Di Adriano Prosperi
L’invito a rileggere il processo a Galileo spicca nel programma del convegno fiorentino che si chiude oggi ad Arcetri. È un invito da prendere sul serio. La ricorrenza centenaria di quello straordinario 1609 quando Galileo passò le notti a guardare il cielo col cannocchiale ha certamente qualcosa da dire al nostro presente. Quello fu un momento altissimo della cultura italiana nella fase matura della sua egemonia europea, come documenta la splendida mostra fiorentina curata da Paolo Galluzzi. Ad esso seguì un precipitoso declino. Anche a causa di quel processo, col quale, scrisse John Milton, la censura ecclesiastica «spense l’ardore dell’ingegno italiano». Si chiudeva il processo a Galileo, si apriva quello alla Chiesa . Oggi sono le autorità della Chiesa cattolica a difendersi, parlando di un «malinteso», di una «reciproca incomprensione» (così papa Wojtyla), di un problema del rapporto «tra ragione e fede», come scrive l’attuale arcivescovo di Firenze. Fede e Ragione, Chiesa e Ricerca: grandi parole, frastornanti per chi vuol capire che cosa accadde allora. Per questo bisogna rileggere i documenti. Davanti alle carte processuali si è presi come da una vertigine pensando alla storia che documentano e a quella che hanno creato. Una storia non di avventure, di fede e di passione, come avrebbe detto Benedetto Croce, ma piuttosto di violenze e di astuzie, di volpi e di leoni. Astuzia di Galileo, per esempio. Aveva a che fare con poteri occhiuti e sospettosi. Perciò si tutelò con ben due «imprimatur» nel pubblicare il suo Dialogo: il che mise in imbarazzo i giudici e dette al processo un andamento peculiare. Il potere gli si presentò coi modi vellutati del gesuita Bellarmino nell’incontro del febbraio 1616, quando il cardinale cercò di convincere quel brillante professore a dissimulare la sostanza della sua scoperta. Ma la violenza dei nemici - tanti, per l’odio che sempre si scatena davanti alla vera creatività - era già nell’aria se, come sembra, è autentico il discusso documento dell’intimazione del Commissario Segizzi su cui il processo del 1633 fece leva. Il processo, un testo di inesauribile fascino drammatico, all’altezza delle massime espressioni del teatro barocco, si concluse come doveva. Galileo si arrese alla forza mascherata di diritto: «Son qua nelle loro mani, faccino quello li piace». Il fascicolo fu riposto nell’archivio del Sant’Uffizio, il carcere-tribunale più antico di tutta Italia, un vero monumento storico dell’immobilità del potere nel paese più ballerino e traballante d’Europa. Ci vollero le armate di Napoleone per farlo uscire da lì. Quello che se ne seppe fu solo la sentenza di condanna, inviata a pochi e ben mirati destinatari. In Italia i professori lessero e giurarono. Lo stesso fecero quasi tutti i loro eredi del secolo scorso, negli anni dell’abbraccio fra regime fascista e Santa Sede. Riflessi condizionati. Su questi precedenti si basano i tentativi che ancora si fanno da noi di imporre vincoli di legge a chi cura gli immigrati , i malati, i morenti. Oggi su queste carte antiche si tenta di aprire un processo nuovo: non più quello di rito inquisitorio, della rigorosa ricerca della verità, ma quello di rito accusatorio in cui il giudice media tra due contendenti . Al posto di Galileo che voleva che la terra si muovesse c’è oggi la Scienza. Al posto di papa Barberini che la voleva immobile c’è la Fede, candida e benevolente. È tra questi due contendenti che si vuole cercare l’accordo. Ma, come sono in genere i patteggiamenti che nei tribunali permettono di beffare la giustizia, anche questa offerta di accomodamento sembra piuttosto truffaldina. La fede, quella con la minuscola, non c’entra, non è una istituzione, è una cosa che ha tante forme quanti sono gli esseri umani. C’entra la Chiesa come potere, quel potere che in Italia ha fatto di ogni riformatore un eretico. La «reciproca incomprensione» è una formula adatta alle liquidazioni di incidenti automobilistici per «concorso di colpa». E la colpa di Galileo è una sola: a lui si dovette la sconfitta del sistema di potere che saldava filosofia aristotelica e geografia tolemaica nel disegno di un mondo chiuso sotto il sigillo simbolico del Libro sacro affidato da un Dio al di sopra delle nubi a un Vicedeo in terra. Quel fatto è incancellabile. Dagli orizzonti di allora il mondo si è allontanato quanto da noi si allontananoi satelliti che portano il nome di Galileo tra le stelle.
«La Repubblica» del 30 maggio 2009
Nessun commento:
Posta un commento