Matrimonio gay e obiezione di coscienza in Spagna
Di Francesco D’Agostino
Di Francesco D’Agostino
Alla richiesta, motivata da ragioni di coscienza, del magistrato di Sagunto Pablo De la Rubia Comos di essere sostituito da un collega nell’espletamento delle pratiche inerenti alla celebrazione di un matrimonio gay, il Tribunale supremo spagnolo ha dato una risposta fermamente negativa: il diritto all’obiezione di coscienza non ha rango costituzionale e per sussistere va esplicitamente riconosciuto dalla legge. E nel caso in questione la legge spagnola tace completamente. È evidente (anche se sulle prime può dispiacere) che la risoluzione del Tribunale appare non scorretta, non solo dal punto di vista del diritto spagnolo, ma anche in una più generale prospettiva di teoria generale del diritto. Nessun sistema giuridico positivo potrebbe sussistere, se riconoscesse ai cittadini un diritto assoluto e insindacabile a sottrarsi all’osservanza delle sue norme, invocando una qualsiasi clausola di coscienza. Ma è proprio il fatto che giuridicamente la vicenda abbia trovato una soluzione corretta che getta una luce inquietante su di essa. Qui non si trattava di salvaguardare, attraverso il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, istanze etico-sociali, religiose o etniche di carattere particolare, ma una dimensione generalissima e costitutiva dell’identità umana, come appunto quella familiare. E infatti l’obiezione non è stata sollevata da un cittadino comune, dal rappresentante di una formazione sociale, di un movimento, di una confessione religiosa o dal militante di un partito; a denunciare l’ingiustizia di una legge e a manifestare la sua ripugnanza ad applicarla, è stato un magistrato nel pieno delle sue funzioni, un giurista, un rappresentante istituzionale di uno dei poteri dello Stato. Ci troviamo di fronte ad una frattura non componibile, anche se pragmaticamente la soluzione della vicenda è stata trovata, con la pronuncia del Tribunale Supremo. A fronte dell’esultanza dei movimenti gay e della delusione dei più impegnati movimenti cattolici per questa pronuncia già si stanno moltiplicando in Spagna gli auspici e gli appelli a non esasperare ulteriormente la questione, a continuare a ricercare 'compromessi ragionevoli' tra le istanze libertarie dello zapaterismo, così pronto a minimizzare i valori della vita e della famiglia, e quelle di un (per noi) ben più realistico comunitarismo, consapevole che attraverso la vita e la famiglia si difende né più né meno che la stessa identità dell’uomo. Di per sé, la ricerca di 'ragionevoli compromessi' merita ogni lode. A chi però si affanna in tal senso, va ricordato che i compromessi possono valere nel breve, anzi nel brevissimo periodo, ma non possono fondare una coesistenza sociale stabile e duratura nel tempo. Nessuna società può sopravvivere se gli stessi magistrati chiamati a rendere giustizia non riescono più a dar credito, come magistrati, alle norme che devono applicare. Nelle questioni economiche un buon compromesso può consentire a tutte le parti in causa di restare soddisfatte, ma nelle questioni morali lo 'scendere a compromessi' le umilia tutte in pari misura. Smettiamola di esaltare il relativismo, come se fosse in sé e per sé un bene morale, anziché il tarlo immorale che incrina il nostro vivere insieme. Se ci riconosciamo, come uomini, tutti eguali tra noi, abbiamo il dovere, per quanto faticoso possa essere, di identificare in un bene comune a tutti il fondamento della nostra vita sociale. È questo il significato ultimo dell’istanza del magistrato De La Rubia: il rigetto cui è andata incontro non le toglie sotto nessun profilo il suo alto valore esemplare.
«Avvenire» del 4 giugno 2009
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