L’ultimo lo ha tirato fuori Rifondazione: “Anche i ricchi piangano”. Storia degli slogan che i partiti hanno affidato ai manifesti. Dai forchettoni del Pci alla spada della Dc contro divorzio e libero amore
di Stefano Di Michele
di Stefano Di Michele
Mettiamo che l’arma più potente sia la cinematografia – come si diceva – o la televisione – come si dice. Scipione l’africano e la velina, per capirci. Però i manifesti non scherzano. Perché il film finisce e l’elettrodomestico casalingo si spegne, ma il manifesto resta lì incollato al muro, sfida il sole e sfida la pioggia, e se hai sbagliato qualcosa sta dispettosamente saldo come neanche una cupola del Brunelleschi: disagio per i sostenitori e straordinario mezzo di presa per il culo per i detrattori. A riprova, non è avara di esempi la cronaca patria. Così, prima di arrivare all’ormai mitico “Anche i ricchi piangano” – a sua volta filiazione di “Anche i ricchi piangono”, stucchevole telenovela sudamericana all’alba degli anni Ottanta – rapidissimo ripasso. A metà degli anni Sessanta alla Dc, che se l’era sempre cavata benissimo da sola, vengono le paturnie moderniste. E invece di chiedere come sempre soccorso ai preti, rivolge la sua attenzione verso gli Stati Uniti, all’Institute for Motivational Research. Il quale istituto mette in testa a Fanfani e soci che l’immagine del partito è vecchia, che c’è in giro una certa stanchezza per il benemerito scudocrociato. Così i democristiani – che al massimo si erano spinti a formulare un decalogo per il militante (riprodotto nel libro “Il nemico interno”, di Angelo Ventrone) dove una delle domande già aveva un vago sapore di preveggenza: “Quante ragazze sono uscite sane dai balli comunistici?” e tutto il capolavoro stava in quella parolina, “sane” – azzardano un’innovazione grafica. Approfittando del ventennale delle “idee ricostruttive della Democrazia Cristiana”, qualunque cosa significhi, fece stampare un curioso manifesto che viene così descritto: “Più moderno dei soliti e molto più vicino alle immagini pubblicitarie del sapone Lux”, (“I comunisti mangiano i bambini. La storia dello slogan politico”, di Gianluigi Falabrino). In pratica, una ragazzotta dal largo sorriso, folta di chioma e forte di petto, un cappello in una mano e un mazzo di fiori nell’altra: la pulzella nientemeno doveva significare le fresche carni e la giovanile condizione della democristianeria tutta. E già così la cosa era azzardata. Ma si andò oltre: sotto la giovanetta fu sistemata una scritta: “La Dc ha 20 anni”. Ora, mica era difficile immaginare la reazione tanto dei comunisti senzadio quanto della tendenza alla malacreanza della popolazione maschile tutta. Perciò sui muri italici fu tutto un generoso fiorire di integrazioni per l’innocente slogan “La Dc ha 20 anni”: dalla becera constatazione “Ed è già così puttana” al triviale proponimento “E’ ora di portarsela a letto”. Proposta come candido biancofiore, l’innocente creatura fu rapidamente trasformata dagli imbrattatori del tempo in disponibile battona. Meglio, molto meglio, quel manifesto democristiano dove compariva uno scheletro in catene, dentro una buia cella, che ammoniva i passanti: “Io ho votato una volta comunista e non posso più pentirmene”. Veniva poco da fare gli spiritosi, casomai sorgeva l’esigenza di una rapida e insieme energica toccatina. Esigenza, del resto, che si è riproposta tale e quale durante l’ultima campagna elettorale, quando quelli dell’Ulivo hanno avuto la bella pensata di coprire i muri di manifesti con un inquietante interrogativo: “Arrivi a fine mese?”, con vaga e impalpabile figura di casalinga indigente sullo sfondo. Gli ideatori avevano in testa una ferma denuncia dell’increscioso stato del borsellino della massaia, svuotato anzitempo dalle rapine berlusconiane, ma l’effetto risultava tutt’altro. In un niente quel gravoso interrogativo sull’arrivare a fine mese si trasformava nell’inquietante domanda sull’esserci, a fine mese. Fu tutto un palpare, un brancicare, un palpeggiare, e insieme uno sfottere, uno spiegare, un rinculare, ché va bene il giorno per giorno – se poi si è umani, e per di più di sinistra – ma addirittura con apposita affissione murale… Più sottile, invece, quello che alcuni decenni anni fa accadde con un manifesto delle donne progressiste, comuniste e socialiste. Imperante il centrismo democristiano, oppure alle viste solo un modesto correttivo politico, le militanti fecero conoscere la loro opinione con apposito manifesto: “Le donne vogliono l’apertura a sinistra”. Fu uno screanzato, uno solo, ma determinante, a lasciare tracce nelle cronache del manufatto: quello che, con un pennarello, sotto la richiesta di apertura a sinistra aggiunse la sua opinione: “A me sta bene dove sta”. E così “Anche i ricchi piangano” ha dunque i suoi precedenti, allusioni sessuali a parte. In un senso e nell’altro. Cioè in quello di manifesto dall’infelice esito (e se D’Alema ha proposto di farne uno con scritto “Anche i poveri sorridano”, il segretario di Rifondazione Franco Giordano ha fatto sapere lo stesso giorno che il suo partito ha in mente proprio questo, “Anche i poveri sorridano”), e insieme quello di manifesto destinato a restare nella cronaca politica. Sarà che c’è un vago sentore di lotta di classe in giro – il Billionaire pare “tutta l’Emilia rossa brucia nella sommossa”, come in una vecchia canzone di Dalla – e il barcone miliardario inviso a Rifondazione viene quasi naturale accostarlo a un vero “classico” tra i manifesti dell’antico Pci, quel “Via il regime della forchetta”, evoluzione muraria della contesa contro i “forchettoni” governativi del tempo, inizio anni Cinquanta. Per poi fornire “un consiglio ai forchettoni” in un altro manifesto: “Contro il logorio della campagna elettorale dei comunisti bevete Cynar! Elettori, contro il logorio di 5 anni di malgoverno Dc votate Pci”. Certo, per quanto l’istinto della lotta di classe possa farsi strada – più che l’aratro è il Suv che traccia il solco – difficilmente si arriverà allo strepitoso manifesto comunista del ’55 (contenuto nel libro “Donne manifeste”, a cura di Marisa Ombra) dove un bimbo punta l’indice contro il nome di Gianni Agnelli e poi lo stesso bimbo, che si firma “Bertacca Enzo”, scrive una letterina ai suoi amici: “Cari bambini, quest’uomo è il padrone della Fiat dove lavora mio papà. Egli insieme ai suoi famigliari e amici ha detto che l’anno scorso ha guadagnato 10 miliardi di lire. Mio papà, invece, dopo tanti anni che lavora, finora è riuscito a guadagnare solo 35 mila lire al mese, appena sufficienti per vivere…”. Soprattutto democristiani e comunisti si sono inseguiti sui muri della Prima Repubblica. Non che mancassero i missini (che raffiguravano l’elettore democristiano come un Bingo Bongo con la sveglia al collo e quello comunista come uno scimmione) o quelli socialisti, ma i due maggiori partiti tenevano banco. Se da un lato c’era lo storico manifesto disegnato da Guareschi, quello con l’elettore perplesso e lo slogan “Nel segreto della cabina Dio ti vede, Stalin no!”, dall’altro si rispondeva con “Il ‘credo’ di un democristiano” per prendere di mira De Gasperi: “Siede alla destra di Truman e dalla sua volontà venne a giudicare e a dividere gli Italiani vivi e morti. Io credo in lui un falso italiano, nella gravità dei suoi peccati commessi, nella sua maledizione dai morti e dai carcerati politici e nella sua permanenza eterna all’inferno”. E se i democristiani prendevano spunto da Domenico Modugno, “lo scudo dipinto nel blu/ lo devi votare anche tu/ Dc”, così facevano i comunisti, che sull’- motivo di “Volare” idearono “Sloggiare”: “Penso a quel giorno di maggio che un dì arriverà/ e l’orizzonte che è nero, più rosa si fa/ Già vedo il democristiano che ha fatto il padrone/ mentre si appresta a lasciare le larghe poltrone/ Sloggiare! Oh oh/ Sloggiare! Oh oh oh oh/ Dal blu dipinto di blu/ facciamoli scendere giù”. Onestamente, l’inventiva di Botteghe Oscure era superiore a tutte le altre. Giancarlo Pajetta scriveva lettere agli autori dei bozzetti per sottolineare (racconta Edoardo Novelli in “C’era una volta il Pci”), come non si possa affermare che i manifesti “siano di per sé utili o inutili, ma che ci sono i manifesti buoni e quindi utili e altri non buoni e quindi inutili”. E buonissimo sarà sembrato quel manufatto color rosa carico apparso sui muri nei tardi anni Cinquanta, con la foto di Mario Riva e di altri personaggi della televisione del tempo, quando il massimo successo era “Domenica è sempre domenica”. E quindi lo slogan: “Perché ogni domenica sia sempre domenica/ per quanti vivono del proprio lavoro/ vota comunista”. Dunque è la sensibilità che è cambiata, è la società che è mutata. E quindi l’augurio che “anche i ricchi piangano” fa impressione al nostro tempo, al contrario di cinquanta o quaranta o solo trent’anni fa. Quando la Dc (pure se il manifesto più precisamente è dei Comitati civici) metteva la sua famigliola al sicuro dietro una spada con sopra scritto “voto cristiano” che calava su un groviglio di serpi, una il “divorzio” e l’altra il “libero amore”, il Pci era effigiato come una pettoruta compagna con la bandiera rossa, che calpesta – simil madonnina sezionale – un orrendo polpo che raffigura oppressione, miseria, ignoranza ecc. ecc… Gli spot (e i relativi effetti speciali) erano questi. Linguaggio molto più duro, disegni molto più crudi, scontro molto più vero. Il comunismo è raffigurato come la morte, un teschio con colbacco e stella rossa: “Vota o sarà il tuo padrone”. Lo stesso teschio – un filo bipartisan – con sopra impresso lo scudocrociato era usato dal Fronte popolare: “Democrazia cristiana significa guerra”. Comunque la famiglia è cara pure a sinistra, sono infiniti i manifesti comunisti con babbo e mamma e figlioli, oppure massaia con sporta e fiasco di vino e bimbetta progressista vicina, mentre contemporaneamente un bimbetto da parrocchietta grida dal suo manifesto: “Mamma e papà votano per me”. Se il Pci contro la Dc e De Gasperi affiggeva il Pater Nostro, missini e monarchici usano l’Atto di dolore, sotto il titolo: “Scudo crociato, voto sprecato”. Il testo: “Mio Dio mi pento con tutto il cuore di aver votato per la Democrazia cristiana nell’elezione del 18-4-48. So di essere stato ingannato da falsi propagandisti che vogliono l’Italia soggetta allo straniero e ti chiedo fermamente perdono promettendoti di non farlo più”. I democristiani perdevano per un attimo di vista i comunisti e passavano ai fascisti: una bottiglia di olio di ricino, con fiamma missina al posto del tappo e slogan ironico: “Questa fiamma non abbaglia/ perché il fuoco è sol di paglia”. D’altra parte, un manifesto che pubblicizza il congresso della stampa femminile comunista ha questa sconcertante parola d’ordine: “Contro la stampa diseducativa e immorale”. Ci sono due manifesti del tutto simili, nel dopoguerra. Simili graficamente, nei colori, quasi nelle parole. Però uno è comunista, l’altro è democristiano. In quello comunista c’è il tricolore, con una macchia con sopra lo scudocrociato, e una scatola di detersivo: “Per togliere le macchie della corruzione clericale, usa il voto comunista”. Quello democristiano ha lo stesso identico tricolore, la stessa scatola di detersivo: “Per togliere le macchie. Signora, usi il voto detersivo anticomunista”. Inattuale il voi, si nota il lei dei moderati e il tu più progressista… Anni Sessanta. Con l’arrivo della televisione molti manifesti si limitano ad annunciare l’apparizione del leader in trasmissione. Ecco quello democristiano: “Moro alla Tv. Per la Dc, il 3 novembre”. Quello comunista: “Togliatti a Tribuna politica, giovedì 16 luglio ore 21”. Ben prima del Cavaliere, furono le immagini del leader del Pci a occupare quasi tutta la propaganda del partito. A volte, curiosamente, a distanza di anni, è la stessa foto di Togliatti – spesso mentre con aria meditativa si accenda la pipa, simil Maigret, lo sguardo puntato sull’Unità aperta sulla scrivania – a comparire sui manifesti. L’ultimo vero scontro tra i due massimi partiti sui muri italiani è negli anni Settanta, al tempo del probabile sorpasso comunista sulla Dc. Che incolonnava numeri su numeri: “Pci 33,4%, Psi 12,0%, Ultrasinistra 1,6%. Totale: 47%. Manca solo il 3,1% e l’Italia diventa comunista. E’ questo che vuoi?”. Il Pci era meno brillante rispetto agli anni passati: foto di Fanfani dritto e rovesciato, e lo slogan: “Comunque la rigiri, la Dc è sempre Disordine e Corruzione”. Insomma, graficamente parlando, il momento più felice per lo scuodocrociato fu quello dei manifesti di propaganda di Jacovitti. Manifesto “come al solito dal carattere buffonesco e surreale nello stesso tempo”, secondo Angelo Ventrone – e infatti figurine, tettone, culoni, chitarre, candele, elefanti, falciemartelli e fiamme tricolori, cartelloni con i versi: “Chi dà il voto un poco a caso, mette in trappola il suo naso. Chi dà il voto per dispetto, sarà chiuso nel cassetto. Chi non vota addirittura buscherà la dittatura! Sol chi vota in modo giusto, voterà sempre di gusto”. Sull’altro fronte, qualche anno dopo, arriverà il grande Altan. La stagione del terrorismo. Il manifesto più efficace – rottura anche visiva di ogni possibile ambiguità – del Pci fu la foto di un selciato con il contorno di un cadavere disegnato dal gesso e il berretto di un poliziotto che usciva quasi fuori dal manifesto, rotolando addosso a chi osservava: “Sparano alla divisa e dentro c’è un uomo. Sparano a tutti noi”. Restano, prima della “rivoluzione mediatica” di Berlusconi, negli archivi i manifesti leghisti, quelli genere: “Sì alla polenta, no al cous cous. Orgogliosi delle nostre tradizioni”. E si capisce che ogni manifesto di ogni partito lascia una traccia, ma racconta un periodo che a volte dura solo fino al successivo passaggio dell’attacchino. Se molti soci dell’Ulivo allora si fronteggiavano sui muri, lo stesso hanno fatto diversi soci del centrodestra. Come in quel curioso manifesto con le caricature di Berlusconi e Fini (con fez): “Belli? No! Neofascisti & Monopolisti. Federalismo è bello!”. Il tempo, appunto. Lo rivoluzionò il Cav. che nonostante televisioni e veline e giornali e cinema(tografo), al fascino del manifesto mai ha resistito. Anzi. A riprova del successo il taroccamento di massa (su cui ha avuto un inizio di lagna, ma poi ha provveduto a premiare il taroccatore migliore), che ha prodotto il colpo geniale: “Meno tasse per Totti”. Perché segno del successo di un manifesto è il suo taroccamento da parte degli avversari. Quella fresca Dc ventenne di quarant’anni fa era una vera trovata. Un po’ meno l’angoscia ulivista dell’arrivo a fine mese. Far piangere i ricchi, cosa che non veniva in testa a nessuno da parecchio (o se veniva in testa non scendeva in bocca, e se scendeva in bocca non finiva sui muri), è in realtà una pensata e, così inattuale, una novità. Per lacrime bancarie e blasonate ci vuol la Finanziaria. O forse basta mettere in barca al capitalista, come Giancarlo Giannini con Mariangela Melato, un marinaio comunista, che al momento opportuno gli gridi una cosa genere (genere, però, mica la stessa cosa): “Buttana socialdemocratica e confindustriale!”. Poi gli si riga il Suv, gli si minaccia il golf, gli si nega il sushi, si chiamano i “fagottari” in Costa Smeralda e si organizza la festa dell’Unità a Cortina. Sarà più dura far ridere i poveri. Quelli sono matti, però non sono loro quelli scemi.
«Il Foglio» del 7 ottobre 2006
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