Con il passare degli anni soprannomi e sberleffi cedono il posto a battute da avanspettacolo
di Fernando Proietti
di Fernando Proietti
Se Caino e Abele sono alla genesi del delitto, non si è mai trovato il colpevole che nella contesa politica per primo usò l'arma sferzante del nomignolo per ferire l'avversario. Alcuni sospetti, caduti sul sommo Dante, non hanno trovato riscontri sicuri. Certo è che già nel Quattrocento al povero Piero de' Medici, spesso costretto a letto da un'invadente uricemia, i fiorentini non risparmiarono, in sovrappiù a sua Signoria, un indelebile «il Gottoso». Che per stare all'oggi, nella retorica dell'offesa, equivale a «il Gobbo» per Andreotti. Tradizione antica e popolaresca, dunque, quella di irridere l'avversario con parole che esprimono (o sottintendono) giudizi pesantemente negativi e irridenti. A volte anche un vezzeggiativo, il confidenziale e allusivo Papi, con cui la Noemi di Casoria ha voluto ribattezzare l'incauto Berlusconi, può avere effetti a dir poco opposti e indesiderati. Già, sosteneva Novalis: «Ogni parola è una parola di evocazione. A secondo dello spirito che chiama, uno spirito appare». Uno spiritello magari sotto forma di complotto? Del resto, aggiungeva Jorge Luis Borges: «L'uomo della strada indovina la stessa professione della madre di ogni passante». Tant'è. L'arte dell'insulto politico attraverso lo sfregio linguistico (soprannome, calembours, doppi sensi e giochi di parole) è stata la forma più antica e riparata di protesta popolare. Basti pensare a Pasquino nella Roma papalina.
Una vera e propria epidemia di nomignoli, insomma, ha scandito anche i Ventenni che si sono susseguiti in Italia. Da Mussolini, detto il Mascella, a Berlusconi, passato in fretta da Sua Emittenza a Caimano, il Belpaese forse è più riconoscibile anche dai soprannomi di Lor Signori. A volte l'investitura è diventata una sorta di sintesi biografica: l'Avvocato (Agnelli), l'Ingegnere (De Benedetti), il Contadino, (Gardini). E a dare ascolto a Groucho Marx, le caricature verbali servono pure a misurare il «tasso di Sodoma-Gomorra» di un Paese. Già, perché da donna Rachele Mussolini a Veronica Lario, altra costante storica degli «Italici piangenti» (Gaio Fratini) il frusciare delle lenzuola spesso ha fatto da colonna sonora alle vicende più segrete degli inquilini mascherati del Palazzo. Altro che «tintinnio di sciabole» del golpista De Lorenzo, che tanto spaventarono Antonio Segni. Proprio lì al Quirinale dove Re Vittorio Emanuele III, a causa della sua bassa statura, si era conquistato il titolo assai poco nobiliare di Sciaboletta. Caduto il tiranno, ma già qualcuno invocava: aridatece er Puzzone (Mussolini), in quei primi anni euforici succedutisi alla Liberazione — quando lo Zio Sam simboleggiava ancora gli Usa, e l'Urss era incarnata dal tiranno Baffone (Stalin) —, dalle urne spuntò un altro Crapun, De Gasperi. Ecco l'Italia democristiana e bacchettona (la Balena bianca). «L'era pro nobis» o «M'illumino d'incenso». Tanto tuonò in quella tempesta elettorale che di lì a poco la grandine del pettegolezzo si abbatté devastante sui Palazzi romani. Provocando il primo scandalo della serie «letto e potere»: il caso Montesi.
E sul palcoscenico gossipparo apparvero il Cigno Nero (Anna M. Caglio). La testimone che aveva incontrato il marchese Ciccio Patana Mio (Ugo Montagna), nell'anticamera del vecchio ministro Spataro (dimissionato). «Il successo fa scandalo/ lo scandalo fa successo», motteggiava il Signore di Mezz'età, Marcello Marchesi. Altri tempi, altri nomignoli. Nella via Veneto della «Dolce vita», intanto, gli intellettuali animati da Maccari (il Supercortomaggiore), Longanesi (il Carciofino sott'odio), Flaiano (il Redattore cupo) e Talarico (il Lepre), si sfidavano tra di loro con abili e sottili giochi di parole; con nomignoli al curaro, che passeranno alla storia delle patrie lettere. Neppure la politica era risparmiata. A Montecitorio il polemista del Pci, Giancarlo Pajetta era ribattezzato: l'Acido russico. Chiosava da par suo Longanesi: «Non sono le idee che mi spaventano, ma le facce che rappresentano queste idee». Gli faceva eco Fratini: «Governi pendolari/ monocolori a vela/ governi di convergenza parallela/ tra il giovedì grasso e le ceneri...». L'aveva vinta, insomma, quella leggerezza invocata da Italo Calvino contro «la peste che colpisce anche la vita delle persone». Da anni ormai nell'arguta contesa di parole la mannaia ha sostituito il rasoio affilato di un Arbasino o dell'impertinente Roberto D'Agostino a cui si deve, tra gli ultimi nomignoli, il sublime Su-Dario Franceschini. La creatività e l'originalità della battuta, insomma stanno scivolando sul terreno militante del grossolano umorismo caricaturale d'antan. Solo battutacce e soprannomi d'avanspettacolo. Così, se a Berlusconi sono toccati Al-Tappone e Testa d'Asfalto, per par condicio a Prodi è stato rifilato un rozzo Er Mortadella. Della serie, insomma: er più pulito c'ha la rogna. Alla vigilia di Tangentopoli (era dei «nani e ballerini») non era andata meglio sia a Craxi (il Cinghialone) sia a De Michelis (Avanzo di balera). Su De Mita si esercitò con perfidia Gianni Agnelli definendolo un «Intellettuale della Magna Grecia». Il mite Forlani fu tramutato in Coniglio Mannaro. Nella «lite delle comari» tra Andreatta (Dc) e Formica (Psi), il primo diede del Commercialista di Bari al collega di governo. Che, di rimando, lo nominò a Comare-Lord dello Scacchiere. A guardare lo scenario odierno, non si può non provare un pizzico di nostalgia per gli stessi nomignoli dei protagonisti delle tangenti alla amatriciana: dallo Squalo (Sbardella) a Er Monaco (Giubilo). Con i loro inquietanti nomi di battaglia. Autentici, però, come le loro gesta malandrine.
Diceva Ennio Flaiano: «La lingua si arricchisce anche con gli apporti volgari, ma è anche vero che la lingua si guasta quando la volgarità non è schietta, vorrei dire popolana, ma compiaciuta e ammiccante...». Oggi di plebeo, nel senso di contributo alto «dal basso», c'è ben poco nel campo della satira politica. La battuta, il nomignolo, lo sberleffo o la freddura, le contaminazioni linguistiche rischiano allora, parafrasando il filosofo Arthur Schopenhauer, di ridursi soltanto in «calunnie abbreviate».
«Corriere della sera» del 29 giugno 2009
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