di Giangiacomo Schiavi
C’è un giornale segreto di Dino Buzzati, un Corriere mai nato sepolto da imbarazzi e silenzi. Spunta tra le carte di un vecchio collega, è bello, moderno, un «popolare» di classe. Ha le sue regole, i suoi codici da rispettare: sintesi come legge sovrana, grandi foto in prima pagina, una sola tecnica di scrittura, il nudo implacabile racconto dei fatti. Si ispira al Corriere d’Informazione, l’edizione del pomeriggio del Corriere della Sera, ma Buzzati annuncia una sfida: «L’Informazione sarà fatta come se il Corriere del mattino non esistesse. In più gli farà concorrenza». È un botto, nel Corriere in tight degli anni Cinquanta che Mario Missiroli, il direttore, guida con un occhio alla politica e l’altro alla gerenza, cercando di non scontentare nessuno. Buzzati è una firma nobile, Il deserto dei tartari è alle spalle, in via Solferino passa con disinvoltura da un elzeviro a un titolo a un menabò. Crede nel genere popolare, quello applicato dall’amico Gaetano Afeltra, proprio all’Informazione. Nel ‘54 gli chiedono suggerimenti, qualche idea nuova per fronteggiare la concorrenza della Notte di Nino Nutrizio, scatenata con i suoi scoop e le pagelle ai cinema di Milano. Invece di un’idea, Buzzati butta giù un progetto, un piano editoriale, le linee guida per «un giornale come non si è mai visto né in Italia né all’estero», i criteri per l’autonomia redazionale, l’organigramma con Vittorio Gorresio o Enrico Mattei al politico di Roma. In quindici cartelle, con molte sottolineature e poche correzioni, elenca le cose da fare. Primo: niente più «pastone» politico da Roma, il frullato di chiacchiere sulla giornata parlamentare «con tortuosi e retorici legamenti» che nessuno legge. Secondo: stop ai luoghi comuni, alle frasi fatte, alle ambigue citazioni fatte per sottintesi, «scrivere un giornale dell’estrema sinistra per non dire l’Unità è ridicolo». Terzo: foto e disegni saranno adottati su larghissima scala come mezzo d’informazione, «quando ci sono importanti fotografie d’attualità pubblicarle anche a nove colonne». Quarto: «La Terza pagina quale si fa adesso cesserà di esistere», perché bisogna combattere i settimanali illustrati con le loro stesse armi. Quinto: il giornale si chiamerà Pomeriggio, vecchia testata in uso al Corriere fino alla fine della Seconda guerra mondiale. «Basta con la vecchia orribile testata Corriere d’Informazione, nome stupido di per se stesso che non è mai riuscito a diventare popolare o simpatico». Anticipa il giornalismo moderno, Buzzati, quello dei settimanali che guardano Life e Paris Match. Vuole un giornale di facile leggibilità, un po’come la televisione: dove non arriva la parola c’è l’immagine e viceversa. Somiglia all’inglese Daily Express, tanta cronaca, poca politica, qualche ragazza appena appena sexy, fatti e fattacci di nera, eroi buoni in prima pagina. Ma non abbandona lo stile Corriere: «Si potrà avere qualche spregiudicatezza, senza però cadere nel genere frivolo o leggero». Nella stagione di Lascia o raddoppia?, del frigorifero a rate e della Seicento Fiat, c’è un’Italia che cambia. Buzzati la vede; il Corriere aspetta. Il suo rapporto è bocciato. Sparisce in qualche cassetto della direzione. Viene dimenticato. Quando, parecchi anni dopo, il collega Luigi Ferdinando Chiarelli diventato caporedattore dell’Informazione gliene chiede una copia, Buzzati si sorprende. È il 1961. Sono passati sette anni. Molte delle cose scritte si sono realizzate. È arrivato anche il Giorno, nel 1956, ad aprire la finestra dalla quale Buzzati aveva gettato il vecchiume e gli orpelli di un giornalismo old style, superato. Lo stesso Corriere sta voltando pagina. Così, Buzzati lascia un appunto sincero: «Caro Chiarelli, eccoti il mio vecchio memorandum. Rileggendolo oggi mi sembra così poco rivoluzionario che mi domando perché mai allora spaventò tutti quanti». Perché venne bocciato, che cosa spaventò di più l’establishment del Corriere? La fine del pastone o quello della Terza? Entrambi, forse. E la paura di scontrarsi con politici e collaboratori. Rompere un delicato equilibrio interno, anche solo per il quotidiano del pomeriggio, era una curva troppo stretta per Missiroli. Perché se al posto del vecchio insaccato di dichiarazioni politiche Buzzati chiedeva «un servizio di cronaca vivo, ricco di aneddoti, episodi, annotazioni umane», per la Terza, che conosceva meglio, era ancor più drastico: «Niente più pezzi di colore, di varietà turistica, di viaggi fine a se stessi. Bisogna far sparire il morto mosaico di pezzi generici, coloristici, letterari, che oggi nessuno legge con servizi ampiamente illustrati su fatti di attualità, anche di cronaca; rievocazioni; pezzi scientifici; pezzi sportivi. Qualche racconto se veramente bello. Cronache teatrali ampiamente e intelligentemente illustrate». Con un’avvertenza finale: «Come principio base, in Terza pagina bisognerebbe pubblicare soltanto pezzi ordinati. E non rimettersi all’iniziativa del collaboratore, raramente positiva». La storia darà ragione a Buzzati. Il suo era un buon servizio per il Corriere. Ma il Pomeriggio resta un appuntamento con l’impossibile. Cinquant’anni dopo esce dall’oblio, ma nessuno lo farà più.
BIOGRAFIA Dino Buzzati nasce a Belluno nel 1906 e muore a Milano nel 1972. Giornalista al Corriere della Sera, è autore di drammi, romanzi, racconti e libri che lui stesso illustrava, come Poema a fumetti. Tra le sue opere: Barnabò delle montagne, Il segreto del Bosco vecchio, Il deserto dei tartari, Paura alla Scala, Sessanta racconti (con cui vince il Premio Strega nel ‘58) e Un amore .
La lettera
Non ho l’età per un rotocalco, ora scrivo libri
Di Lorenzo Viganò
Non ho l’età per un rotocalco, ora scrivo libri
Di Lorenzo Viganò
I fogli sono tre, scritti a mano, con la sua grafia ordinata, «da putei». Tre fogli pieni di cancellature, aggiunte, spostamenti di frase, come sono in genere le minute delle lettere sofferte, lavorate a lungo prima di arrivare alla forma definitiva. È il 20 maggio 1957 quando Dino Buzzati scrive una di queste lettere ad Andrea Rizzoli, allora alla guida della casa editrice milanese insieme con il padre Angelo. È una lettera difficile, delicata, nella quale l’autore del Deserto dei Tartari deve declinare l’invito ad assumere la direzione di un nuovo settimanale che l’editore ha intenzione di varare sull’onda del grande successo registrato in quel periodo dai rotocalchi nazionali. Nonostante abbia già al suo attivo L’Europeo e Oggi, Rizzoli vuole infatti dar vita a un periodico popolare in grado di fare concorrenza a Tempo, a Epoca, all’Espresso, nato due anni prima e, soprattutto, alla Domenica del Corriere, che dopo un periodo di crisi stava tornando agli antichi splendori. La lettera, riemersa dopo quasi cinquant’anni dalle carte personali dello scrittore, oltre a svelare un episodio poco noto, accende una luce sull’uomo-Buzzati, in una sorta di autoritratto privato. Dino Buzzati ci ha pensato «lungamente su» e dopo, «con la sincerità che è mia abitudine», articola la risposta in quattro punti in odine crescente di importanza, cominciando dalla componente di rischio che un tale progetto comporterebbe. «Impostare, varare e pilotare sui combattuti oceani del rotocalco un settimanale nuovo è non solo un lavoraccio ma un impegno di responsabilità assorbente e preoccupante». La sua convinzione nasce da un’esperienza diretta. Nel 1957 Dino Buzzati, ormai firma illustre del quotidiano di via Solferino, si occupa infatti anche della Domenica del Corriere, che sette anni prima la famiglia Crespi, su consiglio di Gaetano Afeltra, gli aveva affidato perché ne frenasse la caduta libera (tremila copie perse a settimana). Buzzati ha la qualifica di vicedirettore (qualifica ufficiosa, il suo nome non compare nel colophon), ma in realtà è lui a confezionare il giornale, perché il direttore designato, Eligio Possenti, non se ne occupa. Dunque, sa bene quale impegno richieda la gestione di un settimanale, a maggior ragione se da creare ex novo. I risultati ottenuti nei sette anni trascorsi, durante i quali Buzzati ha trasformato la Domenica svecchiandone la grafica, inventando nuove rubriche, formando una squadra di collaboratori eccellenti tra cui Orio Vergani e Indro Montanelli (che su quelle pagine inaugura la sua carriera di storico), riportandola a settimanale più letto, sono stati il frutto di un lavoro che lo ha impegnato a fondo. Ricominciare da zero, quindi, è una prospettiva che lo spaventa e per la seconda volta (l’anno prima gli era stata offerta la direzione dell’Europeo) rimane dov’è. Anche perché andare significherebbe staccarsi da via Solferino e la cosa gli «costerebbe moltissimo». «Io sono entrato al Corriere nel lontano 1928, posso quindi dire di aver passato qui tutta la mia vita. Sono cose che contano». C’è in queste poche righe tutta la storia del rapporto di Dino Buzzati con il quotidiano milanese. Un rapporto professionale, ma soprattutto «sentimentale», che lo porterà a restargli fedele fino alla morte. Se in quel legame, così viscerale, profondo, quasi di dipendenza, l’orgoglio di appartenere a una casta conta, non è però l’unica ragione. Buzzati era un uomo da Corriere ancora prima di entrarci: per l’educazione ricevuta, per il suo stile di stampo ottocentesco, persino per il modo di vestire, di parlare - sempre sottovoce -. E tradire quella che ha sempre sentito come la propria casa significherebbe tradire se stesso. Senza contare il fatto che accettare la proposta di Andrea Rizzoli, influirebbe sulla sua attività di scrittore. «Io ho già 50 anni suonati e tempo buono per scrivere non me ne rimane molto. Solo che io dedichi 4-5 interi anni come minimo al nostro nuovo settimanale accantonando necessariamente i vari progetti di capolavori; dopo, non sarà troppo tardi?». Nonostante Buzzati ironizzi su se stesso e i suoi «capolavori», è innegabile che sia ormai uno scrittore affermato (nel ‘58 vincerà lo Strega), con molti progetti avviati e in cantiere. Da lì in avanti usciranno Un amore, Poema a fumetti, I miracoli di Val Morel, che forse, conoscendo Buzzati, avrebbero comunque visto la luce. Quel che lo preoccupa non è tanto la mole di lavoro, quanto i problemi e le ansie che un nuovo progetto si porterebbe appresso, togliendogli la serenità che gli permette, tornato a casa dal giornale, di mettersi a scrivere. «Adesso, per la verità», confessa nella lettera, «il lavoro al Corriere, mi lascia dormire notti tranquille». È però la quarta ragione a sgombrare definitivamente il campo da qualsiasi dubbio, mostrando l’aspetto più buzzatiano di Buzzati. «Lasciare la Domenica del Corriere per andare a fondare un settimanale che le farebbe diretta concorrenza non mi sembrerebbe elegante (se non addirittura scorretto). Come se durante una battaglia navale, direttore del tiro di una corazzata, passassi per incanto a comandare la corazzata nemica che sta per aprirle contro il fuoco». Accanto alla amata metafora militare, così ricorrente nei sui scritti, emerge da queste ultime parole la fedeltà, il profondo senso etico che sta dietro ogni sua scelta. Nonostante sia innegabile che si debba a lui il ritrovato successo della Domenica, Buzzati continua a lavorare nell’ombra. Chi potrebbe muovere obiezioni se se ne andasse? Invece no, Buzzati rimane, nonostante sappia che in casa Rizzoli troverebbe «moralmente e materialmente, le condizioni più desiderabili».
«Corriere della sera» del 19 settembre 2006
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