Come leggere «La grande bugia», il nuovo saggio di Giampaolo Pansa sulle verità taciute della guerra civile
La ricerca di legittimazione del Pci con la retorica della Resistenza
Di Ernesto Galli Della Loggia
Un libro «vergognoso, non revisionista ma falsario», «una vergognosa operazione opportunista», «libro vergognoso di un voltagabbana», «una cinica operazione editoriale»: sono solo quattro (rispettivamente di Aldo Aniasi, di Giorgio Bocca, di Liberazione e di Sandro Curzi) delle decine e decine di definizioni ingiuriose piovute sulla testa di Giampaolo Pansa quando pubblicò pochi anni fa Il sangue dei vinti. Che cosa gli rimproverava la sinistra più conservatrice e aggressiva, quella, come lui la chiama, degli «uomini di marmo»? Semplicemente di aver rotto il tabù delle migliaia di fascisti (o presunti tali, o addirittura, in più di un caso, di antifascisti perfino) brutalmente fatti fuori dai partigiani all’indomani del 25 aprile. Di avere smascherato cioè La Grande Bugia, «il racconto per metà falso (...) dilagato anno dopo anno in centinaia di libri, per migliaia e migliaia di pagine», e diventato «un’immensa tomba destinata a seppellire per sempre la verità della guerra civile italiana: quella stessa Grande Bugia che dà il titolo al libro che Pansa ha appena mandato in libreria (Sperling & Kupfer editori, pp. 469, euro 18). Si tratta in un certo senso del completamento del Sangue dei vinti. Sia perché aggiunge nuovo materiale (nuovo perlomeno per il grande pubblico) sui delitti efferati che dopo la Liberazione insanguinarono per mesi alcune zone del Paese, tra l’altro con molte vittime svanite nel nulla non essendosene mai più trovati i corpi (nella sola provincia di Reggio Emilia la cifra oscilla intorno ai 130-140!); sia perché in queste pagine Pansa cerca di spiegare le ragioni a suo avviso di quella mattanza, e insieme il perché della furibonda volontà di mantenere in piedi ancora oggi la menzogna di cui sopra. Sulle ragioni della mattanza il nostro autore non ha dubbi. Si trattò di «un’operazione pianificata messa in atto da veri e propri squadroni della morte». Non si può attribuire alcun valore, insomma, alla spiegazione / giustificazione avanzata mille volte da quando la verità ha cominciato a farsi strada e che a un dipresso suona così: «Che c’è da scandalizzarsi? Si sa, le guerre civili mica possono finire d’un tratto. Esse si lasciano sempre dietro una scia di odi che dura a lungo». Già, ma come spiegare allora - se lo è chiesto per primo Paolo Mieli - il fatto che a questa, chiamiamola così, vischiosità della guerra fossero sensibili solo i partigiani comunisti? Non risulta neppure un caso, infatti, di un commando azionista, socialista o cattolico, che settimane e settimane dopo la fine delle ostilità si sia recato a casa di qualcuno o lo abbia aspettato dietro una siepe, lasciandolo stecchito o facendone scomparire per sempre anche il cadavere. Ripeto, neppure un caso: come mai? Invece tutti i casi che conosciamo riguardano assassini commessi da uomini delle formazioni comuniste ai danni di persone che seppure avevano talvolta, ma solo talvolta, degli insignificanti trascorsi fascisti, si segnalavano soprattutto per rappresentare posizioni politiche o di classe potenzialmente ostili a quelle rappresentate allora dal Partito comunista. A cominciare da esponenti anticomunisti dello stesso mondo partigiano, come il popolarissimo comandante della divisione Cichero, Aldo Gastaldi, detto Bisogno, ventiquattrenne ex sottotenente del Genio, che nella primavera del ‘45, ci racconta Pansa, protesta sempre più duramente contro l’egemonia del Pci nelle file delle bande nonché la sua strumentalizzazione della Resistenza («Un giorno - scrive - dovremo vergognarci di essere scesi a Genova alla loro testa»), e alla fine trova la morte in un «inverosimile incidente stradale» subito dopo la Liberazione. Del tutto ragionevolmente a parere di chi scrive, Pansa è convinto che i delitti riferibili ai membri delle formazioni comuniste non fossero per nulla casuali, bensì che dietro di essi vi fosse un disegno più o meno compiuto e consapevole di conquista del potere; perlomeno che un tale disegno vi fosse in settori significativi del partito, specie nel Nord, i quali non intendevano affatto la Resistenza come una guerra contro nazisti e fascisti, ma soprattutto come una guerra di classe destinata a sfociare in un regime socialista di tipo sovietico. Dunque, l’immagine della Resistenza dominata dalla dimensione antifascista e combaciante sostanzialmente con essa è la prima delle «leggende da sfatare» che secondo l’autore costituiscono a loro volta la «Grande Bugia» che la sinistra ha finito per far credere al Paese. Le altre quattro sono: che la repubblica di Salò non abbia avuto una consistente e convinta base di massa; di converso che la Resistenza sia stata davvero una «lotta di popolo» con i contadini in particolare tutti schierati con i partigiani; che non ci sia stata - come invece c’è stata, e come! - una vasta «zona grigia» di attendisti, e infine è pure un’assoluta leggenda, secondo Pansa, quella che continua a chiamarsi «l’unità politica della Resistenza». La quale fu invece attraversata da rivalità e contrapposizioni anche feroci: «Tutti diffidavano di tutti, leggiamo, i comunisti volevano imporre la loro supremazia. E quasi sempre ci riuscivano. Gli altri si difendevano con durezza. Il braccio di ferro è stato continuo, senza pause. E spesso si è lasciato alle spalle dei morti. Ossia partigiani uccisi da partigiani». Pur essendo sempre stato e continuando ad essere un uomo di sinistra, Pansa non esita a definire l’antifascismo della vulgata storica alimentata dalla sinistra con le leggende ora dette una «ideologia proterva». Ideologia che per mantenersi in vita è ricorsa sempre più spesso negli ultimi anni ad uno strumento in particolare (di cui il nostro autore ha fatto le spese come pochi altri): l’accusa di «revisionismo», «un’arma contundente» usata senza scrupolo contro chiunque rifiutasse di credere alla «Grande Bugia». Ma perché, ci si può chiedere, la sinistra si è trovata costretta a dover «campare di antifascismo», come scrive icasticamente Pansa: dell’antifascismo di una vulgata così bugiarda? a puntare su una costruzione ideologico-retorica così priva di basi reali? La sua risposta è che ciò è dipeso in parte dall’arroganza della sinistra stessa, congenitamente incapace di riconoscere i propri torti, ma soprattutto dal suo rifiuto di tenere nel minimo conto le ragioni degli «altri», dei fascisti, e dunque dalla conseguente necessità di operare una costante manipolazione / negazione dei fatti al fine di nascondere la verità. Personalmente spingerei lo sguardo più lontano. Sono convinto, infatti, che l’origine prima della vulgata resistenzial-antifascista sia stato (oltre l’ovvia necessità di nascondere lo sporco sotto il tappeto) il tante volte sottolineato bisogno del Partito comunista di trovare una legittimazione nella nascente democrazia italiana che la sua natura totalitaria gli negava. Grazie all’egemonia culturale questo orientamento ha fondato un vero e proprio luogo comune, un topos storiografico, a cui hanno supinamente acceduto tanti altri, che oggi tuttavia, credo, viene difeso con aggressività smisurata per una ragione diversa da quella originaria. In realtà l’antirevisionismo odierno, infatti, rappresenta un momento essenziale della battaglia della sinistra per continuare a pensare se stessa come detentrice del monopolio del Bene. Ma solo se trova ogni volta qualcuno da dipingere come portabandiera del male, la sinistra, nata storicamente all’insegna di un forte rapporto con esigenze di tipo etico, continua a poter nutrire la sua illusoria certezza di essere buona o comunque migliore in modo sostanziale dei propri avversari. Cattivo è ovviamente chiunque non condivida il suo pensiero medio, i suoi pregiudizi e i suoi tabù, e siccome il fascismo è altrettanto ovviamente il prototipo del male, ecco perché - specie in anni in cui lo sgretolamento ideologico ha reso sempre più scarsi i nemici reperibili sul mercato interno (con la fortunata eccezione di Berlusconi) - ecco perché i «revisionisti» vengono automaticamente qualificati come «fascisti» più o meno mascherati, comunque dei poco di buono in qualche modo collusi con il potere cattivo. Anche così, anche con questi metodi, si è costruita quell’egemonia il cui successo consolidatosi negli anni spiega perché - come scrive Pansa, che l’ha imparato a proprie spese - nello scontro polemico è sempre meglio avere per nemica la destra piuttosto che la sinistra (...) La destra ha poche armi, pochi giornali, poche case editrici. Pochi clan intellettuali che contano. (...) La sinistra, invece, possiede tutto ciò che manca alla destra: una capacità di fuoco capace di stroncare chiunque». Soprattutto, nella guerra per la memoria del Paese essa ha dalla sua la stragrande maggioranza della storiografia accademica. La quale, non per nulla, a suo tempo è scesa massicciamente in campo contro Il sangue dei vinti e il suo autore. Ricorrendo alle più svariate motivazioni: da quella pregna di boria professorale che i libri di Pansa «non sono libri di uno storico» (Angelo D’Orsi: come se contasse questo e non già la verità delle cose dette), a quella di fornire «benzina per nuove molotov contro l’antifascismo e la Resistenza» (sempre D’Orsi), a quella di scrivere al solo scopo di «suscitare orrore e ripugnanza» (Giovanni De Luna), all’accusa di avere indebitamente alimentato «il piagnisteo sul sangue dei vinti» (Sergio Luzzatto). La sinistra di tradizione comunista o che in essa è confluita cerca insomma di difendere a tutti i costi l’idea che il binomio antifascista-Resistenza (ivi inclusa l’analisi storica di entrambi) debba essere una sorta di suo appannaggio personale in quanto parte della sua specifica identità e - essa vorrebbe far credere - solo della sua. Ma per fortuna non è così. In quanto espressione e impegno per la libertà, antifascismo e Resistenza sono conseguenza naturale di ogni fede democratica e non sopportano né pudori né clericalismi ideologici di alcun tipo. Contribuisce davvero a rafforzare quella fede perciò non chi si straccia le vesti sui suoi supposti dogmi, ma quelle personalità libere, come è appunto Giampaolo Pansa: un giornalista, sì un semplice giornalista (e sono sicuro che a lui piace essere definito solo così), che tuttavia, per restituire agli Italiani la verità sul loro passato ha fatto molto, molto di più di tanti storici di professione.
«Corriere della sera» del 4 ottobre 2006
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