di Ezio Savino
Dalla mitologia all’attualità, il passo è più breve di quanto si possa pensare. Lo spiega un gustoso romanzo che mescola vizi e virtù classici e moderni
Metropolitana londinese. Fermata di Angel. Un posto come tanti. Shopping, cinema, qualche fast food, autobus che scaricano gente, metà con l’ombrello aperto, siamo a Londra. Là sotto sferragliano i convogli. Upper Street, è l’indirizzo: «Di sopra». Se c’è un «di sopra», vuol dire che c’è anche un «di sotto». Eccome, se c’è. Si attraversa l’ultima banchina, si va al di là dello strato di piastrelle e compare un’altra fermata, un marciapiede che sembra non finire da nessuna parte.
La folla che si raccoglie lì - come foglie cadute dai rami in una bufera - è immensa. Una babele di lingue. Età diverse. Ragazzi con la testa fracassata dall’incidente, soldati in frantumi, tossici in overdose e loro, i più rassegnati, i più tranquilli, i vecchietti con il pigiama dell’ospedale o il vestito stirato dell’ultima apparizione in società. Perché siamo al «portale». Passerà un treno, e i defunti andranno a destinazione, un quartiere incolore, casette neo Tudor fatte con lo stampino, sotto un cielo uggioso, in una luce fievole, in un silenzio da cimitero di ovatta. I greci antichi l’avrebbero chiamato Tàrtaro o, dal nome del signorotto locale, Ade.
Ci avviamo al punto di svolta del romanzo di Marie Phillips, Per l’amor di un dio (Guanda, pagg. 290, euro 16,50, traduzione di Elisa Banfi), ma il guizzo poetico e il metodo dell’autrice sono ormai lampanti. Il barnum della mitologia è dislocato ad Hampstead Head, in un fatiscente olimpo vittoriano che ospita gli dei superstiti. Il gioco è fatto. Si tratta di inventare, riga per riga, la trasposizione accettabile. La Phillips lo fa, con ironia e smalto, divertendosi (anche se il tono è serio, e la storia è lacrimosa, edulcorata solo dall’happy end): chi legge procede anche per la curiosità di scoprire come quel mondo irrigidito dalla venerazione del tempo possa ingranare, nella «laica» sarabanda dell’oggi.
Gli dei formano una famiglia rissosa (ci sta, è così anche in Omero, tanto per cominciare), inquilini annoiati di un mausoleo che, per batacchio, ha una corona di alloro scrostata dall’uso. Occupazioni e incarichi sono in scala. Apollo è un playboy arrapato (metamorfizza le amate riottose in alberi del parco, come quello vero fece con Dafne). Afrodite è una ninfomane addetta a una chat erotica. Ermes un motociclista con casco e stivali alati. Prende sul sellino i trapassati e li accompagna al portale. Per forza, è «psicopompo», guida di anime. Ha un da fare indiavolato, perché c’è sempre qualcuno che muore. Gli sta a pari, per impegno lavorativo, soltanto Ares, guerrafondaio, che passa ore sulle carte geografiche studiando le occasioni più ghiotte per scatenare conflitti. La guerra fredda è fuori tempo massimo? Peccato, c’è sempre l’Africa in ebollizione, e poi l’Iran promette più che bene. Dioniso è un dj disoccupato, che mixa e scratcha, mentre Zeus è un patriarca isolato in solaio, la pelle cascante, le gambe scheletrite, ma gli occhi ancora di diamante azzurro e il fulmine vibrante.
Inventiva romanzesca, da parte della Phillips. Ma il dettaglio è tornito con l’accuratezza di chi i testi di mitologia «vera» li ha compulsati parecchio, e con acume. Artemide (lavora da dog sitter, ci mancherebbe) irrompe in casa e, infastidita dalle performance di Dioniso, lo apostrofa: «Ubriacone d’un caprone!». Nell’insulto si condensano pagine di antropologia dionisiaca, perché il nume dei baccanali, oltre ad alzare il gomito, era anche alla testa di una brigata di Satiri, mostri caprini con una notevole aura religiosa, se è vero che dai loro cori, all’inizio sgangherati, fiorì poi il prodotto più austero e classico, la tragedia greca.
La parte umana della storia tocca ad Alice, una tenera ragazza delle pulizie che prende servizio nella divina bicocca. E comincia a soffrire. Gli dei, con i mortali, si comportano male (nel titolo originale, Gods behaving badly, il taglio è esplicito), il contatto devasta. Anche qui il ricalco non fa una grinza, le fonti greche sono concordi, meglio stare alla larga dall’Olimpo, i viventi sono gli zerbini su cui quelli di lassù scaricano nevrosi, rivalità e gelosie. Alice attizza Apollo, ma è scontrosa, e lui la fa fulminare da Zeus. La ragazza è stesa sul selciato. In una scena da Ghost, la sua larva aleggia, eccola sulla moto rosso fiammante di Ermes, al «portale». Qui, deve pagarsi la corsa con l’«obolo» (una monetina che gli antichi ponevano sotto la lingua del morto, per il nolo di Caronte, il tetro traghettatore degli spettri), un biglietto ordinario, da obliterare alla stazione d’arrivo.
Sono atmosfere che ricordano Orfeo negro, il film di Camus ispirato a Vinicius de Moraes. Anche perché Alice, in realtà, è Euridice, e il suo Orfeo, Neil, il ragazzo innamorato, ma un po’ spento, riuscirà da perfetto antieroe a strapparla dalle grinfie di Ade e dagli artigli di Cerbero, un cagnaccio da fumetto manga, con cui Artemide ingaggia uno scontro finale stile arti marziali. Si sente sulla pagina la preoccupazione, un po’ pedante, di non sgarrare: dislocare, va bene, ma con le proporzioni esatte al millimetro, quasi con il timore di una matita blu da classicista pronta a denunciare lo svarione.
Apriamo Il mito greco, nuovissimo Meridiano Mondadori (pagg. LXXIV-1525, euro 55) per scoprire che la Phillip si è informata bene, prima di sbrigliare la fantasia. L’opera è curata da Giulio Guidorizzi, grecista, accademico, che si è proposto di confezionare sulla materia (per ora gli dei, gli eroi sono annunciati in un secondo tomo) un «libro bello», nel senso di completo, scientifico, con gli apparati, ma gradevole. Lo è. Qui il mito è racconto puro. Interpretazioni e scavi psicanalitici sono lasciati ad altri. Le fonti, greche e latine, sono accorpate sui temi, per narrare: i poeti, gli storici, i mitografi, gli enciclopedisti, i biografi collaborano all’enorme affresco. Ritroviamo tutti i personaggi della Phillips, ma nel conio originario. Pausania nella sua Guida della Grecia ci descrive l’inferno dipinto da Polignoto: più o meno, la fermata di Angel. Joseph Campbell l’aveva scritto, in L’eroe dai mille volti: l’ultima incarnazione di Edipo è lì, aspetta che il semaforo diventi verde all’angolo tra la Quarantaduesima e la Quinta. Il mito è psichico, fiorisce, eterno, nei recessi della mente.
Metropolitana londinese. Fermata di Angel. Un posto come tanti. Shopping, cinema, qualche fast food, autobus che scaricano gente, metà con l’ombrello aperto, siamo a Londra. Là sotto sferragliano i convogli. Upper Street, è l’indirizzo: «Di sopra». Se c’è un «di sopra», vuol dire che c’è anche un «di sotto». Eccome, se c’è. Si attraversa l’ultima banchina, si va al di là dello strato di piastrelle e compare un’altra fermata, un marciapiede che sembra non finire da nessuna parte.
La folla che si raccoglie lì - come foglie cadute dai rami in una bufera - è immensa. Una babele di lingue. Età diverse. Ragazzi con la testa fracassata dall’incidente, soldati in frantumi, tossici in overdose e loro, i più rassegnati, i più tranquilli, i vecchietti con il pigiama dell’ospedale o il vestito stirato dell’ultima apparizione in società. Perché siamo al «portale». Passerà un treno, e i defunti andranno a destinazione, un quartiere incolore, casette neo Tudor fatte con lo stampino, sotto un cielo uggioso, in una luce fievole, in un silenzio da cimitero di ovatta. I greci antichi l’avrebbero chiamato Tàrtaro o, dal nome del signorotto locale, Ade.
Ci avviamo al punto di svolta del romanzo di Marie Phillips, Per l’amor di un dio (Guanda, pagg. 290, euro 16,50, traduzione di Elisa Banfi), ma il guizzo poetico e il metodo dell’autrice sono ormai lampanti. Il barnum della mitologia è dislocato ad Hampstead Head, in un fatiscente olimpo vittoriano che ospita gli dei superstiti. Il gioco è fatto. Si tratta di inventare, riga per riga, la trasposizione accettabile. La Phillips lo fa, con ironia e smalto, divertendosi (anche se il tono è serio, e la storia è lacrimosa, edulcorata solo dall’happy end): chi legge procede anche per la curiosità di scoprire come quel mondo irrigidito dalla venerazione del tempo possa ingranare, nella «laica» sarabanda dell’oggi.
Gli dei formano una famiglia rissosa (ci sta, è così anche in Omero, tanto per cominciare), inquilini annoiati di un mausoleo che, per batacchio, ha una corona di alloro scrostata dall’uso. Occupazioni e incarichi sono in scala. Apollo è un playboy arrapato (metamorfizza le amate riottose in alberi del parco, come quello vero fece con Dafne). Afrodite è una ninfomane addetta a una chat erotica. Ermes un motociclista con casco e stivali alati. Prende sul sellino i trapassati e li accompagna al portale. Per forza, è «psicopompo», guida di anime. Ha un da fare indiavolato, perché c’è sempre qualcuno che muore. Gli sta a pari, per impegno lavorativo, soltanto Ares, guerrafondaio, che passa ore sulle carte geografiche studiando le occasioni più ghiotte per scatenare conflitti. La guerra fredda è fuori tempo massimo? Peccato, c’è sempre l’Africa in ebollizione, e poi l’Iran promette più che bene. Dioniso è un dj disoccupato, che mixa e scratcha, mentre Zeus è un patriarca isolato in solaio, la pelle cascante, le gambe scheletrite, ma gli occhi ancora di diamante azzurro e il fulmine vibrante.
Inventiva romanzesca, da parte della Phillips. Ma il dettaglio è tornito con l’accuratezza di chi i testi di mitologia «vera» li ha compulsati parecchio, e con acume. Artemide (lavora da dog sitter, ci mancherebbe) irrompe in casa e, infastidita dalle performance di Dioniso, lo apostrofa: «Ubriacone d’un caprone!». Nell’insulto si condensano pagine di antropologia dionisiaca, perché il nume dei baccanali, oltre ad alzare il gomito, era anche alla testa di una brigata di Satiri, mostri caprini con una notevole aura religiosa, se è vero che dai loro cori, all’inizio sgangherati, fiorì poi il prodotto più austero e classico, la tragedia greca.
La parte umana della storia tocca ad Alice, una tenera ragazza delle pulizie che prende servizio nella divina bicocca. E comincia a soffrire. Gli dei, con i mortali, si comportano male (nel titolo originale, Gods behaving badly, il taglio è esplicito), il contatto devasta. Anche qui il ricalco non fa una grinza, le fonti greche sono concordi, meglio stare alla larga dall’Olimpo, i viventi sono gli zerbini su cui quelli di lassù scaricano nevrosi, rivalità e gelosie. Alice attizza Apollo, ma è scontrosa, e lui la fa fulminare da Zeus. La ragazza è stesa sul selciato. In una scena da Ghost, la sua larva aleggia, eccola sulla moto rosso fiammante di Ermes, al «portale». Qui, deve pagarsi la corsa con l’«obolo» (una monetina che gli antichi ponevano sotto la lingua del morto, per il nolo di Caronte, il tetro traghettatore degli spettri), un biglietto ordinario, da obliterare alla stazione d’arrivo.
Sono atmosfere che ricordano Orfeo negro, il film di Camus ispirato a Vinicius de Moraes. Anche perché Alice, in realtà, è Euridice, e il suo Orfeo, Neil, il ragazzo innamorato, ma un po’ spento, riuscirà da perfetto antieroe a strapparla dalle grinfie di Ade e dagli artigli di Cerbero, un cagnaccio da fumetto manga, con cui Artemide ingaggia uno scontro finale stile arti marziali. Si sente sulla pagina la preoccupazione, un po’ pedante, di non sgarrare: dislocare, va bene, ma con le proporzioni esatte al millimetro, quasi con il timore di una matita blu da classicista pronta a denunciare lo svarione.
Apriamo Il mito greco, nuovissimo Meridiano Mondadori (pagg. LXXIV-1525, euro 55) per scoprire che la Phillip si è informata bene, prima di sbrigliare la fantasia. L’opera è curata da Giulio Guidorizzi, grecista, accademico, che si è proposto di confezionare sulla materia (per ora gli dei, gli eroi sono annunciati in un secondo tomo) un «libro bello», nel senso di completo, scientifico, con gli apparati, ma gradevole. Lo è. Qui il mito è racconto puro. Interpretazioni e scavi psicanalitici sono lasciati ad altri. Le fonti, greche e latine, sono accorpate sui temi, per narrare: i poeti, gli storici, i mitografi, gli enciclopedisti, i biografi collaborano all’enorme affresco. Ritroviamo tutti i personaggi della Phillips, ma nel conio originario. Pausania nella sua Guida della Grecia ci descrive l’inferno dipinto da Polignoto: più o meno, la fermata di Angel. Joseph Campbell l’aveva scritto, in L’eroe dai mille volti: l’ultima incarnazione di Edipo è lì, aspetta che il semaforo diventi verde all’angolo tra la Quarantaduesima e la Quinta. Il mito è psichico, fiorisce, eterno, nei recessi della mente.
«Il Giornale» del 28 giugno 2009
Nessun commento:
Posta un commento