Crainz, storico ed ex di Lotta continua: sulla Cecoslovacchia noi figli insensibili come i padri del Pci nel ‘56
di Jacopo Iacoboni
I figli spesso fanno gli stessi errori dei padri, con l’aggravante che presumono di criticarli, e si considerano quasi sempre migliori. «Successe anche a noi, la generazione di Lotta Continua», dice Guido Crainz, oggi affermato storico e autore di libri importanti sulla storia oscura d’Italia (su tutti Il Paese mancato), da ragazzo membro del direttivo di Lc. «Anche noi fummo ciechi dinanzi alla repressione sovietica che colpiva i nostri coetanei», lamenta autocritico Crainz, i figli insensibili di fronte all’invasione di Praga proprio come i padri lo erano stati dinanzi alla repressione in Ungheria.
«Quel giovane movimento intellettuale, che rivendicava a gran voce “l’impossibile”, ebbe poco tempo e sguardi solo fuggevoli per altri giovani, per i quali l’“impossibile” era – come per gli studenti ungheresi del 1956 – libertà di parola e di stampa, di associazione e di voto. Ebbe una solidarietà superficiale e distratta per la Cecoslovacchia, vibrò di poche passioni per essa ed ebbe molte diffidenze per il suo “nuovo corso”, pur condannando l’invasione sovietica». Il j’accuse di Crainz arriva inaspettato nella prefazione di un libro di Gyorgy Dalos, Ungheria, 1956, appena uscito da Donzelli. E ha una forza dirompente, perché a prima vista parrebbe ardito rivolgere (anche senza nominarli) ai Sofri, Viale, De Luca, Boato, Rostagno - quelli che di lì a un anno fonderanno il più famoso gruppo extraparlamentare della storia italiana - la stessa accusa che si indirizza solitamente a uomini come Palmiro Togliatti, Pietro Ingrao, Luigi Longo, o al vecchio Pajetta che ancora nell’88, trentadue anni dopo l’Ungheria, rimproverò Piero Fassino di aver detto parole «troppo chiare» su quel crimine.
Crainz la prende alla lontana: «Per più versi fare i conti con il 1956 sembra diventare simbolo di un continuo fare i conti con il proprio passato e con il proprio futuro. Costringe a interrogarsi su se stessi». Un interrogarsi tanto più pressante per chi sente di appartenere a quella famiglia che ancora, all’alba del 2006, può definirsi “di sinistra”. «Forse non vale solo per chi ha vissuto direttamente l’ottobre ungherese», osserva lo storico-ex militante. Questo interrogarsi «riguarda anche chi, lontano da quelle speranze e da quei drammi, preferì acquietare la propria coscienza con giudizi deformanti e infondati, o con smemoratezze e rimozioni».
E voilà, la Rimozione. Finora era un luogo comune letterario usato a larghe mani nel vasto filone dell’autocritica di scuola Pci: da Ingrao, che scrive di Budapest come il suo grande errore, l’Errore, al presidente Giorgio Napolitano, che pure nell’86 fu il primo comunista a pronunciare una radicale autocritica pubblica. Ora vien fuori che ci sarebbe stata anche una rimozione operata dal Movimento. I figli uguali ai padri.
Certo Crainz ricorda come il Pci, che pure nel ‘68 espresse il suo «grave dissenso» per l’invasione della Cecoslovacchia marcando una cesura rispetto al ‘56, subito dopo arretrò, accettando la normalizzazione voluta da Mosca. Ma fu «molto più grave» l’arretramento dei futuri ragazzi di Lc e Potere operaio: «È difficile oggi comprendere appieno le ragioni di quell’arretramento, così come ci appare del tutto incomprensibile la flebile sensibilità a questi temi dell’area culturale e politica emersa in quei mesi alla sinistra del Pci: la “generazione del Sessantotto”, la generazione e il movimento di cui ho fatto intensamente parte». Poi sì, eccezioni ci furono. Leo Huberman denunciò la sordità della “nuova sinistra”, inascoltato, dice Crainz. Il manifesto (illuminato titolo di Rossana Rossanda) scrisse Praga è sola, come lo era stata Budapest. Ma molti se ne fregarono. «Vi fu anche qualche piccola frangia che approvò la repressione, come la approvarono Cuba e il Vietnam, presi in quegli anni a simbolo di un comunismo alternativo». Converrebbe, forse, riparlarne. «Quella cecità, quella insensibilità intellettuale e umana segnalano le crepe profondissime di una cultura che si voleva libertaria e innovativa ed era invece soffocata sul nascere da una arcaica ideologia», quasi una coazione a ripetere freudiana, nella storia della sinistra italiana.
«La Stampa» del 25 ottobre 2006
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