L'Ibm promuove Scienza dei servizi, al debutto in una ventina di campus La Bmw dietro a un centro di ricerca. I critici: così si svendono gli atenei
di Massimo Gaggi
NEW YORK — In America, nell'anno accademico appena iniziato, debutta una nuova disciplina: la Scienza dei servizi. Una ventina di università — tra esse Stanford, Georgia Tech, Arizona State e la University of California di Berkeley — hanno introdotto nei curricula corsi e programmi di ricerca nella cosiddetta Ssme, sigla che sta per Scienza dei servizi, management e ingegneria. Un'innovazione fortemente voluta dalle grandi imprese delle tecnologie avanzate e, soprattutto, dalla Ibm, che ha sensibilizzato per anni l'ambiente accademico e ha studiato questo approccio scientifico nei suoi laboratori. Una novità che — sempre per effetto di una «scintilla» Ibm — sta arrivando anche in Italia: la prossima settimana l'Università di Pavia inaugurerà il primo corso in Scienza dei servizi, sarà una delle nuove lauree specialistiche della sua facoltà di Ingegneria. Negli Usa anche altre aziende tecnologiche — come Hewlett Packard, Oracle e Accenture o, in campo finanziario, Credit Suisse — sono attivissime nel promuovere nuovi indirizzi accademici nel campo dell'informatica e dei servizi. E in South Carolina, dove ha i suoi stabilimenti americani, il gruppo automobilistico tedesco Bmw è impegnato con la Clemson University allo sviluppo — e anche alla gestione — di un modernissimo Centro ricerche automobilistiche: l'unico polo universitario di eccellenza in questo campo negli Stati del «Mezzogiorno» americano. Lo stretto legame tra industria e università negli Stati Uniti non è certo una novità. Insieme a Stato e Chiesa, sono stati gli imprenditori, nell'Ottocento, a promuovere i grandi atenei: Stanford è stata fondata dall'omonimo magnate delle ferrovie, l'Università di Chicago si è imposta grazie ai fondi del petroliere John Rockefeller, mentre l'industriale delle comunicazioni Ezra Cornell ha creato il primo nucleo dei centri accademici che portano tuttora il suo nome. La collaborazione tra accademie e industrie è stata di nuovo molto intensa nel Dopoguerra; in genere, però, ha riguardato soprattutto la gestione comune di singoli programmi di ricerca applicata, oltre alla «sponsorizzazione», da parte delle imprese, di cattedre già esistenti. Ma ora nelle accademie americane si assiste a qualcosa di nuovo: la nascita di corsi che sono non solo sostenuti, ma anche promossi — e in parte disegnati — dalle imprese.
A Clemson la Bmw partecipa alla definizione del programma accademico mentre la scelta dei docenti del Centro ricerche viene fatta dall'ateneo, ma è sottoposta alla valutazione della Casa automobilistica. E il Wall Street Journal ha raccontato che qualche giorno fa, a Raleigh, la lezione inaugurale del corso di Services Management dell'università del North Carolina è stata tenuta non da un docente ma da un manager della Ibm, un gruppo un tempo specializzato nella produzione «manifatturiera» dei computer che ormai trae più della metà dei suoi ricavi (48 miliardi di dollari su un fatturato complessivo che nel 2005 è stato di 91 miliardi) dai nuovi servizi alle imprese: dai sistemi di archiviazione, alla riorganizzazione degli uffici, alle attività di consulenza. Buona parte del mondo accademico considera coinvolgimenti come questi una inaccettabile «invasione di campo», ma le imprese giurano di non voler snaturare l'università: cercano solo di aiutarla ad adeguare la formazione dei nuovi professionisti alla realtà di un mondo che sta cambiando molto più rapidamente di quanto non venga avvertito negli atenei. La computer science, nata qualche decennio fa sull'onda del «boom» dell'informatica, faticò ad imporsi come disciplina universitaria. E molti docenti tendono tuttora a considerare le materie insegnate nelle business scho ols delle loro stesse università un «fritto misto» di aneddoti e di storie di successi aziendali, privo di un vero valore scientifico. Non c'è quindi da stupirsi che anche oggi siano in molti a dubitare che le nuove specializzazioni nel campo dei servizi meritino di essere considerate una scienza a sé. Dubbi leciti, ma è anche vero che negli ultimi anni le economie avanzate si sono spostate sempre più verso l'area dei servizi, nel sostanziale disinteresse dell'accademia (oltre che della politica). Gli Usa — dove già oggi il 75% dell'economia e l'83% dei nuovi posti di lavoro vengono dai servizi — fanno, come al solito, da battistrada.
Nel 2012, cioè domani, in America solo un nuovo posto di lavoro su 10 verrà dall'industria o dall'agricoltura. Le imprese che producono servizi si sono convinte che questa è un'area di studio troppo a lungo trascurata: se nei servizi venissero introdotte metodologie analoghe a quelle che hanno fatto aumentare a tappe forzate la produttività dell'industria, interi settori — a partire dalla sanità — potrebbero offrire prestazioni più tempestive e a costi più bassi. È una convinzione che non appartiene solo alle imprese: «È tempo di promuovere una rivoluzione nei servizi», dice Mattew Realff, direttore del nuovo programma della National Science Foundation, un organismo federale che cerca di aprire un varco su questo fronte. E quello di rafforzare i legami tra le università e le imprese — chiamate ad assumere i laureati sfornati da questi istituti — è uno degli obiettivi prioritari che si è data la Commissione sul futuro dell'istruzione superiore nominata da Margaret Spellings, il ministro di Bush responsabile per la scuola. Jennifer Washburn, analista del centro studi progressista New America Foundation, e autrice di University Inc., libro-denuncia nel quale accusa gli atenei di aver venduto la loro indipendenza alle «corporation», è convinta che i nuovi programmi elaborati col contributo delle imprese siano un altro passo verso il baratro. Anno dopo anno, la Washburn ha portato in superficie una serie di casi nei quali la libertà data alle università di sfruttare i risultati delle ricerche sul piano commerciale ha portato ad abusi: docenti che si sono impadroniti dei risultati del lavoro scientifico di studenti assai brillanti o interventi «censori» di imprese che hanno chiesto alle università di non pubblicare i risultati di ricerche condotte col loro aiuto per non offrire un vantaggio «gratuito» ai loro concorrenti. I casi più delicati si sono verificati in campo farmaceutico: le industrie spesso hanno finanziato le ricerche, salvo poi cercare di influenzare le conclusioni redatte da accademici autorevoli, chiamati a giudicare l'efficacia e il livello di tossicità di questo o quel medicinale.
Il più incendiario tra gli oppositori di questo trend è il vecchio Ralph Nader: l'ultracontestatore, paladino dei consumatori e degli ambientalisti, che ha tentato per ben tre volte la corsa alla Casa Bianca. Per lui le corporation sono il male assoluto, una fonte di corruzione della società da bloccare ad ogni costo. L'ultima campagna l'ha condotta qualche mese fa contro l'alleanza stretta dalla Northwestern University con Boeing e Ford. Posizioni così radicali restano una minoranza. La forza e la rapidità dello sviluppo economico spingono inevitabilmente le università verso le imprese: sta avvenendo quasi ovunque nel mondo, dalle università cinesi a quella di Tel Aviv. Portare la logica del mercato nell'insegnamento accademico espone al rischio di abusi, ma rende anche gli atenei molto più dinamici e concreti nei loro progetti. Per molti il fatto che quasi tutti i campus americani abbiano uffici che si occupano dello sfruttamento dei brevetti derivati da ricerche interne e che l'impegno prevalente di presidi e presidenti delle accademie sia ormai di tipo finanziario, più che didattico, è fonte inesauribile di «mal di pancia ». Ma non si può certo parlare di università colonizzata. Chi teme lo strapotere delle multinazionali dovrebbe ricordare che due ragazzini, geni della matematica, sono riusciti a costruire in pochi anni il gigante Google proprio grazie alla legge che consente ad atenei, docenti e studenti di sfruttare il risultato delle loro ricerche. Page e Brin non solo hanno creato la macchina anti Microsoft, ma l'hanno anche realizzata grazie, almeno in parte, alla stessa azienda fondata da Bill Gates: il suo nucleo è stato, infatti, costruito in un edifico donato a Stanford proprio dalla Microsoft.
«Corriere della sera» del 20 settembre 2006
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