19 settembre 2006

Scuola «egiziana» a Milano? Ecco perché sono contro

di Samir Khalil Samir
Recentemente si è parlato del progetto di aprire a Milano una «Scuola Egiziana». Vorrei, in quanto egiziano-italiano, riflettere su tre punti relativi a questo fatto.
Primo, scuola egiziana. Né araba né coranica. Questo perché il programma previsto seguirebbe l'ordinamento didattico egiziano, che non è identico a quello dei 22 Paesi arabi: la scuola saudita di Roma per esempio ha un programma che nessun arabo che si rispetta vorrebbe per i suoi figli, mentre il programma delle scuole libanesi è molto più esigente di quelle egiziane, sia per la lingua e la cultura araba sia per le altre materie. Quanto alle cosiddette «materie nazionali» (storia e geografia), ogni Paese arabo dà un insegnamento diverso e più particolareggiato. Non esiste infatti «un» Paese arabo, come non esiste un Paese europeo; esistono dei Paesi arabi, come esistono dei Paesi europei. L'aggettivo «arabo» esprime una cultura, non una realtà politica o religiosa.
Il fatto che «l'ordinamento scolastico egiziano sia riconosciuto da tutti i Paesi arabi» (come ho letto su un quotidiano italiano) certamente non indica nulla sulla sua qualità, come il fatto che l'ordinamento scolastico italiano sia riconosciuto da tutti i Paesi europei non indica né che sia buono né che sia cattivo. Purtroppo, il nostro sistema educativo egiziano e i nostri programmi scolastici sono tra i meno buoni del mondo arabo. E questo anche per motivi sociologici.
Posso dire la mia esperienza personale: negli anni Settanta sono stato incaricato dal Partito Socialista Arabo, responsabile allora dell'alfabetizzazione in Egitto, di organizzare i corsi d'alfabetizzazione per la regione est del Cairo, creando una decina di scuole serali: la mia sorpresa è stata di scoprire che più del 50% degli iscritti per imparare a leggere e scrivere erano... alunni delle scuole regolari, che avevano già compiuto da 3 a 5 anni di scuola. Da allora, la situazione è peggiorata: si stima che l'analfabetismo reale in Egitto, oggi, supera il 50% della popolazione (le cifre ufficiali danno il 34%).
Secondo, scuola d'ispirazione islamica. Si afferma che questa scuola non sarà «neppure una scuola di ispirazione religiosa come una scuola cattolica o ebraica».In realtà, chi ha praticato la scuola egiziana sa che tutto il sistema è più che ispirato dall'islam, tende a formare dei musulmani tradizionalisti e assai chiusi. Quanto a dire che «è previsto anche l'insegnamento di altre religioni, se richiesto da studenti non musulmani», la cosa fa sorridere. Da una parte, quanti saranno gli studenti non musulmani a seguire tale scuola egiziana? E sarebbe irragionevole insegnare l'ebraismo o l'induismo per un numero tanto esiguo di alunni! Ma più ancora, perché non si dice «se richiesto da studenti musulmani»? Come se si escludesse il diritto fondamentale di ogni studente di scegliere l'insegnamento religioso che vuole.
A me sembrerebbe più utile dare a questi studenti la possibilità di conoscere un po' seriamente, oltre all'islam, la religione che è alla base della cultura occidentale, cioè il cristianesimo, soprattutto se dovessero vivere domani in Egitto (non dico «tornare» perché la maggioranza di loro è probabilmente nata in Italia). Sarà l'unica chance per loro di capire un po' questa civiltà che invade il mondo (e l'Egitto), non per condannarla, ma per giudicarla.
Infine, scuola per stranieri? Si tratterebbe dunque di una scuola egiziana, come esistono delle scuole americane, francesi, eccetera. C'è però una differenza sociologica importante. Se non sbaglio, la maggioranza di chi frequenta queste scuole «occidentali» sono ragazzi di passaggio in Italia, che torneranno nei Paesi rispettivi quando i genitori avranno finito il loro incarico all'estero. Invece, la maggioranza di chi frequenterebbe la scuola egiziana sono ragazzi che rimarranno in Italia. Ed è questo il punto. Il rischio - ed è reale - è la ghettizzazione dei figli da parte dei genitori. È ragionevole correre questo rischio? E se si corre, sarà ancora possibile chiudere questa scuola come si è dovuto fare per quella di via Quaranta, una volta «sperimentata» per chissà quanti anni? Non si griderà poi al fanatismo o al razzismo?
A me, in quanto egiziano-italiano, sembra più utile per i nostri ragazzi egiziani-italiani - che in maggioranza rimarranno in Italia anche se andranno ogni anno in vacanza in Egitto - aiutarli a essere culturalmente il più integrati possibile, se vogliamo la loro felicità. E nello stesso tempo aiutare i loro genitori a capire la motivazione pratica di questa scelta, lontani da tutte le ragioni ideologiche.
«Avvenire» del 12 settembre 2006

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