di Vittorio Possenti
La filosofia moderna è un’etica. Questa acuta idea di Giovanni Gentile segna nobiltà e crisi della modernità filosofica. Gentile era catturato dalla prassi, e questo lo portò ad avere simpatia per la filosofia di Marx intesa appunto come una forma alta di prassismo. Egli riteneva che la filosofia teoretica tesa al «rispecchiamento» del reale dovesse essere abbandonata per l’azione. Autori che probabilmente non lo hanno mai letto si accostano a Gentile nell’affinità della posizione, a testimonianza che le posizioni filosofiche fondamentali sono poche. Il pragmatismo di Rorty e in un certo senso di Vattimo (vedi il suo articolo di ieri su 'La Stampa', «Mettiamoci d’accordo, la verità non c’è più») riprende l’idea che quanto conta è l’atteggiamento pragmatico, teso non a conoscere la realtà in sé ma a combattere l’infelicità.
La «verità» è la capacità di operare effetti, di funzionare.
Una cosa è vera perché funziona, mentre per il pragmatista ha poco senso chiedere se «funziona perché è vero», che è invece l’altra faccia assolutamente non trascurabile del problema. L’idea di Rorty e molti altri che la filosofia sia un’etica del dialogo e della ricerca di convergenze ha una sua plausibilità, ma è disperatamente fragile per quanto concerne la squalifica del momento contemplativo, essenziale nella vita e in filosofia. Il «tutto è etica e niente teoretica» è un equivoco che nasce dal rifiuto dell’intelletto e del contemplare, che rimangono momenti di vertice della persona. Scrivendo «La filosofia e lo specchio della natura», Rorty non è sfuggito all’equivoco che affligge molte scuole filosofiche del moderno, ossia l’idea che «là fuori» vi è qualcosa che la mente deve rispecchiare, operandone una rappresentazione fedele e comportandosi come un calco.
Su questi aspetti difficili risparmierò al lettore una lezione, ma l’idea che il compito della mente umana sia di essere lo specchio della natura è fuorviante, sebbene Rorty avesse nel pensiero moderno esempi di ciò. Il compito dell’intelletto non è di rispecchiare ma di giudicare come stanno le cose, e il suo operare è tutt’altra cosa dall’essere uno specchio passivo.
L’attacco ai fondamenti che ha contraddistinto molto pensiero del Novecento muove dal rifiuto dell’intelletto e del contemplare, è cioè un nichilismo per il quale non esiste alcuna realtà che ci misuri, nessun ordine naturale di giustificazione delle proprie credenze, né alcun percorso prestabilito che un argomento debba seguire. »Anything goes».
Il «tutto etica» e il «niente contemplazione» non solo è una diminuzione dell’uomo, ma non funziona neppure sul piano pratico. Hobbes scriveva che le azioni degli uomini procedono dalle loro opinioni. Le nostre azioni sono profondamente influenzate dalle visioni che ci facciamo del reale, quindi dalle nostre posizioni «metafisiche» e questo è vero anche per coloro che non hanno alcuna idea della metafisica. I problemi bioetici sono la prova del nove che mettersi d’accordo senza sapere «come vanno le cose» conduce ad un rebus insolubile. Nessun accordo pratico può partire se non c’è una qualche affinità tra i dialoganti su basi comuni, senza una condivisione di verità e valori. Vattimo non sembra d’accordo quasi preferendo oppone verità e carità, come se queste due sorelle gemelle abitassero su monti lontani, e la prima fosse inutile, pericolosa e perfino violenta. Il Vangelo invita ad operare la verità nella carità («veritatem facientes in caritate»); ugualmente bene potrebbe chiedere di operare la carità nella verità.
La «verità» è la capacità di operare effetti, di funzionare.
Una cosa è vera perché funziona, mentre per il pragmatista ha poco senso chiedere se «funziona perché è vero», che è invece l’altra faccia assolutamente non trascurabile del problema. L’idea di Rorty e molti altri che la filosofia sia un’etica del dialogo e della ricerca di convergenze ha una sua plausibilità, ma è disperatamente fragile per quanto concerne la squalifica del momento contemplativo, essenziale nella vita e in filosofia. Il «tutto è etica e niente teoretica» è un equivoco che nasce dal rifiuto dell’intelletto e del contemplare, che rimangono momenti di vertice della persona. Scrivendo «La filosofia e lo specchio della natura», Rorty non è sfuggito all’equivoco che affligge molte scuole filosofiche del moderno, ossia l’idea che «là fuori» vi è qualcosa che la mente deve rispecchiare, operandone una rappresentazione fedele e comportandosi come un calco.
Su questi aspetti difficili risparmierò al lettore una lezione, ma l’idea che il compito della mente umana sia di essere lo specchio della natura è fuorviante, sebbene Rorty avesse nel pensiero moderno esempi di ciò. Il compito dell’intelletto non è di rispecchiare ma di giudicare come stanno le cose, e il suo operare è tutt’altra cosa dall’essere uno specchio passivo.
L’attacco ai fondamenti che ha contraddistinto molto pensiero del Novecento muove dal rifiuto dell’intelletto e del contemplare, è cioè un nichilismo per il quale non esiste alcuna realtà che ci misuri, nessun ordine naturale di giustificazione delle proprie credenze, né alcun percorso prestabilito che un argomento debba seguire. »Anything goes».
Il «tutto etica» e il «niente contemplazione» non solo è una diminuzione dell’uomo, ma non funziona neppure sul piano pratico. Hobbes scriveva che le azioni degli uomini procedono dalle loro opinioni. Le nostre azioni sono profondamente influenzate dalle visioni che ci facciamo del reale, quindi dalle nostre posizioni «metafisiche» e questo è vero anche per coloro che non hanno alcuna idea della metafisica. I problemi bioetici sono la prova del nove che mettersi d’accordo senza sapere «come vanno le cose» conduce ad un rebus insolubile. Nessun accordo pratico può partire se non c’è una qualche affinità tra i dialoganti su basi comuni, senza una condivisione di verità e valori. Vattimo non sembra d’accordo quasi preferendo oppone verità e carità, come se queste due sorelle gemelle abitassero su monti lontani, e la prima fosse inutile, pericolosa e perfino violenta. Il Vangelo invita ad operare la verità nella carità («veritatem facientes in caritate»); ugualmente bene potrebbe chiedere di operare la carità nella verità.
«Avvenire» del 12 settembre 2008
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