Il giurista tedesco, spesso citato da Benedetto XVI, tocca la grande questione delle basi su cui si reggono le istituzioni politiche dell’Occidente nell’epoca della secolarizzazione
Di Ernst-Wolfgang Böckenförde
«Le istituzioni politiche moderne vivono di presupposti che non possono garantire». La separazione fra sfera religiosa e sfera pubblica trova nella razionalità il trait-d'union per la convivenza fra laici e credenti
Vien da chiedersi quale sia il significato effettivo del processo di secolarizzazione fin qui realizzato. Questa evoluzione verso lo Stato ha implicato l'eliminazione dell'efficacia pubblica del cristianesimo e della sua capacità di dar forma al mondo? Lo Stato deve quindi essere considerato una forma di ordinamento politico specificamente non cristiana o a-cristiana? O bisogna dire invece che nella genesi dello Stato si è realizzato un principio di ordinamento politico-sociale che nella sostanza corrisponde al contenuto della Rivelazione cristiana, ma che doveva necessariamente affermarsi contro le potenze istituzionalizzate del cristianesimo?
Porsi questa domanda equivale a chiedersi fino a che punto la desacralizzazione dell'ordinamento politico, cioè la «desecolarizzazione dell'ambito spirituale» e la «despiritualizzazione dell'ambito secolare» che si realizzò all'interno della nascita dello Stato e assieme a essa, comporti anche una decristianizzazione.
È assai dubbio che si possa rispondere a questa domanda in un modo o nell'altro. Perché la risposta dipende essenzialmente dall'interpretazione teologica e di filosofia della storia che vien data del processo della secolarizzazione. La fede cristiana, nella sua struttura interna, è una religione come le altre, per cui la giusta forma in cui può presentarsi è quella del culto pubblico (della polis), oppure essa trascende le religioni precedenti, in quanto la sua efficacia e la sua realizzazione stanno proprio nell'abbattere le forme sacrali della religione e il dominio pubblico del culto, e nel condurre gli uomini verso un ordinamento razionale, "temporale" del mondo, cioè alla consapevolezza della propria libertà? Nientemeno che Hegel ha interpretato positivamente, da un punto di vista cristiano, il movimento della secolarizzazione proprio dell'età moderna europea, considerandolo non come negazione ma come realizzazione del contenuto della Rivelazione, la quale sarebbe venuta al mondo con Gesù Cristo. E Karl Marx ha fatto notare, criticamente dal suo punto di vista, che l'emancipazione dello Stato dalla religione non elimina né mira a eliminare l'effettiva religiosità dell'uomo. La fede cristiana è in grado di agire nello Stato "secolare" come professione di fede personale del singolo e come forza sociale (e come tale anche politica) mediata dalla convinzione religiosa dei cittadini; proprio in questo Stato, anzi, alla religione è permesso di avere questa efficacia: la libertà religiosa è libertà confessionale dei cittadini non solo in senso "negativo", ma anche in senso "positivo". Alla religione è impedito, invece, di esistere in forma istituzionale-ufficiale e quindi di partecipare all'universale dello Stato. Si può affermare allora che già solo per questo la fede cristiana è condannata alla perdita della sua efficacia nel mondo e di una possibile sua incidenza nella storia? Una domanda, questa, per nulla retorica.
Ma ancora più attuale è un'altra domanda. Di che cosa vive lo Stato e dove trova la forza che lo regge e che gli garantisce omogeneità, dopo che la forza vincolante proveniente dalla religione non è e non può più essere essenziale per lui? Fino al XIX secolo, in un mondo interpretato dapprima in modo sacrale, quindi in modo religioso, la religione era sempre stata la forza vincolante più profonda per l'ordinamento politico e per la vita dello Stato. Ma è possibile fondare e conservare l'eticità in maniera del tutto terrena, secolare? Fondare lo Stato su una "morale naturale"?
Tutte queste domande ci riportano a una domanda più profonda, di principio: fino a che punto i popoli uniti in Stati possono vivere sulla base della sola garanzia della libertà, senza avere cioè un legame unificante che preceda tale libertà?
Il processo della secolarizzazione fu anche un grande processo di emancipazione dell'ordine temporale dalle autorità e dai vincoli religiosi imposti dalla tradizione. Esso trovò il proprio compimento nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, che affidò il singolo a se stesso e alla sua libertà. Ma con ciò si poneva necessariamente, dal punto di vista dei principi, il problema di una nuova integrazione: perché lo Stato non cadesse nella disgregazione interna, occorreva che i singoli emancipati trovassero una nuova comunanza, una nuova omogeneità. In un primo momento questo problema restò nell'ombra, in quanto nel XIX secolo una nuova forza unificante prese il posto della vecchia: l'idea di nazione. All'interno di tale nuova unità si continuò a vivere sulla base della tradizione della morale cristiana. Questa omogeneità nazionale cercò e trovò la sua espressione nello Stato nazionale. Dopo il 1945 si cercò, soprattutto in Germania, di trovare un nuovo fondamento di omogeneità nella comunanza delle convinzioni di valore esistenti. Ma questo ricorso ai "valori", se lo si interroga rispetto ai suoi contenuti comunicabili, è un surrogato del tutto insufficiente, e anche pericoloso; esso apre la strada al soggettivismo e al positivismo delle valutazioni quotidiane, le quali, pretendendo ciascuna di avere validità oggettiva, distruggono la libertà invece di fondarla.
La domanda circa le forze vincolanti si ripropone quindi di nuovo, e ora nel suo vero nucleo: Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire. Questo è il grande rischio che esso si è assunto per amore della libertà. Da una parte esso può esistere come Stato liberale solo se la libertà, che esso garantisce ai suoi cittadini, si regola dall'interno, cioè a partire dalla sostanza morale del singolo e dall'omogeneità della società. D'altra parte, però, se lo Stato cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne, cioè coi mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, esso rinuncia alla propria liberalità e ricade - su un piano secolarizzato - in quella stessa istanza di totalità da cui si era tolto con le guerre civili confessionali.
Ci sarebbe da chiedersi ancora una volta - con Hegel - se anche per lo Stato mondano secolarizzato, in ultima analisi, non sia necessario vivere degli impulsi e delle forze vincolanti che la fede religiosa trasmette ai suoi cittadini. Certo non nel senso che lo si riconfiguri di nuovo come Stato "cristiano", ma invece nel senso che i cristiani comprendano questo Stato, nella sua laicità, non più come qualcosa di estraneo e nemico della loro fede, bensì come l'opportunità della libertà, che è anche loro compito preservare e realizzare.
« Avvenire» del 18 ottobre 2006
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