di Giangiacomo Schiavi

BIOGRAFIA Dino Buzzati nasce a Belluno nel 1906 e muore a Milano nel 1972. Giornalista al Corriere della Sera, è autore di drammi, romanzi, racconti e libri che lui stesso illustrava, come Poema a fumetti. Tra le sue opere: Barnabò delle montagne, Il segreto del Bosco vecchio, Il deserto dei tartari, Paura alla Scala, Sessanta racconti (con cui vince il Premio Strega nel ‘58) e Un amore .
La lettera
Non ho l’età per un rotocalco, ora scrivo libri
Di Lorenzo Viganò
Non ho l’età per un rotocalco, ora scrivo libri
Di Lorenzo Viganò
I fogli sono tre, scritti a mano, con la sua grafia ordinata, «da putei». Tre fogli pieni di cancellature, aggiunte, spostamenti di frase, come sono in genere le minute delle lettere sofferte, lavorate a lungo prima di arrivare alla forma definitiva. È il 20 maggio 1957 quando Dino Buzzati scrive una di queste lettere ad Andrea Rizzoli, allora alla guida della casa editrice milanese insieme con il padre Angelo. È una lettera difficile, delicata, nella quale l’autore del Deserto dei Tartari deve declinare l’invito ad assumere la direzione di un nuovo settimanale che l’editore ha intenzione di varare sull’onda del grande successo registrato in quel periodo dai rotocalchi nazionali. Nonostante abbia già al suo attivo L’Europeo e Oggi, Rizzoli vuole infatti dar vita a un periodico popolare in grado di fare concorrenza a Tempo, a Epoca, all’Espresso, nato due anni prima e, soprattutto, alla Domenica del Corriere, che dopo un periodo di crisi stava tornando agli antichi splendori. La lettera, riemersa dopo quasi cinquant’anni dalle carte personali dello scrittore, oltre a svelare un episodio poco noto, accende una luce sull’uomo-Buzzati, in una sorta di autoritratto privato. Dino Buzzati ci ha pensato «lungamente su» e dopo, «con la sincerità che è mia abitudine», articola la risposta in quattro punti in odine crescente di importanza, cominciando dalla componente di rischio che un tale progetto comporterebbe. «Impostare, varare e pilotare sui combattuti oceani del rotocalco un settimanale nuovo è non solo un lavoraccio ma un impegno di responsabilità assorbente e preoccupante». La sua convinzione nasce da un’esperienza diretta. Nel 1957 Dino Buzzati, ormai firma illustre del quotidiano di via Solferino, si occupa infatti anche della Domenica del Corriere, che sette anni prima la famiglia Crespi, su consiglio di Gaetano Afeltra, gli aveva affidato perché ne frenasse la caduta libera (tremila copie perse a settimana). Buzzati ha la qualifica di vicedirettore (qualifica ufficiosa, il suo nome non compare nel colophon), ma in realtà è lui a confezionare il giornale, perché il direttore designato, Eligio Possenti, non se ne occupa. Dunque, sa bene quale impegno richieda la gestione di un settimanale, a maggior ragione se da creare ex novo. I risultati ottenuti nei sette anni trascorsi, durante i quali Buzzati ha trasformato la Domenica svecchiandone la grafica, inventando nuove rubriche, formando una squadra di collaboratori eccellenti tra cui Orio Vergani e Indro Montanelli (che su quelle pagine inaugura la sua carriera di storico), riportandola a settimanale più letto, sono stati il frutto di un lavoro che lo ha impegnato a fondo. Ricominciare da zero, quindi, è una prospettiva che lo spaventa e per la seconda volta (l’anno prima gli era stata offerta la direzione dell’Europeo) rimane dov’è. Anche perché andare significherebbe staccarsi da via Solferino e la cosa gli «costerebbe moltissimo». «Io sono entrato al Corriere nel lontano 1928, posso quindi dire di aver passato qui tutta la mia vita. Sono cose che contano». C’è in queste poche righe tutta la storia del rapporto di Dino Buzzati con il quotidiano milanese. Un rapporto professionale, ma soprattutto «sentimentale», che lo porterà a restargli fedele fino alla morte. Se in quel legame, così viscerale, profondo, quasi di dipendenza, l’orgoglio di appartenere a una casta conta, non è però l’unica ragione. Buzzati era un uomo da Corriere ancora prima di entrarci: per l’educazione ricevuta, per il suo stile di stampo ottocentesco, persino per il modo di vestire, di parlare - sempre sottovoce -. E tradire quella che ha sempre sentito come la propria casa significherebbe tradire se stesso. Senza contare il fatto che accettare la proposta di Andrea Rizzoli, influirebbe sulla sua attività di scrittore. «Io ho già 50 anni suonati e tempo buono per scrivere non me ne rimane molto. Solo che io dedichi 4-5 interi anni come minimo al nostro nuovo settimanale accantonando necessariamente i vari progetti di capolavori; dopo, non sarà troppo tardi?». Nonostante Buzzati ironizzi su se stesso e i suoi «capolavori», è innegabile che sia ormai uno scrittore affermato (nel ‘58 vincerà lo Strega), con molti progetti avviati e in cantiere. Da lì in avanti usciranno Un amore, Poema a fumetti, I miracoli di Val Morel, che forse, conoscendo Buzzati, avrebbero comunque visto la luce. Quel che lo preoccupa non è tanto la mole di lavoro, quanto i problemi e le ansie che un nuovo progetto si porterebbe appresso, togliendogli la serenità che gli permette, tornato a casa dal giornale, di mettersi a scrivere. «Adesso, per la verità», confessa nella lettera, «il lavoro al Corriere, mi lascia dormire notti tranquille». È però la quarta ragione a sgombrare definitivamente il campo da qualsiasi dubbio, mostrando l’aspetto più buzzatiano di Buzzati. «Lasciare la Domenica del Corriere per andare a fondare un settimanale che le farebbe diretta concorrenza non mi sembrerebbe elegante (se non addirittura scorretto). Come se durante una battaglia navale, direttore del tiro di una corazzata, passassi per incanto a comandare la corazzata nemica che sta per aprirle contro il fuoco». Accanto alla amata metafora militare, così ricorrente nei sui scritti, emerge da queste ultime parole la fedeltà, il profondo senso etico che sta dietro ogni sua scelta. Nonostante sia innegabile che si debba a lui il ritrovato successo della Domenica, Buzzati continua a lavorare nell’ombra. Chi potrebbe muovere obiezioni se se ne andasse? Invece no, Buzzati rimane, nonostante sappia che in casa Rizzoli troverebbe «moralmente e materialmente, le condizioni più desiderabili».
«Corriere della sera» del 19 settembre 2006
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