Il politologo Ralf Dahrendorf lancia l'allarme: i cittadini contano sempre meno nelle decisioni dei parlamenti e dei governi
di Ralf Dahrendorf
di Ralf Dahrendorf
«Le persone non hanno fiducia nei rappresentanti politici, tuttavia si rassegnano nell’indifferenza. Questa via prepara derive autoritarie»
La democrazia è oggi sotto forte pressione, anche in Europa. Questa pressione, in particolare sulla democrazia rappresentativa o parlamentare, è tale da obbligarci a riconsiderare lo statuto stesso della libertà. Essa, inoltre, proviene contemporaneamente da due fronti. All'interno dei singoli paesi, vari fenomeni concorrono a innescare una sorta di autoritarismo strisciante. Questi fenomeni interni sono rafforzati da quella che è volgarmente chiamata globalizzazione, cioè l'emigrazione delle decisioni importanti verso spazi in cui le istituzioni e i processi democratici non esistono.
Molti di noi ricordano ancora con gioia quei mesi di molti anni fa quando un paese dopo l'altro, a est della Cortina di Ferro che crollava, si liberava dalle regole della nomenclatura per muovere i primi passi esitanti verso la democrazia. Come popperiano, io non sono mai stato d'accordo con l'idea che le minacce alla libertà fossero state debellate per sempre e che si fosse realizzata la sintesi finale di Hegel (o di Kojève). Allo stesso tempo non avevo previsto che, nel giro di poco più di un decennio, i rischi per la democrazia sarebbero diventati tanto gravi.
Negli ultimi anni, due dei maggiori paesi europei, l'Italia e il Regno Unito, hanno subito, pur sopravvivendo, campagne elettorali che sono state l'espressione di ciò che potremmo definire l'anti-politica. Qualcosa di simile è avvenuto anche in Gran Bretagna, con Tony Blair, un leader che evita le istituzioni politiche, come partito e parlamento, e si rivolge direttamente alla gente, o, meglio ancora, a focus groups scelti come campioni rappresentativi della popolazione. Il primo atto di Tony Blair, all'epoca del suo primo mandato, è stato infatti quello di ridurre i giorni dedicati alle interrogazioni parlamentari da due a uno - atto simbolico ma significativo.
C'è anche un'altra faccia della medaglia. Benché l'affluenza alle urne sia ancora alta in Europa, almeno rispetto agli Stati Uniti, nondimeno gli osservat ori riscontrano una diffusa apatia, se non un vero e proprio cinismo, nei riguardi della politica. La gente non è interessata e, pur non avendo alcuna fiducia in chi è al potere, non si preoccupa di reagire. È così che emerge la sindrome autoritaria. Diversamente dal totalitarismo, l'autoritarismo non è fondato sulla mobilitazione permanente di tutti i soggetti, ma sul loro disinteresse.
Ora, questo autoritarismo strisciante non sempre trionfa. In Francia c'è una salda tradizione: cittadini e lavoratori sono sempre pronti a scendere in piazza per costringere il governo a rivedere le sue decisioni. Ma nulla di ciò è democrazia nel senso indicato da James Madison o John Stuart Mill. Rafforzare il parlamento è diventato un compito arduo. Democrazia vuol dire tre cose: realizzare i cambiamenti senza l'uso della violenza; rispettare equilibri e controlli nell'esercizio del potere; dare peso all'opinione pubblica. La democrazia parlamentare o rappresentativa coniuga questi elementi mediante l'elezione di rappresentanti che nel parlamento, e grazie ad esso, possono cambiare gli indirizzi politici e, se necessario, i governi, come pure monitorare e controllare l'esercizio del potere. Tali istituzioni si sono sviluppate storicamente durante la formazione degli stati nazionali. Sia Madison che Mill (e molti altri) offrono riflessioni importanti sulla dimensione e sulla natura - o, meglio, sulla cultura - delle comunità nelle quali operano istituzioni democratiche; Madison parla di uno spazio in cui vi sono "accordi di lealtà", Mill di "nazionalità".
Comunque si definisca o si descriva lo spazio tradizionale delle istituzioni democratiche, almeno da un punto di vista europeo, è certo che esso sta perdendo rapidamente terreno rispetto alle decisioni importanti: è la Banca Centrale Europea a decidere i tassi d'interesse; è la Nato a pianificare gli attacchi aerei; è il Fondo Monetario Internazionale a decidere chi debba o meno ricevere ulteriore aiuto da parte della comunità internazionale. In questi casi, almeno, ci si confronta con delle istituzioni. Ma ci sono decisioni altrettanto importanti che vengono prese da organismi meno definiti, come quando, per esempio, una società giapponese decide di investire in Galles piuttosto che in Normandia, o quando uno speculatore americano coglie l'occasione più propizia per mandare in tilt il Sistema Monetario Europeo e, così facendo, incassa miliardi di dollari. A volte sembra che a dettare legge siano "mercati" interamente anonimi.
È importante ricordare, all'inizio del XXI secolo, che lo Stato nazionale è ancora lo spazio politico più importante. Può aver perduto parte della sua forza, ma resta comunque la comunità inclusiva più importante per la maggior parte della gente. Per chi è da poco sfuggito alla dominazione imperialistica, come gli stati ex comunisti dell'Europa centrale e orientale, lo Stato nazionale non incarna solo la sovranità, ma anche la libertà.
Bisogna poi stare attenti alla falsa democrazia i cui rappresentanti, in realtà, non danno ascolto alla voce della gente. La Repubblica di Weimar è stata correttamente definita una democrazia senza democratici - ed è questa una delle ragioni per cui non è durata. Il suo contrario offre forse maggiore speranza. Anche se non possiamo avere una democrazia mondiale e neppure europea, almeno abbiamo i democratici: persone coscienti dei propri diritti, che prendono sul serio la responsabilità di difenderli attivamente.
«Avvenire» del 13 ottobre 2006
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