Una riflessione che, in tempi non sospetti, evidenziava l'ispirazione gnostica dell'abortismo-ideologia mettendo a fuoco il reale obiettivo (consapevole o meno) delle campagne per la legalizzazione dell’aborto: scardinare l’ordinamento giuridico dalle sue basi etiche.
di Vittorio Mathieu
Il fenomeno che mi propongo di considerare non è la pratica dell’aborto, bensì la rivendicazione del diritto di praticarlo presentata da movimenti ancora ristretti, ma non per questo meno significativi. Questa rivendicazione e il fenomeno nuovo, rivelativo di un sottofondo che solo in parte è chiaro, forse, agli stessi protagonisti. Le interruzioni volontarie della maternità ci sono sempre state, e anche se oggi fossero molto più frequenti di un tempo la circostanza non sarebbe decisiva. Del resto è verosimile che in questo campo le cifre siano ancor meno attendibili che in altri; atte a confermare la teoria di Mark Twain, che suddivide le menzogne in tre classi di gravità crescente: piccole menzogne, grandi menzogne, statistiche.
Se una donna abortisce è comprensibile che non lo vada a raccontare; ma oggi pare accertato, qualche volta, anche il contrario: donne che non avevano abortito affatto, lo sono andate a raccontare. Ora, la novità che colpisce, e che, mi sia lecito dire, allarma più del fatto stesso, è appunto questa: che del fatto si faccia una bandiera. Bandiera di che cosa? Sembra abbastanza chiaro che il trauma fisico è divenuto un pretesto; e, probabilmente, ciò che si nasconde sotto questo pretesto è molto più importante del trauma stesso, per quanto grave esso sia in sé. Facciamo un paragone con un problema apparentemente lontano e, tuttavia, forse non senza legami con quello che ci occupa: l’adulterio. Vi sono state e vi sono società, o almeno ambienti sociali, che non solo tollerano l’adulterio, sia dell’uomo, sia della donna, ma lo incoraggiano con diversi generi di pressione: in particolare col considerare come cosa di poco buon gusto il rifuggirne, salvo che uno voglia distinguersi per la sua eccentricità. Può tuttavia accadere — anzi, è quasi sempre accaduto e, a volte, accade ancora — che queste medesime società non cessino affatto, per questo, di considerare l’adulterio come una colpa e come un reato insieme, e che, quantunque rare siano le volte che questo reato è punito, non invochino per questo la prescrizione estintiva. Se vogliamo essere scettici fino in fondo, può darsi che lo facciano perché temono che, insieme con la proibizione, venga meno una delle attrattive: ma il fatto resta.
A questo punto si può essere tentati di compiere un passo breve, quasi insignificante. Si può dire: prendiamo atto della situazione e, visto che le cose stanno così, cancelliamo l’adulterio dal novero dei reati. Condannare moralmente e giuridicamente un uso che si tollera, se pure non si incoraggia, è ipocrisia. Allora perfino chi depreca quell’uso può restare persuaso da un tal discorso, e considerare che l’ipocrisia, lungi dal salvare la situazione, la aggravi. Ma la verità è molto diversa: quel piccolo passo, tutt’altro che insignificante, porta una differenza immensa. In superficie non cambia nulla, e può darsi perfino che porti a un miglioramento; ma rispetto ai principii turba i costumi più di mille infrazioni impunite. È il manifestarsi, nella forma e nella misura in cui può manifestarsi, di una rivoluzione.
Di chi e l’ipocrisia?
Questo dell’ipocrisia è un punto molto importante anche per il nostro tema, e quindi conviene fermarcisi su. Si dice: è inutile punire sulla carta un reato, quando tutti sanno che è compiuto continuamente senza sanzione. È ingiusto colpire qualche sfortunato incidente, dovuto a ignoranza o a mancanza di mezzi, quando basta passeggiare per i quartieri alti di una città per scoprirvi una quantità di piccole cliniche dove e improbabile che qualcuno vada a farsi asportare un tumore o a richiedere il trapianto di un rene.
In realtà, il discorso sull’ipocrisia va esattamente rovesciato. L’ipocrisia non sta dalla parte di chi vuol conservare un principio pur sapendo benissimo che è continuamente violato; l’ipocrisia, sia essa inconsapevole o calcolata, e di chi pretende di abolire il principio e, in ultima analisi, qualsiasi principio, col pretesto che non trova più rispondenza nel costume. Poiché non d’altro che d’un pretesto si tratta.
Coloro che si appellano al costume per chiedere che si abolisca una norma presuppongono, tacitamente o no, che si tratti di una norma meramente positiva, o di una consuetudine dipendente da circostanze mutevoli. Se si trattasse di un principio inderogabile, invocare una prescrizione estintiva sarebbe vano. Ora, quando si attaccano con quel pretesto principii che la legislazione può, bensì, riconoscere o non riconoscere, ma la cui validità, in ogni caso, non dipende dal fatto che il legislatore li riconosca, l’obiettivo reale non è più di abbattere questa o quella norma singola, questo o quel divieto: è di mostrare precisamente che non esistono principii del tipo che s’e detto, divieti che il diritto oggettivo debba semplicemente riconoscere e far suoi, senza che la loro validità dipenda da tale riconoscimento. Il presupposto, tacito o manifesto, è che esistano solo statuizioni arbitrarie, dipendenti da un condizionamento storico che, in ultima istanza, si fa sentire attraverso la volontà del legislatore. Ogni statuizione, di conseguenza, potrà mutare, alla sola condizione che muti la volontà del legislatore. Equivalente edulcorato, ma tutt’altro che emendato, dell’affermazione che la legge non è che la volontà del più forte: una dottrina formulata già con molta chiarezza dai sofisti del IV secolo avanti Cristo, e che non muta in nulla per essere oggi riformulata con le tecniche più raffinate del giuspositivismo. Senonché la volontà del più forte non è altro che un fatto: e se la legge si riduce alla volontà del più forte, e non c’è altro diritto che questo, il diritto non si distingue più dai fatti, e non può più pretendere di regolarli. Questo, a mio parere, è il punto a cui veramente si vuole arrivare, quando si invocano certe prescrizioni estintive.
Spieghiamoci con un esempio. Sarebbe certo plausibile invocare la prescrizione estintiva contro il divieto di circolare a più di cinquanta chilometri all’ora negli abitati, dal momento che tale norma è violata senza sanzione milioni di volte ogni giorno. Ma, questo, perché quel limite è pura convenzione. Per contro la norma di mantenere in ogni circostanza una velocità presumibilmente non pericolosa per sé e per gli altri, pur potendo essere richiamata esplicitamente anche nella legge, è un principio che non dipende punto da questa, e che sussisterebbe anche in assenza di ogni legge, non si prescriverebbe quand’anche tutte le strade fossero percorse continuamente da orde di crazy drivers. Pretendere prescritta questa norma, sarebbe pretendere abolito il diritto. Cominciamo così a vedere dove punti l’ipocrita discorso sull’ipocrisia. Non a mutare questa o quella norma invecchiata, bensì ad attaccare principii necessari, per mostrare che non vi sono punto principii a cui la legislazione debba tassativamente ispirarsi, perché tutto dipende da convenzioni, storicamente variabili. Quando si pensa, come in Olanda, di cancellare dalla lista dei reati la detenzione e l’uso personale di stupefacenti, chiamati dolci (soft), col pretesto che è impossibile perseguire per questo centinaia di migliaia di persone del resto incensurabili, il discorso è palesemente diverso da quando si parla di abolire, ad esempio, un limite convenzionale di velocità. Poiché se fosse illecito per principio comportarsi in modo da divenire prima o poi, per sé e per gli altri, un pericolo molto peggiore che la morte, l’impossibilita di fatto dei pubblici poteri di fare rispettare la norma con sufficiente frequenza sarebbe irrilevante, rispetto al dovere di includere quel divieto nella legislazione. La bancarotta proclamata con quel pretesto dai pubblici poteri sarebbe bensì reale, ma non per questo meno fraudolenta, consistendo la frode nel far credere che, poiché molti, moltissimi o anche quasi tutti si comportano ormai in un modo che un tempo si considerava illecito, tutto si riduca a un mutamento storico nel sentire della generalità, a cui il diritto dovrebbe adeguarsi. La frode sta nel mascherare la vera conclusione a cui si vuole arrivare, dietro a una verità indubitabile. È verissimo, infatti, che una norma non è pensabile come norma giuridica se non conserva una qualche efficacia: ma se la norma divenuta impotente, o comunque non rispondente al costume, è una norma necessaria, e la legislazione non è più in grado di farla rispettare, ciò significa, semplicemente, che su quel punto il diritto ha cessato di esistere, e la società non è più in grado, per mancanza di volontà o di mezzi, di imporlo. Sicché la difesa del diritto alla vita va ben oltre il suo pur doveroso oggetto immediato: si iscrive infatti in una più vasta e non meno urgente difesa del diritto, della stessa esistenza e possibilità del diritto in quanto tale, e non solo del diritto alla vita.
Attentati al diritto
Senza dubbio in ogni legislazione vi è un gran numero di norme antiquate, non necessarie o dannose che, siano o no disattese di fatto, si potrebbero con gran vantaggio mutare. Se lo scopo fosse di ammodernare il diritto, su quelle converrebbe puntare. Invece non accade mai che un grande movimento d’opinione si scateni contro norme effettivamente arbitrarie, e batta in breccia i passatisti su quei punti, dove non avrebbero modo di difendersi. Nessuna crociata, nessun cartello, nessuna vittima pronta al martirio per abolire le norme che regolano la privativa del sale, o le imposte comunali di consumo; nessuno o quasi che le qualifichi come anacronistiche, medievali, antieconomiche, antisociali, come infatti sono.
È molto se, dopo secoli, qualche considerazione puramente tecnica riesce a farsi luce. Al contrario, tutti gli sforzi mirano ad abolire norme che, a torto o a ragione, si pensa per lo più che dipendano da principii superori alla legislazione medesima. Ciò sembra strano, ma è perfettamente spiegabile se il proposito non è già di ammodernare, bensì di scalzare il diritto. Allora occorre attaccare quelle norme che, bene o male, esprimono un principio necessario e non mutevole del diritto: un principio senza il quale il diritto è impensabile. Ciò che si vuole, infatti, è appunto questo: che il diritto risulti impensabile. Abbattute queste norme, la conclusione, lo si dica o no, non sarà che il diritto è mutato, bensì che ha cessato di esistere. Le leggi si saran ridotte a espressioni generiche di una volontà meramente utilitaria, come sosteneva, ad esempio, Benedetto Croce. Ed è questo, precisamente, ciò che si maschera in molti casi — sebbene non in tutti, è ovvio — dietro il proposito di adeguare la legislazione ai mutamenti di mentalità e di costume. Si finge — parlo sempre di una finzione per lo più inconsapevole e per dir così freudiana — di voler modificare norme disattese per renderle aderenti al concreto, ma si scelgono, non per caso, norme la cui caduta implichi la caduta totale del diritto, perché questo è lo scopo.
A volte lo spunto è tratto da materie meno tragiche, come l’adulterio, altre volte da materie più tragiche come l’aborto o gli stupefacenti, ma dietro c’è un unico disegno, coerente e radicale, anche se spesso inconscio, di contestare l’esistenza stessa del diritto come principio regolatore della vita dell’uomo.
Non dimentichiamo che, se per molti di noi la fine del diritto coincide con la fine dell’uomo, per altri — e oggi sono moltissimi — la fine del diritto sarebbe la rinascita dell’uomo, essendo l’ordinamento giuridico qualcosa di esterno, dunque di oppressivo, qualunque esso sia. Questa lotta contro il diritto oggi è condotta anche a viso aperto: e meglio sarebbe se fosse sempre così. Ma spesso essa si vale di ausiliari che la mascherano dietro il pretesto, assai plausibile, di rendere più moderna, più umana, più aderente alla realtà la legislazione; o anche dietro il pretesto, molto meno plausibile, di amministrare le stesse leggi vigenti in modo da piegarle in una direzione su cui il diritto non può che trovare la morte. Consapevole o no, questo è ancora un mascheramento. E il mascheramento è favorito, senza dubbio, dall’isolarsi della sfera giuridica dall’insieme della sfera morale: processo utile, anzi tecnicamente necessario, ma che offre il destro a qualsiasi sofisma, se non si tiene conto dei limiti entro cui quell’astrazione deve valere. Tutto ciò porta a quell’interpretazione del diritto come pura convenzione che riconduce il diritto alla forza: poiché solo dalla forza dipende la scelta di una convenzione piuttosto che di un’altra. Ed ecco attuarsi una distruzione tecnica del diritto, non più distinto dal fatto, meno pittoresca ma più efficace di quella che e perseguita, ad esempio, da una parte della contestazione giovanile.
Il boomerang puritano
Studiare il diritto come un sistema chiuso è come studiare in fisica un processo adiabatico: è un procedimento necessario; ma sarebbe illegittimo concludere che esista un diritto isolato dalla morale, come sarebbe erroneo supporre che in natura esistano trasformazioni adiabatiche. Cosi nel caso che ci interessa, si dice: il divieto di interrompere a proprio arbitrio la maternità può rimanere, non più in dipendenza dal diritto, bensì dalla morale. Senonché il rescindere del tutto la sfera giuridica da principii di questa specie, col pretesto che essi possono continuare a valere nella morale, porterebbe, non so se a vanificare la morale, ma certo a vanificare il diritto: che e appunto ciò che desiderano coloro che escludono norme giuridiche non convenzionali, bensì eticamente necessarie.
Codesta tendenza a sopprimere il diritto trova, poi, un alleato non meno prezioso nel rigorismo puritano. Questo può definirsi un atteggiamento che considera come assolutamente intollerabile l’eventualità che il comportamento si scosti dalla norma. Allora, per evitare un fatto così intollerabile, si possono seguire due vie: si può, in certi casi, premere sul comportamento perché rispetti la norma; ma si può anche, per quanto a prima vista appaia paradossale, premere sulla norma perché si adegui al comportamento. E poiché, per tutto un complesso di ragioni, in ciò che ha attinenza col sesso è difficile premere con efficacia sul comportamento, appunto qui è accaduto più di una volta che in nome del rigorismo si premesse sulla norma: si premesse sulla norma fino a distruggerla. La storia delle correnti catare e puritane è ricca di esempi, solo fino ad un certo punto paradossali, di un loro rovesciarsi in forme di libertinismo e, infine, di anomismo assoluto. Modificando o abolendo la norma si ottiene infatti, non importa a che prezzo, che il comportamento non si scosti più da essa.
Non c’è dubbio che anche l’aspirazione ad abolire il divieto di interrompere ad arbitrio la maternità rientri in questa più generale tendenza, che dal Nord dell’Europa sta rifluendo verso i suoi luoghi di origine, in una civiltà come la nostra che, per molti aspetti, torna a meridionalizzarsi e ad orientalizzarsi. Novità che sembrano venire da settentrione, sono, in realtà, il rifluire di tendenze antichissime medio-orientali, che ritornano per quella via.
Un principio lasciato a metà
Il caso dell’adulterio, quanto a questo, è esemplare. Per una mentalità catara e puritana esso è assolutamente intollerabile. Ma poiché non è facile modificare su questo punto le inclinazioni degli uomini, e neppure delle donne, ecco che si modifica l’istituto matrimoniale. Se una semplice telefonata all’ufficio di stato civile può annunziare unilateralmente un divorzio, e un’altra, consensuale, un matrimonio, ecco che quel problema, apparentemente cosi difficile, di evitare che si commettano adulteri, almeno in teoria, è risolto. Poiché il peccato originale, o i suoi surrogati laici, possono bensì impedire ad un uomo di resistere alle tentazioni della carne, ma non possono impedirgli di fare un paio di telefonate. Qualcuno crederà che io scherzi: ma in paesi settentrionali siffatti snellimenti del rito sono allo studio; e non c’è dubbio che, in luogo di quella specie di sacerdote che è l’ufficiale di stato civile, all’altro capo del filo apparirà più razionale installare il terminale di un computer, che immagazzini nella propria memoria gli scambi matrimoniali con la stessa rapidità con cui il nostro casellario fiscale centrale dovrebbe registrare le transazioni di affari. A questo punto ad evitare l’adulterio basterà un po’ di buona volontà, anche se alcuni penseranno che sia una buona volontà sprecata, del matrimonio non essendo rimasto altro che il nome.
Questo è ciò che mi son permesso di qualificare come ipocrisia: questo svuotare il diritto fino ad annientarlo, sotto la maschera del renderlo aderente alla realtà e praticabile. Ma questo non è tutto: perché puntare precisamente sulla legalizzazione dell’aborto, e non su altro, per mettere in forse i principii? La scelta manifesta altre spinte e moventi profondi, oltre a quello, comune a vari movimenti d’opinione, di abolire il diritto. Lo si può costatare notando una sua caratteristica: essa rovescia, per certi aspetti, la direzione più comune dei paradossi morali.
Il filosofo morale, infatti, è abituato a paradossi che, se urtano il senso comune, piacciono almeno per la loro radicalità. I paradossi degli stoici, come quello che sarebbe ugualmente grave uccidere un cittadino o una gallina, erano argomento di piacevoli discussioni nell’antichità, perché portavano unilateralmente un principio alle sue estreme conseguenze, e appunto perciò davano scandalo alla coscienza comune. Ma il caso dell’aborto è l’opposto, esso rifugge dalle estreme conseguenze, e il filosofo morale vi trova un diverso motivo di scandalo: un principio lasciato a metà. Un aborto è, per antonomasia, una cosa non portata a compimento; e che proprio di questo si faccia una bandiera, a tutta prima non può non lasciare perplessi.
Il rigorismo kantiano
Delle due l’una. O la soddisfazione dell’istinto genetico ha da essere isolata, per ragioni di opportunità, dal suo fine naturale che è la procreazione, e allora sembrerebbe plausibile provvedere a monte, ed evitare che le donne si trovino nella necessità di abortire. O, al contrario, considerato che tutti i mezzi che evitano il concepimento fanno violenza, in un modo o nell’altro, alla natura, si vuole che il processo naturale segua il suo corso, pur escludendosi di poter nutrire ed educare tutti i bambini che naturalmente verrebbero al mondo: e allora la soluzione, radicale e naturale insieme, sarebbe di lasciare che la donna porti a termine la gravidanza — con giovamento, tra l’altro, per la sua salute — e provvedere a valle, con l’infanticidio. Forse che, per scalzare il diritto e urtare la coscienza comune, l’infanticidio non avrebbe gli stessi vantaggi dell’aborto? In più, la natura sarebbe rispettata e, con essa, la coerenza. La Rupe Tarpea suggerisce associazioni popolari, sebbene non controllate, in questa direzione. E a chi obiettasse che — a parte le ben diverse motivazioni — il ius vitae et necis appartiene ad età lontane, posso rispondere citando Emanuele Kant, il quale a proposito del cosiddetto infanticidio d’onore così si esprime: «Il bambino venuto al mondo fuori del matrimonio è fuori della legge e, di conseguenza, è anche fuori della protezione della legge. Egli si è, per dir così, insinuato nella società civile come una merce proibita, e la società civile può ignorare la sua esistenza e, conseguentemente, anche la sua distruzione». Kant pensa pur sempre che l’infanticidio d’onore sia meritevole di punizione, ma, parrebbe, non da parte della società civile: perché, in tal caso, la società civile non potrebbe ignorarlo. Per Kant, che è un rigorista, irrogare la pena è un dovere stretto, tanto che tre pagine prima egli aveva detto: «Quand’anche la società civile si sciogliesse col consenso di tutti i suoi membri, l’ultimo assassino che si trovasse in prigione dovrebbe prima essere giustiziato, affinché ciascuno porti la pena della sua condotta, e il sangue versato non ricada sul popolo che non ha reclamato quella punizione».
Ebbene se l’infanticidio e scusato qui da un filosofo sul piano giuridico come un modo, in verità assai curioso, di salvare l’onore, non potrebbe essere giustificato da altri filosofi con altri motivi analoghi a quelli per cui le rondini buttano fuori dal nido i piccoli che non riescono a nutrire? Questo fenomeno osservato da Kant in tarda età, lo avrebbe indotto, secondo la testimonianza del suo biografo Wasiansky, ad esclamare: «Es ist ein Gott» (c’è un Dio). Eppure la campagna per la legalizzazione dell’aborto rinuncia al vantaggio di coerenza che le deriverebbe dal trasformarsi in una campagna per la legalizzazione dell’infanticidio. Quale può esserne la ragione? Perché, trascurando le possibilità estreme, punta su una soluzione intermedia che non salva né la capra, né i cavoli, né la natura né i principii?
L’esigenza di una soluzione più radicale, in verità, è ben sentita da circoli femministi più spinti (dal punto di vista del costume), che giustamente respingono l’aborto, lecito o illecito che sia giuridicamente, come un rimedio non meno lesivo della donna di qualsiasi altro proposto alla sua soggezione. Questi circoli si sono resi conto che, fin quando si ammetta a fatti una disimmetria tra i sessi non importa quanto negata a parole, una questione della donna esisterà sempre: di conseguenza, caldeggiano un tipo di rapporto erotico — che sarebbe improprio, ormai, chiamare sessuale — per cui non si pone neppur più il problema di evitare il concepimento. Anziché a valle, la natura sarebbe questa volta salvaguardata a monte: ma a monte, addirittura, di quella caduta dell’uomo che e simboleggiata nel racconto del peccato originale, poiché, secondo una ben nota interpretazione gnostica e neognostica, dal peccato originale dipenderebbe, insieme con la perdita della genuina natura, anche lo staccarsi di un sesso dall’altro. Senza che chi professa quella soluzione spinta, in pratica, lo sappia, in essa ritorna l’antica concezione dell’androgino divino, inteso come vera natura originaria dell’uomo: natura che senza dubbio per il momento siamo in grado di ritrovare solo in forme imperfette ed allusive, ma che in ogni caso ci dà la direzione in cui guardare per sfuggire alle conseguenze deleterie di quella che Von Baader, nel secolo scorso, chiamò la Entzweiung, o lo spalarsi dei sessi. Per quanto aberranti rispetto alla comune coscienza queste proposte hanno, per lo meno, il pregio della coerenza e di una profonda, anche se inconsapevole, significatività metafisica: due cose che all’aborto sembrano completamente mancare.
Diritto fondato sul desiderio?
Eppure c’è, a mio parere, una ragione per cui una parte più o meno grande del movimento per la liberazione della donna ha preso di mira, sia pure come momentaneo e falso scopo, quella soluzione intermedia: ed è che essa urta il meno possibile il sentimento. Non urta il sentimento di chi ama, che può trovare espressione nelle forme consuete della natura che conosciamo, anziché nella natura originaria di un androgino fantasticato dalla mente di visionari. Non urta i sentimenti della madre, a differenza dell’infanticidio, che non potrebbe non scatenare in lei lo spaventoso dramma evocato dal monologo di Margherita. E non urta in modo visibile i sentimenti del feto, che quasi non ne ha, e di cui viene soltanto delusa quella che l’Allara, in una polemica col Carnelutti su tutt’altro problema, chiamò una volta, con ironia, «la legittima aspettativa di vedere la luce». Potendosi dunque supporre che non urti sentimenti di particolare rilievo, la soluzione viene caldeggiata come la meno cattiva di tutte, e come tale la legislazione dovrebbe accettarla.
È questo, a mio parere, un altro tratto caratteristico della mentalità contemporanea, che la campagna per la legalizzazione dell’aborto rivela: l’importanza attribuita al sentimento, non già come oggetto, bensì come fonte del diritto. William James, in un passo riguardante i fondamenti della morale, afferma che qualsiasi desiderio ha, come tale, un certo diritto ad essere soddisfatto. Rovesciando l’affermazione si ottiene che qualsiasi diritto nasce dall’esigenza di dar soddisfazione a un desiderio; ed e appunto questo secondo criterio quello che tende ad affermarsi nel concetto che oggi i più hanno del diritto. Laddove un desiderio non c’è, o non si manifesta, non sorge il problema di riconoscerlo giuridicamente e di renderlo compatibile con la soddisfazione dei desideri di tutti gli altri. Così, ad esempio, il desiderio di sopprimere la suocera non può essere giuridicamente protetto solo perché esso urta col desiderio della suocera di conservarsi in vita, o col desiderio che, per avventura altri abbia, di assecondarla: se cosi non fosse, avrebbe diritto ad essere soddisfatto. Del resto, esattamente per un ragionamento di questa specie, Raskolnikov si induce a sopprimere la vecchia usuraia che risulta essere priva, o quasi, di sentimenti.
Nel caso che ci riguarda direttamente e molto probabile che l’incoerenza della soluzione proposta, Il suo rimanere a mezzo tra il rovesciamento totale della natura quale la conosciamo e una affermazione esplicita del diritto di uccidere, sia dovuto a una sorta di rispetto: non già della legge morale, ma del sentimento. Sotto questo riguardo può sembrare che la soluzione non danneggi nessuno: a patto, s’intende, che la comune coscienza si allinei su quell’insensibilità che può avere, per un semplice intervento chirurgico, chi è del mestiere.
Una strategia più complessa
Per questo io penso che la campagna per la legalizzazione dell’aborto abbia, in realtà, una posta più importante di quella, già rilevante per sé, che viene messa esplicitamente in gioco. Questa posta è il concetto stesso del diritto. Se il diritto è semplicemente un’espressione generalizzata di certi desideri, da parte di persone o di gruppi che, per una qualsiasi ragione di fatto, abbiano la forza di farli valere e di imporli come legge dello Stato, non c’è dubbio che quella campagna sia rettamente impostata. I desideri contrastanti che essa può incontrare sono facilmente rovesciabili, superabili col mostrare che derivano da un mal inteso attaccamento al passato, se pure non da una gratuita tendenza a interessarsi dei fatti altrui. Ma, appunto per questa ragione, la campagna per la legalizzazione dell’aborto può essere efficacemente contrastata solo se non si acconsente a seguire gli avversari sul loro piano: sul piano del sentimento come fonte del diritto, quand’anche oggi, nei più, il sentimento suscitato da quella proposta fosse di indignazione. Essa può essere contrastata solo se si ritorna a pensare che ciò che è giusto o ingiusto in un rapporto giuridico, va desunto dalla natura del rapporto stesso, per quanto grande sia in certi casi la necessità di desumerlo, e non da ciò che ad uno accada o no di desiderare. I sentimenti dei consociati, è ovvio, sono un elemento importante della materia che il diritto deve regolare, né si avrebbe mai ragione di prescinderne, ma non sono la fonte, la ragione della norma che, pure, ne tiene conto. Oggi forse riesce difficile ammetterlo: eppure il fatto che i giuristi, magari senza accorgersene, si siano lasciati affascinare da Rousseau è la principale ragione per cui il diritto offre il fianco ai suoi nemici, che vogliono abbatterlo perché lo considerano nient’altro che un’ipocrita imposizione.
Kant, che pure ammirava Rousseau, non lo seguì su questo punto. Lo si vede persino, dai passi in cui ragiona di storto, come il primo di quelli che abbiamo citato. L’eccezione che fa per l’infanticidio, infatti, tiene conto, bensì, di un sentimento dell’onore che oggi — e in questo caso, direi, per fortuna — è mutato, ma non si fonda punto per questo sul sentire, bensì su una ragione tutta oggettiva: sul fatto che il figlio nato fuori del matrimonio è nato fuori della legge. Dato che questa premessa è vera solo secundum quid, non simpliciter, la conseguenza che Kant vorrebbe trarne non regge. Ma altro è condurre ragionamenti sofistici su questo o quel punto, altro è stravolgere il fondamento stesso del ragionare giuridico, come quando, per fondare il diritto, ci si appella al sentimento. Allora per un po’ ci si compiace di vedere che il diritto si va facendo via via più bonario e più tenero, più umanitario, financo filantropico e assistenziale; che, deposto il cipiglio con cui minacciava sanzioni punitive, aiuta, al contrario, ciascuno a realizzarsi nel modo più pieno, secondo le sue aspirazioni. Poi si scopre con sorpresa che, buttata la spada, Temi trova necessario liberarsi anche della bilancia. Infine si costata che, contro ogni previsione, l’umanitarismo, invece di diffondere i sentimenti favorevoli alla conservazione dell’umanità, promuove tendenze che minacciano di distruggerla.
Ma ciò non avviene a caso. La distruzione dell’uomo vecchio è precisamente il presupposto della rinascita dell’uomo nuovo; e questa distruzione può bene assumere un aspetto anche fisico, per chi crede che la rinascita, che in origine si indirizzava al Regno del Cieli, debba compiersi qui, su questa terra. L’uomo vecchio si affidava alle norme estrinseche e formali del diritto, l’uomo nuovo si libererà dalla legge per unirsi ad ogni altro uomo nella comunità dell’amore. Questa la meta ultima di chi, svellendo il diritto dalle sue vere radici, lo ancora alle inclinazioni e ne vanifica, così, il concetto. Le sue intenzioni ultime sono buone, non dimentichiamolo, e questa è la sua forza, anche se i mezzi usati per attuarle sono più o meno coscientemente pretestuosi. Se non riconosciamo queste buone intenzioni, e non scorgiamo questa sorta di buona fede che soggiace ai pretesti mutevoli accampati via via per perseguirle, rischiamo di trovarci disarmati. Però tutte queste buone intenzioni dipendono da un’ipotesi che nulla ci dice che sia vera, o comunque verificabile: l’ipotesi che la volontà dell’uomo possa ritrovare su questa terra l’originaria perfezione che, secondo la teologia cristiana, avrebbe avuto prima della caduta. Solo a quel patto, infatti, il diritto potrebbe perdere la sua potenziale repressività, anzi cessar di esistere come norma esterna. Questa traduzione laica di una speranza già caratteristica di una fede religiosa va certamente rispettata e, in ogni caso, sarebbe inutile cercar di debellarla con una polemica moralistica. Ma ciò non deve distoglierci dal cercare le implicazioni ultime che si celano dietro prese di posizione dettate da una fede che nessun uomo ragionevole e rispettoso dell’esperienza e tenuto a condividere.
Legge morale e ordinamento giuridico
La mia conclusione è che difendere la vita umana è importante, ma che vana sarebbe questa difesa se ci si muovesse su un piano meramente biologico, e per ragioni puramente sentimentali. Per quanto mirabile sia come opera della natura, e per quanto ci possa essere cara soggettivamente, la vita umana, come fatto biologico, è ancora un fatto come qualsiasi altro. Di attribuire alla propria vita una dignità superiore l’uomo avrà una qualche ragione solo se la sua vita è una attestazione, sia pure sempre labile, incerta, precaria, della legge morale. Se, invece, le norme giuridiche si preoccupassero solo di tutelare biologicamente la vita, in un primo tempo cominceremmo col domandarci in nome di chi e di che cosa lo facciano, in un secondo tempo ci accorgeremmo che, non senza ragione, hanno cessato di farlo. Se il diritto tutelasse la vita solo perché tutela gli interessi, non sarebbe irragionevole che smetta di tutelarla, quando quella vita non interessa a nessuno. Ma il diritto tutela gli interessi che siano, anzitutto, giusti, e la sua fonte prima non è l’interesse, bensì la legge morale, che esso traduce in norme esterne. La traduce con difficoltà, incertezze e molte limitazioni, ma su di essa si fonda, e non sui desideri di chi lo instaura. Sicché può ben accadere, nel caso della maternità interrotta, che nessuno sia in grado di presentarsi a fare opposizione, e potrà anche accadere, al limite, che essa non offenda più i desideri e i sentimenti di nessuno, ma il punto decisivo è un altro: se il legislatore abbia o no l’obbligo di tradurre in una norma anche esterna il divieto morale di disporre ad arbitrio della vita nostra e dell’altrui. Se cade questo principio, non sarà certo un interesse — come, poniamo, il preteso interesse dell’integrità della stirpe — quello che si potrà invocare contro l’aborto (interesse, del resto, che in certi casi potrebbe anche richiederlo). Ma se cade l’assunto che la legislazione debba far valere certi principii per un dovere superiore alba legislazione medesima, per un dovere morale del tutto indipendente dagli interessi, è dubbio che possa rimanere in piedi una legislazione qualsiasi.
Ecco perché, a mio parere, prima ancora di combattere per la vita, occorre proporsi di combattere per il diritto. Non certo per questa o quella norma antiquata, non più rispondente alla realtà, e che può benissimo essere modificata con vantaggio di tutti: ma certamente per ogni norma senza la quale l’intero diritto cesserebbe di esser tale. In questo caso mutare la legge col pretesto che sia anacronistica sarebbe, in realtà, un negare il diritto: come giustamente vuole, dal suo punto di vista, chi pensa che il diritto altro non sia che espressione di interessi e di desideri, ma come non c’è ragione di concedere se si pensa che il diritto esprima lo sforzo stesso dell’uomo per essere uomo, e non soltanto un congegno biologico più raffinato di altri. Allora, quando la legge sia espressione di questo sforzo, converrà obbedire a quanto comanda il frammento 44 dell’antico Eraclito: «È necessario che il popolo combatta per la legge, come per le mura della città».
Se una donna abortisce è comprensibile che non lo vada a raccontare; ma oggi pare accertato, qualche volta, anche il contrario: donne che non avevano abortito affatto, lo sono andate a raccontare. Ora, la novità che colpisce, e che, mi sia lecito dire, allarma più del fatto stesso, è appunto questa: che del fatto si faccia una bandiera. Bandiera di che cosa? Sembra abbastanza chiaro che il trauma fisico è divenuto un pretesto; e, probabilmente, ciò che si nasconde sotto questo pretesto è molto più importante del trauma stesso, per quanto grave esso sia in sé. Facciamo un paragone con un problema apparentemente lontano e, tuttavia, forse non senza legami con quello che ci occupa: l’adulterio. Vi sono state e vi sono società, o almeno ambienti sociali, che non solo tollerano l’adulterio, sia dell’uomo, sia della donna, ma lo incoraggiano con diversi generi di pressione: in particolare col considerare come cosa di poco buon gusto il rifuggirne, salvo che uno voglia distinguersi per la sua eccentricità. Può tuttavia accadere — anzi, è quasi sempre accaduto e, a volte, accade ancora — che queste medesime società non cessino affatto, per questo, di considerare l’adulterio come una colpa e come un reato insieme, e che, quantunque rare siano le volte che questo reato è punito, non invochino per questo la prescrizione estintiva. Se vogliamo essere scettici fino in fondo, può darsi che lo facciano perché temono che, insieme con la proibizione, venga meno una delle attrattive: ma il fatto resta.
A questo punto si può essere tentati di compiere un passo breve, quasi insignificante. Si può dire: prendiamo atto della situazione e, visto che le cose stanno così, cancelliamo l’adulterio dal novero dei reati. Condannare moralmente e giuridicamente un uso che si tollera, se pure non si incoraggia, è ipocrisia. Allora perfino chi depreca quell’uso può restare persuaso da un tal discorso, e considerare che l’ipocrisia, lungi dal salvare la situazione, la aggravi. Ma la verità è molto diversa: quel piccolo passo, tutt’altro che insignificante, porta una differenza immensa. In superficie non cambia nulla, e può darsi perfino che porti a un miglioramento; ma rispetto ai principii turba i costumi più di mille infrazioni impunite. È il manifestarsi, nella forma e nella misura in cui può manifestarsi, di una rivoluzione.
Di chi e l’ipocrisia?
Questo dell’ipocrisia è un punto molto importante anche per il nostro tema, e quindi conviene fermarcisi su. Si dice: è inutile punire sulla carta un reato, quando tutti sanno che è compiuto continuamente senza sanzione. È ingiusto colpire qualche sfortunato incidente, dovuto a ignoranza o a mancanza di mezzi, quando basta passeggiare per i quartieri alti di una città per scoprirvi una quantità di piccole cliniche dove e improbabile che qualcuno vada a farsi asportare un tumore o a richiedere il trapianto di un rene.
In realtà, il discorso sull’ipocrisia va esattamente rovesciato. L’ipocrisia non sta dalla parte di chi vuol conservare un principio pur sapendo benissimo che è continuamente violato; l’ipocrisia, sia essa inconsapevole o calcolata, e di chi pretende di abolire il principio e, in ultima analisi, qualsiasi principio, col pretesto che non trova più rispondenza nel costume. Poiché non d’altro che d’un pretesto si tratta.
Coloro che si appellano al costume per chiedere che si abolisca una norma presuppongono, tacitamente o no, che si tratti di una norma meramente positiva, o di una consuetudine dipendente da circostanze mutevoli. Se si trattasse di un principio inderogabile, invocare una prescrizione estintiva sarebbe vano. Ora, quando si attaccano con quel pretesto principii che la legislazione può, bensì, riconoscere o non riconoscere, ma la cui validità, in ogni caso, non dipende dal fatto che il legislatore li riconosca, l’obiettivo reale non è più di abbattere questa o quella norma singola, questo o quel divieto: è di mostrare precisamente che non esistono principii del tipo che s’e detto, divieti che il diritto oggettivo debba semplicemente riconoscere e far suoi, senza che la loro validità dipenda da tale riconoscimento. Il presupposto, tacito o manifesto, è che esistano solo statuizioni arbitrarie, dipendenti da un condizionamento storico che, in ultima istanza, si fa sentire attraverso la volontà del legislatore. Ogni statuizione, di conseguenza, potrà mutare, alla sola condizione che muti la volontà del legislatore. Equivalente edulcorato, ma tutt’altro che emendato, dell’affermazione che la legge non è che la volontà del più forte: una dottrina formulata già con molta chiarezza dai sofisti del IV secolo avanti Cristo, e che non muta in nulla per essere oggi riformulata con le tecniche più raffinate del giuspositivismo. Senonché la volontà del più forte non è altro che un fatto: e se la legge si riduce alla volontà del più forte, e non c’è altro diritto che questo, il diritto non si distingue più dai fatti, e non può più pretendere di regolarli. Questo, a mio parere, è il punto a cui veramente si vuole arrivare, quando si invocano certe prescrizioni estintive.
Spieghiamoci con un esempio. Sarebbe certo plausibile invocare la prescrizione estintiva contro il divieto di circolare a più di cinquanta chilometri all’ora negli abitati, dal momento che tale norma è violata senza sanzione milioni di volte ogni giorno. Ma, questo, perché quel limite è pura convenzione. Per contro la norma di mantenere in ogni circostanza una velocità presumibilmente non pericolosa per sé e per gli altri, pur potendo essere richiamata esplicitamente anche nella legge, è un principio che non dipende punto da questa, e che sussisterebbe anche in assenza di ogni legge, non si prescriverebbe quand’anche tutte le strade fossero percorse continuamente da orde di crazy drivers. Pretendere prescritta questa norma, sarebbe pretendere abolito il diritto. Cominciamo così a vedere dove punti l’ipocrita discorso sull’ipocrisia. Non a mutare questa o quella norma invecchiata, bensì ad attaccare principii necessari, per mostrare che non vi sono punto principii a cui la legislazione debba tassativamente ispirarsi, perché tutto dipende da convenzioni, storicamente variabili. Quando si pensa, come in Olanda, di cancellare dalla lista dei reati la detenzione e l’uso personale di stupefacenti, chiamati dolci (soft), col pretesto che è impossibile perseguire per questo centinaia di migliaia di persone del resto incensurabili, il discorso è palesemente diverso da quando si parla di abolire, ad esempio, un limite convenzionale di velocità. Poiché se fosse illecito per principio comportarsi in modo da divenire prima o poi, per sé e per gli altri, un pericolo molto peggiore che la morte, l’impossibilita di fatto dei pubblici poteri di fare rispettare la norma con sufficiente frequenza sarebbe irrilevante, rispetto al dovere di includere quel divieto nella legislazione. La bancarotta proclamata con quel pretesto dai pubblici poteri sarebbe bensì reale, ma non per questo meno fraudolenta, consistendo la frode nel far credere che, poiché molti, moltissimi o anche quasi tutti si comportano ormai in un modo che un tempo si considerava illecito, tutto si riduca a un mutamento storico nel sentire della generalità, a cui il diritto dovrebbe adeguarsi. La frode sta nel mascherare la vera conclusione a cui si vuole arrivare, dietro a una verità indubitabile. È verissimo, infatti, che una norma non è pensabile come norma giuridica se non conserva una qualche efficacia: ma se la norma divenuta impotente, o comunque non rispondente al costume, è una norma necessaria, e la legislazione non è più in grado di farla rispettare, ciò significa, semplicemente, che su quel punto il diritto ha cessato di esistere, e la società non è più in grado, per mancanza di volontà o di mezzi, di imporlo. Sicché la difesa del diritto alla vita va ben oltre il suo pur doveroso oggetto immediato: si iscrive infatti in una più vasta e non meno urgente difesa del diritto, della stessa esistenza e possibilità del diritto in quanto tale, e non solo del diritto alla vita.
Attentati al diritto
Senza dubbio in ogni legislazione vi è un gran numero di norme antiquate, non necessarie o dannose che, siano o no disattese di fatto, si potrebbero con gran vantaggio mutare. Se lo scopo fosse di ammodernare il diritto, su quelle converrebbe puntare. Invece non accade mai che un grande movimento d’opinione si scateni contro norme effettivamente arbitrarie, e batta in breccia i passatisti su quei punti, dove non avrebbero modo di difendersi. Nessuna crociata, nessun cartello, nessuna vittima pronta al martirio per abolire le norme che regolano la privativa del sale, o le imposte comunali di consumo; nessuno o quasi che le qualifichi come anacronistiche, medievali, antieconomiche, antisociali, come infatti sono.
È molto se, dopo secoli, qualche considerazione puramente tecnica riesce a farsi luce. Al contrario, tutti gli sforzi mirano ad abolire norme che, a torto o a ragione, si pensa per lo più che dipendano da principii superori alla legislazione medesima. Ciò sembra strano, ma è perfettamente spiegabile se il proposito non è già di ammodernare, bensì di scalzare il diritto. Allora occorre attaccare quelle norme che, bene o male, esprimono un principio necessario e non mutevole del diritto: un principio senza il quale il diritto è impensabile. Ciò che si vuole, infatti, è appunto questo: che il diritto risulti impensabile. Abbattute queste norme, la conclusione, lo si dica o no, non sarà che il diritto è mutato, bensì che ha cessato di esistere. Le leggi si saran ridotte a espressioni generiche di una volontà meramente utilitaria, come sosteneva, ad esempio, Benedetto Croce. Ed è questo, precisamente, ciò che si maschera in molti casi — sebbene non in tutti, è ovvio — dietro il proposito di adeguare la legislazione ai mutamenti di mentalità e di costume. Si finge — parlo sempre di una finzione per lo più inconsapevole e per dir così freudiana — di voler modificare norme disattese per renderle aderenti al concreto, ma si scelgono, non per caso, norme la cui caduta implichi la caduta totale del diritto, perché questo è lo scopo.
A volte lo spunto è tratto da materie meno tragiche, come l’adulterio, altre volte da materie più tragiche come l’aborto o gli stupefacenti, ma dietro c’è un unico disegno, coerente e radicale, anche se spesso inconscio, di contestare l’esistenza stessa del diritto come principio regolatore della vita dell’uomo.
Non dimentichiamo che, se per molti di noi la fine del diritto coincide con la fine dell’uomo, per altri — e oggi sono moltissimi — la fine del diritto sarebbe la rinascita dell’uomo, essendo l’ordinamento giuridico qualcosa di esterno, dunque di oppressivo, qualunque esso sia. Questa lotta contro il diritto oggi è condotta anche a viso aperto: e meglio sarebbe se fosse sempre così. Ma spesso essa si vale di ausiliari che la mascherano dietro il pretesto, assai plausibile, di rendere più moderna, più umana, più aderente alla realtà la legislazione; o anche dietro il pretesto, molto meno plausibile, di amministrare le stesse leggi vigenti in modo da piegarle in una direzione su cui il diritto non può che trovare la morte. Consapevole o no, questo è ancora un mascheramento. E il mascheramento è favorito, senza dubbio, dall’isolarsi della sfera giuridica dall’insieme della sfera morale: processo utile, anzi tecnicamente necessario, ma che offre il destro a qualsiasi sofisma, se non si tiene conto dei limiti entro cui quell’astrazione deve valere. Tutto ciò porta a quell’interpretazione del diritto come pura convenzione che riconduce il diritto alla forza: poiché solo dalla forza dipende la scelta di una convenzione piuttosto che di un’altra. Ed ecco attuarsi una distruzione tecnica del diritto, non più distinto dal fatto, meno pittoresca ma più efficace di quella che e perseguita, ad esempio, da una parte della contestazione giovanile.
Il boomerang puritano
Studiare il diritto come un sistema chiuso è come studiare in fisica un processo adiabatico: è un procedimento necessario; ma sarebbe illegittimo concludere che esista un diritto isolato dalla morale, come sarebbe erroneo supporre che in natura esistano trasformazioni adiabatiche. Cosi nel caso che ci interessa, si dice: il divieto di interrompere a proprio arbitrio la maternità può rimanere, non più in dipendenza dal diritto, bensì dalla morale. Senonché il rescindere del tutto la sfera giuridica da principii di questa specie, col pretesto che essi possono continuare a valere nella morale, porterebbe, non so se a vanificare la morale, ma certo a vanificare il diritto: che e appunto ciò che desiderano coloro che escludono norme giuridiche non convenzionali, bensì eticamente necessarie.
Codesta tendenza a sopprimere il diritto trova, poi, un alleato non meno prezioso nel rigorismo puritano. Questo può definirsi un atteggiamento che considera come assolutamente intollerabile l’eventualità che il comportamento si scosti dalla norma. Allora, per evitare un fatto così intollerabile, si possono seguire due vie: si può, in certi casi, premere sul comportamento perché rispetti la norma; ma si può anche, per quanto a prima vista appaia paradossale, premere sulla norma perché si adegui al comportamento. E poiché, per tutto un complesso di ragioni, in ciò che ha attinenza col sesso è difficile premere con efficacia sul comportamento, appunto qui è accaduto più di una volta che in nome del rigorismo si premesse sulla norma: si premesse sulla norma fino a distruggerla. La storia delle correnti catare e puritane è ricca di esempi, solo fino ad un certo punto paradossali, di un loro rovesciarsi in forme di libertinismo e, infine, di anomismo assoluto. Modificando o abolendo la norma si ottiene infatti, non importa a che prezzo, che il comportamento non si scosti più da essa.
Non c’è dubbio che anche l’aspirazione ad abolire il divieto di interrompere ad arbitrio la maternità rientri in questa più generale tendenza, che dal Nord dell’Europa sta rifluendo verso i suoi luoghi di origine, in una civiltà come la nostra che, per molti aspetti, torna a meridionalizzarsi e ad orientalizzarsi. Novità che sembrano venire da settentrione, sono, in realtà, il rifluire di tendenze antichissime medio-orientali, che ritornano per quella via.
Un principio lasciato a metà
Il caso dell’adulterio, quanto a questo, è esemplare. Per una mentalità catara e puritana esso è assolutamente intollerabile. Ma poiché non è facile modificare su questo punto le inclinazioni degli uomini, e neppure delle donne, ecco che si modifica l’istituto matrimoniale. Se una semplice telefonata all’ufficio di stato civile può annunziare unilateralmente un divorzio, e un’altra, consensuale, un matrimonio, ecco che quel problema, apparentemente cosi difficile, di evitare che si commettano adulteri, almeno in teoria, è risolto. Poiché il peccato originale, o i suoi surrogati laici, possono bensì impedire ad un uomo di resistere alle tentazioni della carne, ma non possono impedirgli di fare un paio di telefonate. Qualcuno crederà che io scherzi: ma in paesi settentrionali siffatti snellimenti del rito sono allo studio; e non c’è dubbio che, in luogo di quella specie di sacerdote che è l’ufficiale di stato civile, all’altro capo del filo apparirà più razionale installare il terminale di un computer, che immagazzini nella propria memoria gli scambi matrimoniali con la stessa rapidità con cui il nostro casellario fiscale centrale dovrebbe registrare le transazioni di affari. A questo punto ad evitare l’adulterio basterà un po’ di buona volontà, anche se alcuni penseranno che sia una buona volontà sprecata, del matrimonio non essendo rimasto altro che il nome.
Questo è ciò che mi son permesso di qualificare come ipocrisia: questo svuotare il diritto fino ad annientarlo, sotto la maschera del renderlo aderente alla realtà e praticabile. Ma questo non è tutto: perché puntare precisamente sulla legalizzazione dell’aborto, e non su altro, per mettere in forse i principii? La scelta manifesta altre spinte e moventi profondi, oltre a quello, comune a vari movimenti d’opinione, di abolire il diritto. Lo si può costatare notando una sua caratteristica: essa rovescia, per certi aspetti, la direzione più comune dei paradossi morali.
Il filosofo morale, infatti, è abituato a paradossi che, se urtano il senso comune, piacciono almeno per la loro radicalità. I paradossi degli stoici, come quello che sarebbe ugualmente grave uccidere un cittadino o una gallina, erano argomento di piacevoli discussioni nell’antichità, perché portavano unilateralmente un principio alle sue estreme conseguenze, e appunto perciò davano scandalo alla coscienza comune. Ma il caso dell’aborto è l’opposto, esso rifugge dalle estreme conseguenze, e il filosofo morale vi trova un diverso motivo di scandalo: un principio lasciato a metà. Un aborto è, per antonomasia, una cosa non portata a compimento; e che proprio di questo si faccia una bandiera, a tutta prima non può non lasciare perplessi.
Il rigorismo kantiano
Delle due l’una. O la soddisfazione dell’istinto genetico ha da essere isolata, per ragioni di opportunità, dal suo fine naturale che è la procreazione, e allora sembrerebbe plausibile provvedere a monte, ed evitare che le donne si trovino nella necessità di abortire. O, al contrario, considerato che tutti i mezzi che evitano il concepimento fanno violenza, in un modo o nell’altro, alla natura, si vuole che il processo naturale segua il suo corso, pur escludendosi di poter nutrire ed educare tutti i bambini che naturalmente verrebbero al mondo: e allora la soluzione, radicale e naturale insieme, sarebbe di lasciare che la donna porti a termine la gravidanza — con giovamento, tra l’altro, per la sua salute — e provvedere a valle, con l’infanticidio. Forse che, per scalzare il diritto e urtare la coscienza comune, l’infanticidio non avrebbe gli stessi vantaggi dell’aborto? In più, la natura sarebbe rispettata e, con essa, la coerenza. La Rupe Tarpea suggerisce associazioni popolari, sebbene non controllate, in questa direzione. E a chi obiettasse che — a parte le ben diverse motivazioni — il ius vitae et necis appartiene ad età lontane, posso rispondere citando Emanuele Kant, il quale a proposito del cosiddetto infanticidio d’onore così si esprime: «Il bambino venuto al mondo fuori del matrimonio è fuori della legge e, di conseguenza, è anche fuori della protezione della legge. Egli si è, per dir così, insinuato nella società civile come una merce proibita, e la società civile può ignorare la sua esistenza e, conseguentemente, anche la sua distruzione». Kant pensa pur sempre che l’infanticidio d’onore sia meritevole di punizione, ma, parrebbe, non da parte della società civile: perché, in tal caso, la società civile non potrebbe ignorarlo. Per Kant, che è un rigorista, irrogare la pena è un dovere stretto, tanto che tre pagine prima egli aveva detto: «Quand’anche la società civile si sciogliesse col consenso di tutti i suoi membri, l’ultimo assassino che si trovasse in prigione dovrebbe prima essere giustiziato, affinché ciascuno porti la pena della sua condotta, e il sangue versato non ricada sul popolo che non ha reclamato quella punizione».
Ebbene se l’infanticidio e scusato qui da un filosofo sul piano giuridico come un modo, in verità assai curioso, di salvare l’onore, non potrebbe essere giustificato da altri filosofi con altri motivi analoghi a quelli per cui le rondini buttano fuori dal nido i piccoli che non riescono a nutrire? Questo fenomeno osservato da Kant in tarda età, lo avrebbe indotto, secondo la testimonianza del suo biografo Wasiansky, ad esclamare: «Es ist ein Gott» (c’è un Dio). Eppure la campagna per la legalizzazione dell’aborto rinuncia al vantaggio di coerenza che le deriverebbe dal trasformarsi in una campagna per la legalizzazione dell’infanticidio. Quale può esserne la ragione? Perché, trascurando le possibilità estreme, punta su una soluzione intermedia che non salva né la capra, né i cavoli, né la natura né i principii?
L’esigenza di una soluzione più radicale, in verità, è ben sentita da circoli femministi più spinti (dal punto di vista del costume), che giustamente respingono l’aborto, lecito o illecito che sia giuridicamente, come un rimedio non meno lesivo della donna di qualsiasi altro proposto alla sua soggezione. Questi circoli si sono resi conto che, fin quando si ammetta a fatti una disimmetria tra i sessi non importa quanto negata a parole, una questione della donna esisterà sempre: di conseguenza, caldeggiano un tipo di rapporto erotico — che sarebbe improprio, ormai, chiamare sessuale — per cui non si pone neppur più il problema di evitare il concepimento. Anziché a valle, la natura sarebbe questa volta salvaguardata a monte: ma a monte, addirittura, di quella caduta dell’uomo che e simboleggiata nel racconto del peccato originale, poiché, secondo una ben nota interpretazione gnostica e neognostica, dal peccato originale dipenderebbe, insieme con la perdita della genuina natura, anche lo staccarsi di un sesso dall’altro. Senza che chi professa quella soluzione spinta, in pratica, lo sappia, in essa ritorna l’antica concezione dell’androgino divino, inteso come vera natura originaria dell’uomo: natura che senza dubbio per il momento siamo in grado di ritrovare solo in forme imperfette ed allusive, ma che in ogni caso ci dà la direzione in cui guardare per sfuggire alle conseguenze deleterie di quella che Von Baader, nel secolo scorso, chiamò la Entzweiung, o lo spalarsi dei sessi. Per quanto aberranti rispetto alla comune coscienza queste proposte hanno, per lo meno, il pregio della coerenza e di una profonda, anche se inconsapevole, significatività metafisica: due cose che all’aborto sembrano completamente mancare.
Diritto fondato sul desiderio?
Eppure c’è, a mio parere, una ragione per cui una parte più o meno grande del movimento per la liberazione della donna ha preso di mira, sia pure come momentaneo e falso scopo, quella soluzione intermedia: ed è che essa urta il meno possibile il sentimento. Non urta il sentimento di chi ama, che può trovare espressione nelle forme consuete della natura che conosciamo, anziché nella natura originaria di un androgino fantasticato dalla mente di visionari. Non urta i sentimenti della madre, a differenza dell’infanticidio, che non potrebbe non scatenare in lei lo spaventoso dramma evocato dal monologo di Margherita. E non urta in modo visibile i sentimenti del feto, che quasi non ne ha, e di cui viene soltanto delusa quella che l’Allara, in una polemica col Carnelutti su tutt’altro problema, chiamò una volta, con ironia, «la legittima aspettativa di vedere la luce». Potendosi dunque supporre che non urti sentimenti di particolare rilievo, la soluzione viene caldeggiata come la meno cattiva di tutte, e come tale la legislazione dovrebbe accettarla.
È questo, a mio parere, un altro tratto caratteristico della mentalità contemporanea, che la campagna per la legalizzazione dell’aborto rivela: l’importanza attribuita al sentimento, non già come oggetto, bensì come fonte del diritto. William James, in un passo riguardante i fondamenti della morale, afferma che qualsiasi desiderio ha, come tale, un certo diritto ad essere soddisfatto. Rovesciando l’affermazione si ottiene che qualsiasi diritto nasce dall’esigenza di dar soddisfazione a un desiderio; ed e appunto questo secondo criterio quello che tende ad affermarsi nel concetto che oggi i più hanno del diritto. Laddove un desiderio non c’è, o non si manifesta, non sorge il problema di riconoscerlo giuridicamente e di renderlo compatibile con la soddisfazione dei desideri di tutti gli altri. Così, ad esempio, il desiderio di sopprimere la suocera non può essere giuridicamente protetto solo perché esso urta col desiderio della suocera di conservarsi in vita, o col desiderio che, per avventura altri abbia, di assecondarla: se cosi non fosse, avrebbe diritto ad essere soddisfatto. Del resto, esattamente per un ragionamento di questa specie, Raskolnikov si induce a sopprimere la vecchia usuraia che risulta essere priva, o quasi, di sentimenti.
Nel caso che ci riguarda direttamente e molto probabile che l’incoerenza della soluzione proposta, Il suo rimanere a mezzo tra il rovesciamento totale della natura quale la conosciamo e una affermazione esplicita del diritto di uccidere, sia dovuto a una sorta di rispetto: non già della legge morale, ma del sentimento. Sotto questo riguardo può sembrare che la soluzione non danneggi nessuno: a patto, s’intende, che la comune coscienza si allinei su quell’insensibilità che può avere, per un semplice intervento chirurgico, chi è del mestiere.
Una strategia più complessa
Per questo io penso che la campagna per la legalizzazione dell’aborto abbia, in realtà, una posta più importante di quella, già rilevante per sé, che viene messa esplicitamente in gioco. Questa posta è il concetto stesso del diritto. Se il diritto è semplicemente un’espressione generalizzata di certi desideri, da parte di persone o di gruppi che, per una qualsiasi ragione di fatto, abbiano la forza di farli valere e di imporli come legge dello Stato, non c’è dubbio che quella campagna sia rettamente impostata. I desideri contrastanti che essa può incontrare sono facilmente rovesciabili, superabili col mostrare che derivano da un mal inteso attaccamento al passato, se pure non da una gratuita tendenza a interessarsi dei fatti altrui. Ma, appunto per questa ragione, la campagna per la legalizzazione dell’aborto può essere efficacemente contrastata solo se non si acconsente a seguire gli avversari sul loro piano: sul piano del sentimento come fonte del diritto, quand’anche oggi, nei più, il sentimento suscitato da quella proposta fosse di indignazione. Essa può essere contrastata solo se si ritorna a pensare che ciò che è giusto o ingiusto in un rapporto giuridico, va desunto dalla natura del rapporto stesso, per quanto grande sia in certi casi la necessità di desumerlo, e non da ciò che ad uno accada o no di desiderare. I sentimenti dei consociati, è ovvio, sono un elemento importante della materia che il diritto deve regolare, né si avrebbe mai ragione di prescinderne, ma non sono la fonte, la ragione della norma che, pure, ne tiene conto. Oggi forse riesce difficile ammetterlo: eppure il fatto che i giuristi, magari senza accorgersene, si siano lasciati affascinare da Rousseau è la principale ragione per cui il diritto offre il fianco ai suoi nemici, che vogliono abbatterlo perché lo considerano nient’altro che un’ipocrita imposizione.
Kant, che pure ammirava Rousseau, non lo seguì su questo punto. Lo si vede persino, dai passi in cui ragiona di storto, come il primo di quelli che abbiamo citato. L’eccezione che fa per l’infanticidio, infatti, tiene conto, bensì, di un sentimento dell’onore che oggi — e in questo caso, direi, per fortuna — è mutato, ma non si fonda punto per questo sul sentire, bensì su una ragione tutta oggettiva: sul fatto che il figlio nato fuori del matrimonio è nato fuori della legge. Dato che questa premessa è vera solo secundum quid, non simpliciter, la conseguenza che Kant vorrebbe trarne non regge. Ma altro è condurre ragionamenti sofistici su questo o quel punto, altro è stravolgere il fondamento stesso del ragionare giuridico, come quando, per fondare il diritto, ci si appella al sentimento. Allora per un po’ ci si compiace di vedere che il diritto si va facendo via via più bonario e più tenero, più umanitario, financo filantropico e assistenziale; che, deposto il cipiglio con cui minacciava sanzioni punitive, aiuta, al contrario, ciascuno a realizzarsi nel modo più pieno, secondo le sue aspirazioni. Poi si scopre con sorpresa che, buttata la spada, Temi trova necessario liberarsi anche della bilancia. Infine si costata che, contro ogni previsione, l’umanitarismo, invece di diffondere i sentimenti favorevoli alla conservazione dell’umanità, promuove tendenze che minacciano di distruggerla.
Ma ciò non avviene a caso. La distruzione dell’uomo vecchio è precisamente il presupposto della rinascita dell’uomo nuovo; e questa distruzione può bene assumere un aspetto anche fisico, per chi crede che la rinascita, che in origine si indirizzava al Regno del Cieli, debba compiersi qui, su questa terra. L’uomo vecchio si affidava alle norme estrinseche e formali del diritto, l’uomo nuovo si libererà dalla legge per unirsi ad ogni altro uomo nella comunità dell’amore. Questa la meta ultima di chi, svellendo il diritto dalle sue vere radici, lo ancora alle inclinazioni e ne vanifica, così, il concetto. Le sue intenzioni ultime sono buone, non dimentichiamolo, e questa è la sua forza, anche se i mezzi usati per attuarle sono più o meno coscientemente pretestuosi. Se non riconosciamo queste buone intenzioni, e non scorgiamo questa sorta di buona fede che soggiace ai pretesti mutevoli accampati via via per perseguirle, rischiamo di trovarci disarmati. Però tutte queste buone intenzioni dipendono da un’ipotesi che nulla ci dice che sia vera, o comunque verificabile: l’ipotesi che la volontà dell’uomo possa ritrovare su questa terra l’originaria perfezione che, secondo la teologia cristiana, avrebbe avuto prima della caduta. Solo a quel patto, infatti, il diritto potrebbe perdere la sua potenziale repressività, anzi cessar di esistere come norma esterna. Questa traduzione laica di una speranza già caratteristica di una fede religiosa va certamente rispettata e, in ogni caso, sarebbe inutile cercar di debellarla con una polemica moralistica. Ma ciò non deve distoglierci dal cercare le implicazioni ultime che si celano dietro prese di posizione dettate da una fede che nessun uomo ragionevole e rispettoso dell’esperienza e tenuto a condividere.
Legge morale e ordinamento giuridico
La mia conclusione è che difendere la vita umana è importante, ma che vana sarebbe questa difesa se ci si muovesse su un piano meramente biologico, e per ragioni puramente sentimentali. Per quanto mirabile sia come opera della natura, e per quanto ci possa essere cara soggettivamente, la vita umana, come fatto biologico, è ancora un fatto come qualsiasi altro. Di attribuire alla propria vita una dignità superiore l’uomo avrà una qualche ragione solo se la sua vita è una attestazione, sia pure sempre labile, incerta, precaria, della legge morale. Se, invece, le norme giuridiche si preoccupassero solo di tutelare biologicamente la vita, in un primo tempo cominceremmo col domandarci in nome di chi e di che cosa lo facciano, in un secondo tempo ci accorgeremmo che, non senza ragione, hanno cessato di farlo. Se il diritto tutelasse la vita solo perché tutela gli interessi, non sarebbe irragionevole che smetta di tutelarla, quando quella vita non interessa a nessuno. Ma il diritto tutela gli interessi che siano, anzitutto, giusti, e la sua fonte prima non è l’interesse, bensì la legge morale, che esso traduce in norme esterne. La traduce con difficoltà, incertezze e molte limitazioni, ma su di essa si fonda, e non sui desideri di chi lo instaura. Sicché può ben accadere, nel caso della maternità interrotta, che nessuno sia in grado di presentarsi a fare opposizione, e potrà anche accadere, al limite, che essa non offenda più i desideri e i sentimenti di nessuno, ma il punto decisivo è un altro: se il legislatore abbia o no l’obbligo di tradurre in una norma anche esterna il divieto morale di disporre ad arbitrio della vita nostra e dell’altrui. Se cade questo principio, non sarà certo un interesse — come, poniamo, il preteso interesse dell’integrità della stirpe — quello che si potrà invocare contro l’aborto (interesse, del resto, che in certi casi potrebbe anche richiederlo). Ma se cade l’assunto che la legislazione debba far valere certi principii per un dovere superiore alba legislazione medesima, per un dovere morale del tutto indipendente dagli interessi, è dubbio che possa rimanere in piedi una legislazione qualsiasi.
Ecco perché, a mio parere, prima ancora di combattere per la vita, occorre proporsi di combattere per il diritto. Non certo per questa o quella norma antiquata, non più rispondente alla realtà, e che può benissimo essere modificata con vantaggio di tutti: ma certamente per ogni norma senza la quale l’intero diritto cesserebbe di esser tale. In questo caso mutare la legge col pretesto che sia anacronistica sarebbe, in realtà, un negare il diritto: come giustamente vuole, dal suo punto di vista, chi pensa che il diritto altro non sia che espressione di interessi e di desideri, ma come non c’è ragione di concedere se si pensa che il diritto esprima lo sforzo stesso dell’uomo per essere uomo, e non soltanto un congegno biologico più raffinato di altri. Allora, quando la legge sia espressione di questo sforzo, converrà obbedire a quanto comanda il frammento 44 dell’antico Eraclito: «È necessario che il popolo combatta per la legge, come per le mura della città».
Da AA.VV., Aborto No, Edizioni Ares, Milano 1975, pp. 71-95
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