14 giugno 2009

Mettiamoci d'accordo: la verità non c'è più

Filosofia: la parabola del Novecento
Di Gianno Vattimo
Nell’Etica per i laici dell’americano Richard Rorty l’affermazione di concretezza e autonomia rispetto alle religioni, ma non in antitesi ad esse

Ho conosciuto Richard Rorty nel 1979, a Milwaukee, dove avevano organizzato una conferenza sul postmoderno a cui partecipavano anche, tra gli altri, Ihab Hassan, un pensatore egiziano che aveva scritto dei libri sulla postmodernità, e Hans-Georg Gadamer, il maestro dell’ermeneutica novecentesca, morto nel 2002 a centodue anni.
Mi sentivo un po’ imbarazzato nei confronti di Rorty perché, oltre a essere più anziano di me, anche se di poco, aveva appena vinto un importante premio per il suo libro Philosophy and the Mirror of Nature (Princeton University Press 1979), ed era dunque l’americano di grande prestigio del convegno. Dopo aver dato un’occhiata al mio intervento, mi ha chiesto di poterlo leggere; io non conoscevo il suo libro, che del resto era uscito quell’anno, né tanto meno lui conosceva i miei, ma ci siamo accorti che dicevamo cose simili. Da quel momento è nata una grande amicizia, e, da parte mia, anche un certo devoto rispetto.
Già allora Rorty stava anticipando una corrente post-analitica della filosofia anglosassone che - la riassumo brevemente perché si capisca il senso del suo lavoro - si fondava sull’idea che i tre grandi pensatori del Novecento fossero stati John Dewey, Ludwig Wittgenstein e Martin Heidegger. Ora, se già mettere Dewey e Wittgenstein insieme potrebbe sembrare audace, certo metterli tutti e due insieme a Heidegger risultava scandaloso, ma anche creativo. La filosofia americana degli anni successivi non si è tutta convertita a una forma di pragmatismo ermeneutico, ma certo si è sempre più avvicinata - in tanti suoi rappresentanti eminenti oggi ben noti anche in Europa, come per esempio Robert Brandom - a certe tesi della filosofia europea fondamentalmente ispirate all’ermeneutica.
Ora vi risparmierò la lezione sull’ermeneutica, ma, riassumendo, l’idea era: nella filosofia del Novecento è tramontato ormai quel sogno di cui già Husserl aveva annunciato la fine, Ausgeträumt, il sogno della filosofia come scienza rigorosa che aveva ancora caratterizzato sia il positivismo sia la fenomenologia, da un lato e dall’altro della Manica, se non dell’Atlantico. C’era l’idea che la filosofia dovesse essere una buona rappresentazione o della realtà o comunque una buona rappresentazione dei modi in cui noi rappresentiamo la realtà.
Il libro che Rorty mi ha regalato personalmente a Milwaukee, uscito qualche anno dopo in italiano con il titolo La filosofia e lo specchio della natura (Bompiani 1986) - con una mia introduzione scritta insieme con l’autorevole collega wittgensteiniano Diego Marconi - in sostanza diceva che, per molti secoli, la filosofia si era preoccupata di fornire le garanzie che la rappresentazione che ci facciamo della realtà è fedele.
Lo specchio significava che la filosofia doveva aiutare a riflettere fedelmente la Natura o orientando la scienza, se vogliamo parlare con Kant, oppure semplicemente mostrando le strutture di base secondo cui noi rispecchiamo la Natura. Ma per Rorty tutto questo era in realtà un sogno metafisico, come aveva già detto Heidegger: era l’idea che l’essenza del nostro stare al mondo consistesse nel contemplare la verità oggettiva e poi, oltre tutto, osservarla. Ricordiamo che «osservare» in italiano può significare sia guardare una cosa per scoprire com’è fatta, sia seguire, rispettare, come nel caso di «osservare una legge». Se vogliamo, la tradizione metafisica europea era legata all’idea che, osservando le cose come stanno, si imparasse anche a osservare le norme.
Le norme però, come diceva già Hume - filosofo anglosassone, del resto - non si possono ricavare dai fatti. Se uno è qualcosa, lo è. Se non lo è e gli si dice che deve esserlo, bisogna spiegargli perché deve esserlo. «Sii uomo!» me lo dice in genere chi mi vuol mandare in guerra, ma dovrebbe anche spiegarmi perché dovrei andare in guerra.
Perché il discorso di Rorty si riferiva a grandi autori come Wittgenstein, e, prima di tutto, come Dewey? Perché Dewey è il fondatore del pragmatismo. Rorty riprende il pragmatismo di Wittgenstein, che nel secondo periodo del suo pensiero aveva inventato i giochi linguistici: ogni settore della nostra esistenza parla un linguaggio, e la verità o la falsità o comunque la ragionevolezza di una proposizione dipendono dalle regole del linguaggio in cui viene enunciata. Sarebbe come dire «coi santi in chiesa, coi fanti in taverna». Se andate in taverna cantando inni mariani probabilmente vi cacceranno tra grandi risate, e lo stesso avverrà se in chiesa cantate canzonacce da osteria.
Questo discorso riportava dunque il problema della verità osservativa a un orizzonte che non era più quello del guardare come stanno le cose, ma quello dell’operare nella realtà. Il pragmatismo non significava soltanto «è vero ciò che funziona» ma anche «noi siamo al mondo non per guardare come sono le cose ma per produrre, per fare, per trasformare la realtà». In vista di che? Ma della nostra felicità. Dovremmo essere felici quando abbiamo saputo come stanno le cose? E perché mai? Se uno si ammala e gli viene spiegato che è malato perché le sue ossa si stanno erodendo, sarà felice? No, a meno che gli si possa dare anche il farmaco che lo cura. In quel caso sapere la verità gli serve per uno scopo, per tentare di non essere troppo infelice. Questo, in parole povere, è il pragmatismo del discorso di Rorty. Perché va d’accordo con gli ermeneutici e con Heidegger? Perché Heidegger è quello che ha anche detto che l’esistenza è progetto e che ogni filosofia - ogni pretesa di validità, non diciamo di verità - è fondata sulla condivisibilità del progetto che essa presenta. Io stesso, del resto, sono ormai diventato pigro, e non leggo più nessun libro di filosofia che pretenda di dirmi come stanno le cose: voglio che fin dall’inizio dichiari come vuole farle diventare. Se non propone un progetto che mi interessa, magari lo leggerò perché devo recensirlo, ma non certo perché sono curioso di sapere come stanno le cose secondo quel libro.
Riassumerei i discorsi rortyani - che io declino in un modo leggermente diverso da lui - dicendo che nel Novecento la filosofia è passata dall’idea di verità all’idea di carità: il valore supremo non è la verità come descrizione oggettiva, il valore supremo è l’accordo con gli altri.
Si obietterà: «Come ci mettiamo d’accordo se non sappiamo come stanno le cose?» Diciamo che sappiamo come stanno le cose quando ci siamo messi d’accordo, ovvero quando, sulla base di una serie di premesse, di esigenze e anche di metodi condivisi ereditati dalla storia, raggiungiamo un punto in cui siamo d’accordo, siamo soddisfatti, non ci domandiamo più reciprocamente: «Ma che cosa dici?».
Questo è un modo per dare ragione a Rorty e a molti suoi maestri, al nostro comune amico Gadamer, in tanti sensi persino a Jacques Derrida, e anche a Jürgen Habermas, perché, nonostante ultimamente abbia cominciato a parlare di natura umana, suscitando il plauso delle gerarchie vaticane - almeno su quel punto specifico - in realtà pensa che la razionalità di un discorso consista nella sua presentabilità decente agli altri.
Non potrei mai dire in questa sede delle cose che non trovaste decenti; poi si potrebbe discutere se vanno o non vanno, ma l’essenziale è, di nuovo, non tanto la corrispondenza ai dati di fatto - lo specchio della Natura - quanto la comune ricerca della felicità, l’accordo e, se si vuole, anche la carità.

Il testo di Gianni Vattimo che pubblichiamo è l’introduzione a «Un’etica per i laici di Richard Rorty» edito da Bollati Boringhieri per Torino Spiritualità.
«La Stampa» dell’11 settmbre 2008

Nessun commento: