato liberale, al Parlamento, alle sue istituzioni. Un attacco concentrico, proveniente da forze diverse (da Oriani a D'Annunzio, da Gobetti a Gramsci, dai futuristi ai nazionalisti corradiniani) e che sarà infinitamente potenziato dalla grande guerra, tanto da risultare, alla fine, letale per le sorti della democrazia italiana».
La "rivoluzione in camicia nera" dei futuristi e degli squadristi si contrappone, nettamente e frontalmente, al fascismo reazionario e conservatore dei nazionalisti e dei monarchici. Qual è il ruolo di Mussolini?
«Negli anni Venti, quando deve consolidare il suo potere, Mussolini dà spazio al fascismo conservatore: fin dalla marcia su Roma si accorda con la borghesia, con la monarchia, con le forze tradizionali, e nel 1929 firma i Patti Lateranensi. Negli anni Trenta, viceversa, comincia ad edificare il totalitarismo e, di conseguenza, apre ai fascisti rivoluzionari, a coloro che vogliono dar vita alla "terza via", oscillando tra pragmatismo politico e mito della "nuova civiltà". Quali fossero le reali intenzioni del Duce non lo possiamo dire, perché l'esperimento fascista è stato interrotto dalla sconfitta militare».
Il libro si interrompe alla fatidica data del 25 luglio 1943. Significa che con questa data si conclude l'esperienza rivoluzionaria del fascismo?
«Il 25 luglio '43 si conclude soltanto una fase quella più importante) del "fascismo rivoluzionario". Questa vicenda prosegue in altri contesti: dapprima nella Rsi, poi, nel dopoguerra, sia all'interno del Movimento sociale italiano (in cui resiste molto a lungo una componente irriducibilmente antiborghese, repubblicana e antiamericana), sia, più in generale, all'i nterno del variegato mondo del neofascismo. Anche oggi, del resto, sopravvivono tracce cospicue del fascismo rivoluzionario persino nella stessa Alleanza Nazionale, dove non mancano certo simpatie per Berto Ricci, Edgardo Sulis o per un certo Mussolini. Da non dimenticare, infine, l'episodio dei Fascisti rossi di "Pensiero Nazionale", di cui mi sono occupato nell'omonimo volume mondadoriano del '98: ex fascisti rivoluzionari, reduci da Salò, che tra il 1947 e il 1953 aiutano il Pci a reclutare altri reduci dalla "rivoluzione in camicia nera"».
Quale ruolo ha l'esperienza del fascismo rivoluzionario nel neofascismo del dopoguerra?
«Per quanto riguarda gli intellettuali, gli scrittori, gli artisti, il discorso sarebbe lungo e complesso, impossibile da affrontare in questa sede. Mi limito a ricordare come già quarant'anni fa, in un libro famoso, Scrittori e popolo, Alberto Asor Rosa metteva in luce la continuità profonda esistente, al di là delle mutate etichette, tra il neorealismo fascista degli anni Trenta e quello antifascista e filo-comunista del secondo dopoguerra. Dal mio studio emerge un fatto, che mi sembra, almeno in parte, smentire la tesi di Ruggero Zangrandi, secondo il quale, come è noto, gli intellettuali della sua generazione avrebbero compiuto un "lungo viaggio attraverso il fascismo". A me questo "viaggio" (specialmente per i "fascisti rivoluzionari" approdati al comunismo) è sembrato "breve": il passaggio da un totalitarismo rivoluzionario, antiborghese, antiamericano, populista ad un altro di segno diverso ma in realtà molto simile; il cercare la stessa rivoluzione sotto altre insegne, secondo un percorso sollecitato da Togliatti e dal gruppo dirigente del Pci fin dal celebre appello ai "fratelli in camicia nera" dell'agosto 1936».
«Avvenire» del 7 luglio 2006
Sul medesimo libro puoi leggere altri due articoli
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